Juan Muñoz
Double Bind and Around
A cura di Vicente Todolí
l'Hangar Bicocca è un posto unico.
e questa mostra gli rende giustizia.
non posso immaginare luogo più consono alla straordinaria comunicativa di questo autore e delle sue opere.
la vastità degli spazi, la possibilità di camminarci dentro, pressochè soli, e di prendere direttamente la misura dell'arte, la nudità grezza e muraria industriale delle pareti, la ricostruzione su due piani di Double Bind e la possibilità di perdercisi, tutto concorre a fare di questa visita un'esperienza.
mi sono sentita dentro un'opera teatrale, a una rappresentazione scenica istantanea, me co-protagonista, dell'estraniamento.
superlativo.
non si entra dall'entrata principale ma di lato, percorrendo all'esterno i muri altissimi della struttura, camminando, nel mio caso nella notte, intorno a questo magazzino post industriale dalle imponenti fattezze neo archeologiche. si entra e si scorgono, di lato, le torri di Kiefer, sua magnificenza. bene, so dove sono.
ma poi non lo so più, le figure piccole, ma alla mia altezza, di Muñoz, sono mute ma parlano, eccome se parlano. sono assordanti di mutismo e cecità. e mi fanno sentire incapace di comunicare, sola, sperduta, oppressa.
c'è un effetto magico, direi, in questi personaggi che, se hanno le gambe, sono senza piedi, e se non le hanno, si reggono come su sacchi arrotondati sferici. sono fissi ma in movimento, hanno mani espressive e movimenti del busto, alcuni hanno occhi ciechi, si avvicinano e si parlano, sembrano scappare e rincorrersi.
sono, dunque, dei paradossi, sembrano morbidi ma hanno superfici dure e taglienti, di resina. c'è una contraddizione palpabile che ti coglie e ti mette in imbarazzo. cerco di parlare loro, sono ridicola?, o sto parlando a me stessa, a una me stessa ingabbiata in un movimento probabile ma impedito dalla mia stessa natura, dura e coriacea.
cammino e penso, alzo gli occhi e vedo figure galleggianti nell'aria, non sono impiccati, sono tenuti in aria da una corda che entra nella gola, una specie di cappio esofageo, una tortura inimmaginabile, un soffocamento stritolato di aria e di parola.
salgo le scale scricchiolanti di una struttura metallica e mi trovo al piano superiore di un luogo agghiacciante: ascensori, vuoti, emergono dal basso su una superficie molto ampia e luminosa piena di buchi, reali e virtuali, provenienti da un luogo sottostante, misterioso. mi viene in mente Metropolis, la città superiore e il mondo operaio agli inferi, ora sono sopra ma potrei passare di sotto in qualsiasi momento, la vita è imprevedibile.
sotto, invece, si sta al buio, spiragli di luce arrivano dai buchi, che non suono vuoti, ma abitati da figure che guardano contro un muro, che entrano in una fessura, che si siedono, che portano abiti e indossano stoffe, potrei dire, abitano l'ignoto.
non si calca la mano, non c'è angoscia, c'è una grande domanda, un enorme punto di domanda nella testa, una gran solitudine, una dimensione umana che in fondo si conosce, è nota a tutti, l'alienazione.
alla fine entro in un'enorme sala, un grande magazzino dalle pareti grezze, cemento scrostato, c'è una scala a chiocciole infinita che porta a un piano superiore; immagino, lassù, un luogo che porta dritto all'infinito senza ritorno. in basso, al mio livello ci sono decine di persone (?) quelle con le gambe ma senza i piedi, parlano tra loro, sono orientali, hanno occhi a mandorla, ridono, si dicono cose, fanno movimenti con le braccia, scostano i cappotti, sono tutti parte di una grande comunità...e io...sono fuori da tutto, esclusa.
chiedo e faccio domande: perché ridi? ma nessuno mi risponde, mi ignorano. ridono ma non sono felici, di questo sono sicura, ridono solo della loro superiorità, del potere dell'esclusione che hanno su di me.
è questo il seme della paranoia.
una mostra, meglio, una passeggiata indubbiamente interessante, quella con le creature di Muñoz.
e con se stessi.
Double Bind and Around
A cura di Vicente Todolí
La mostra Hangar Bicocca presenta “Double Bind & Around”, la prima mostra personale in Italia dedicata a Juan Muñoz, a cura di Vicente Todolí. L’artista, scomparso nel 2001, è stato uno dei protagonisti della scultura contemporanea degli ultimi due decenni del Novecento.
Definito dalla critica uno degli artisti più complessi e singolari del nostro tempo, Juan Muñoz era solito parlare di sé come di un “storyteller”. Tra gli artisti più significativi a emergere nel periodo che segue la dittatura franchista in Spagna, è stato un interprete visionario e artefice di un’arte che pone al centro la figura umana. Capace di creare contesti stranianti, mondi fittizi abitati da bizzarri personaggi come acrobati, ventriloqui, ballerine e nani solitari, le sue opere danno forma a possibili narrazioni.
“La scultura avvolge lo spazio che occupa, restringendolo dall’ estremità al centro in tutta la sua estensione, come un foglio che volteggia nell’aria prima di posarsi sul tavolo o sul suolo” (da Juan Muñoz, “Writings/Escritos”, a cura di Adrian Searle, ediciones de la Central, Madrid 2009).
Il suo interesse per l'arte dell’illusione lo ha portato a trasmettere un forte senso di ambiguità ed enigmaticità, dove i confini tra realtà e finzione si assottigliano, accrescendo un articolato gioco di contraddizioni e paradossi.
L'installazione Double Bind rappresenta la più significativa creazione dell'artista, morto nel 2001 all'età di 48 anni, pochi mesi dopo la sua realizzazione. Concepita ed esposta negli spazi della Turbine Hall all'interno del progetto Unilever Series presso la Tate Modern (Londra, 2001), non è mai più stata ricostruita. Double Bind viene ripresentata riadattandola completamente su una superficie di 1.500 metri quadrati e intervenendo sui volumi verticali dello spazio ex industriale di HangarBicocca. Formata da una serie di scenari oscuri e da elementi architettonici che giocano sul contrasto tra visibile e invisibile, tra realtà e illusione, essa si compone strutturalmente di tre piani e due ascensori in continuo movimento. Dal piano superiore, il visitatore fruisce della visione di una superficie con forme geometriche che contiene buchi e condotti reali e illusori. Al livello intermedio, invece, appaiono figure scultoree singole o in gruppo bloccate nei loro atteggiamenti in una dimensione temporale e spaziale indefinita. Muñoz crea un insieme architettonico asettico attraverso elementi strutturali, come griglie e finestre sbarrate. E’ l’artista stesso a definire l’esperienza dello spettatore come se si trovasse in una città anziché in un museo (da Double Bind at Tate Modern, Tate Publishing, Londra 2001). La mostra Double Bind & Around, nel suo complesso, raggruppa alcune delle opere più importanti di Juan Muñoz, tra cui The Wasteland (1986), formata da un pavimento di pattern geometrici colorati e dal manichino di un ventriloquo poggiato su una mensola, Waste Land (1986), dove il ventriloquo è collocato su un muro di fronte a un pavimento optical, e Many Times (1999), formata da una “folla” di figure dal volto orientale disposte nello spazio le cui espressioni raffigurano dei ghigni taglienti. Sono presenti inoltre diversi Conversation Piece, gruppi scultorei sviluppati dai primi anni Novanta: sono composti da figure anonime collocate in spazi altrettanto generici. I personaggi, le cui forme ricordano quelle umane, hanno delle strutture sferiche al posto delle gambe. Ciascuna figura occupa lo spazio, assumendo pose diverse, mentre conversa, osserva o ascolta fatti ed eventi che rimangono taciuti e incomprensibili allo spettatore. I personaggi di Hanging Figures (1997) sono invece raffigurati in pose inverosimili mentre fluttuano nell’aria come acrobati. Quest’opera è ispirata al capolavoro di Edgar Degas Mademoiselle La La al Circo Fernando del 1879 in cui l'artista rappresenta un’acrobata con un ardito scorcio dal basso.
l'Hangar Bicocca è un posto unico.
e questa mostra gli rende giustizia.
non posso immaginare luogo più consono alla straordinaria comunicativa di questo autore e delle sue opere.
la vastità degli spazi, la possibilità di camminarci dentro, pressochè soli, e di prendere direttamente la misura dell'arte, la nudità grezza e muraria industriale delle pareti, la ricostruzione su due piani di Double Bind e la possibilità di perdercisi, tutto concorre a fare di questa visita un'esperienza.
mi sono sentita dentro un'opera teatrale, a una rappresentazione scenica istantanea, me co-protagonista, dell'estraniamento.
superlativo.
non si entra dall'entrata principale ma di lato, percorrendo all'esterno i muri altissimi della struttura, camminando, nel mio caso nella notte, intorno a questo magazzino post industriale dalle imponenti fattezze neo archeologiche. si entra e si scorgono, di lato, le torri di Kiefer, sua magnificenza. bene, so dove sono.
ma poi non lo so più, le figure piccole, ma alla mia altezza, di Muñoz, sono mute ma parlano, eccome se parlano. sono assordanti di mutismo e cecità. e mi fanno sentire incapace di comunicare, sola, sperduta, oppressa.
c'è un effetto magico, direi, in questi personaggi che, se hanno le gambe, sono senza piedi, e se non le hanno, si reggono come su sacchi arrotondati sferici. sono fissi ma in movimento, hanno mani espressive e movimenti del busto, alcuni hanno occhi ciechi, si avvicinano e si parlano, sembrano scappare e rincorrersi.
sono, dunque, dei paradossi, sembrano morbidi ma hanno superfici dure e taglienti, di resina. c'è una contraddizione palpabile che ti coglie e ti mette in imbarazzo. cerco di parlare loro, sono ridicola?, o sto parlando a me stessa, a una me stessa ingabbiata in un movimento probabile ma impedito dalla mia stessa natura, dura e coriacea.
cammino e penso, alzo gli occhi e vedo figure galleggianti nell'aria, non sono impiccati, sono tenuti in aria da una corda che entra nella gola, una specie di cappio esofageo, una tortura inimmaginabile, un soffocamento stritolato di aria e di parola.
salgo le scale scricchiolanti di una struttura metallica e mi trovo al piano superiore di un luogo agghiacciante: ascensori, vuoti, emergono dal basso su una superficie molto ampia e luminosa piena di buchi, reali e virtuali, provenienti da un luogo sottostante, misterioso. mi viene in mente Metropolis, la città superiore e il mondo operaio agli inferi, ora sono sopra ma potrei passare di sotto in qualsiasi momento, la vita è imprevedibile.
sotto, invece, si sta al buio, spiragli di luce arrivano dai buchi, che non suono vuoti, ma abitati da figure che guardano contro un muro, che entrano in una fessura, che si siedono, che portano abiti e indossano stoffe, potrei dire, abitano l'ignoto.
non si calca la mano, non c'è angoscia, c'è una grande domanda, un enorme punto di domanda nella testa, una gran solitudine, una dimensione umana che in fondo si conosce, è nota a tutti, l'alienazione.
alla fine entro in un'enorme sala, un grande magazzino dalle pareti grezze, cemento scrostato, c'è una scala a chiocciole infinita che porta a un piano superiore; immagino, lassù, un luogo che porta dritto all'infinito senza ritorno. in basso, al mio livello ci sono decine di persone (?) quelle con le gambe ma senza i piedi, parlano tra loro, sono orientali, hanno occhi a mandorla, ridono, si dicono cose, fanno movimenti con le braccia, scostano i cappotti, sono tutti parte di una grande comunità...e io...sono fuori da tutto, esclusa.
chiedo e faccio domande: perché ridi? ma nessuno mi risponde, mi ignorano. ridono ma non sono felici, di questo sono sicura, ridono solo della loro superiorità, del potere dell'esclusione che hanno su di me.
è questo il seme della paranoia.
una mostra, meglio, una passeggiata indubbiamente interessante, quella con le creature di Muñoz.
e con se stessi.
fonte: nuovateoria.blogspot.it
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