Le case di ringhiera, tipiche abitazioni lombarde e piemontesi, nate agli inizi del ‘900 come edilizia popolare, sono state costruite inizialmente per far fronte al flusso migratorio dal Sud durante gli anni del boom industriale. Quando le fabbriche si spostarono verso le periferie, seguite da tutte le famiglie che in queste lavoravano, le case vennero abitate per la maggior parte dalle persone più umili e in difficoltà.
La composizione dello stabile mediamente di 3-4 piani (ma anche fino a 6) era identica: la porta di ingresso di ciascuna abitazione si affacciava sul ballatoio comune dotato di un parapetto in ferro (da qui il nome case di ringhiera) che percorreva l’intera facciata interna. Su questo ballatoio, tipicamente “in fondo alla ringhiera”, si trovavano i servizi in comune che spesso servivano 7-10 famiglie ed erano ridotti ad un semplice bagno “alla turca” in un locale che permetteva giusto i pochi movimenti necessari per l’utilizzo e una finestrella spesso senza infissi. L’esterno della casa era per la maggiore di color “giallo Milano” mentre l’interno, rifinito con un intonaco grigio e talvolta scrostato, era spesso rallegrato dai colori di piante e fiori a decoro dei ballatoi.
Le abitazioni erano molto simili tra loro: due stanze collegate tra loro da una porta per un totale di 40/50 metri quadri in cui un ambiente fungeva da cucina/soggiorno mentre l’altro era adibito a camera da letto. Solitamente la cucina era riscaldata dalla stufa economica mentre la camera da letto era generalmente più fredda. Al fine di risparmiare prezioso combustibile, che tra l’altro permetteva di investire i pochi soldi disponibili in generi alimentari, la camera da letto rimaneva chiusa durante il giorno così da evitare di disperdere il calore in una stanza che sarebbe stata utilizzata solo durante la notte.
I miei genitori, classe 1941, hanno per molti anni abitato quelle case che io ho avuto la fortuna di frequentare nelle belle domeniche almeno fino ai miei 20 anni perché, anche se al tempo non abitavano più lì, erano rimaste ancora in contatto con le persone che, insieme a loro, avevano trascorso una vita intera. Questo articolo vuole essere un piccolo scorcio sulla casa di Via Pontaccio al civico 3 che ho chiesto a mia madre di raccontarmi nuovamente in prima persona, così come ha fatto nei 50 anni della mia vita, perché col tempo il ricordo non sbiadisse nella mia memoria e rimanesse qualcosa di scritto non solo per i miei figli ma soprattutto in ricordo di tutte le persone che ho conosciuto durante la mia infanzia e giovinezza in un luogo speciale, ormai sparito.
Ecco il racconto.
Sono nata a Milano il 27 Settembre 1941, ultima di 4 figli. Dopo aver perso il terzo figlio qualche anno prima della mia nascita, per difficoltà sopraggiunte durante il parto, mamma Serafina e papà Aldo non si aspettavano di certo a 40 anni suonati di dover crescere una figlia specialmente sulla soglia del secondo conflitto mondiale. Ho trascorso i primi 27 anni della mia vita nella casa di Via Pontaccio al civico 3 e in questa casa ho saputo apprezzare gesti di solidarietà e di amore che hanno di gran lunga lenito le difficoltà legate alla povertà di quegli anni segnati anche dalla guerra.
La casa era composta da 3 piani, la portineria era presidiata dalla famiglia Delai formata da 5 persone: il papà che lavorava come autista del proprietario della ditta Campari, la mamma Sofia che si occupava della portineria e pulizia delle scale e i loro 3 figli (una femmina e due maschi) che abitavano in due stanze del primo piano e con i quali giocavo spesso insieme perché praticamente coetanei.
Sempre al primo piano abitava la famiglia Viazzi con la figlia Wilma, gestori della Crota Piemunteisa di Via Pontaccio. Wilma con grossi problemi di scoliosi portava un busto non riuscendo pertanto a muoversi agevolmente noi bambini andavamo spesso a farle visita per rimanere un po’ in compagnia cercando di coinvolgerla in giochi per lei più accessibili. C’era poi la famiglia Rossi composta da mamma, papà e Silvana e la famiglia Zara con due figli. Aldo il maggiore e Umbertino, poco più grande di me, che mi faceva sempre tanti scherzi: mi spaventava ogni volta che scendevo le scale costringendomi a chiedere aiuto per scappare dai suoi dispetti. A seguire la Famiglia Coppelli con 3 figlie tra le quali Giordana che era la mia amica del cuore.
Al secondo piano abitava Emanuela Onesti, il cui papà faceva il barbiere nella via, che purtroppo ricordo esser stata portata via all’età di 9 anni dalla difterite. La famiglia Ottolini con 3 figlie di cui ricordo Gabriella “la rossa” che era una mia compagna di giochi, infine la Famiglia Redaelli che gestiva un negozio di frutta e verdura.
Al terzo piano vicino alle scale la Famiglia Scalice con un figlio, la Famiglia Del Bono con le figlie Franca e Itala quest’ultima compagna di mille avventure insieme a Giordana. L’appartamento successivo abitato dalla la famiglia Parolini con i figli Ugo e Bruno che io chiamavo nelle sere dopo i bombardamenti mostrandogli la luna non completa che credevo fosse stata “rotta” dagli inglesi. Virginia Goffi che viveva con la mamma e una cagnolina di nome Lila, la famiglia Bonini con Nicoletta, la Famiglia Bellan con Nayer e Umberto che mi hanno aiutata nei momenti difficili della mia vita sostenendomi seppur con limitati mezzi ma infinito amore - visto che i miei genitori non avevano sufficienti possibilità - e a cui devo chi sono oggi. Alla fine del ballatoio la Famiglia Pontiggia con Amalia (Nana) ed Eugenia (che io chiamavo Eu o più simpaticamente tic-tac anche se non ne ricordo il motivo).
Infine, vi erano degli appartamenti ricavati nel sottotetto: gli abbaini. In uno di questi appartamenti vivevo con la mamma e papà mentre le mie due sorelle erano sfollate fuori Milano a Inzago dalla nonna. Di fronte la Famiglia Dedè con Mariulin e la mamma Prassede e una serie di gatti semi selvatici che non si lasciavano avvicinare ma soffiavano tutte le volte che cercavo di salire al punto che dovevo chiamare la Mariulin per permettermi di rincasare. Gli ultimi due appartamenti erano abitati da Rita Luè e la famiglia Perazzolo con la figlia Itala.
Come avrete intuito la casa di ringhiera era un brulicare di vite ma soprattutto di bambini. Una volta terminati i compiti ci era permesso di giocare, non avevamo molto ma la fantasia non ci mancava: correvamo a perdifiato per le scale del palazzo giù fino al cortile facendo arrabbiare le persone più anziane che ci riprendevano per l’eccessivo rumore, ma anche se brontolavano sono sicura che ci volessero bene. I giochi principali erano a nascondino, “ti ghe l’et” (ce l’hai), mondo, la lippa e qualche volta a bandiera.
Eugenia tic-tac era per me un punto di riferimento a cui chiedevo con insistenza di raccontarmi le favole mentre alla sera lavava i piatti nel lavandino di sasso. Quella che ricordo in maniera particolare, e che raccontavo sempre anche a mio figlio, è quella del Margherinfrun (l’uccello dalle penne d’oro). Spesso la Eu si dimenticava di segnare nella magra lista della spesa alcuni cibi, e siccome in famiglia l’avrebbero sgridata mi chiamava per chiedermi di scendere al suo posto. Se l’avessi fatto in premio mi avrebbe dato delle croste di formaggio grana che teneva ben celate dentro una borsetta di velluto marrone per non farsi vedere in casa. Io ovviamente mi precipitavo perché oltre ad essere particolarmente golosa delle croste di grana (che ancora oggi gusto morbide nel minestrone) era sicuramente un extra che, a quei tempi, era difficile rifiutare.
Papà Aldo lavorava alla Scala di Milano come comparsa e amava le opere soprattutto quelle dirette dal Maestro Arturo Toscanini. Grazie al suo lavoro aveva possibilità di incontrare, dietro le quinte, le “étoiles” di quell’epoca come per esempio lo stesso Toscanini, Beniamino Gigli, Del Monaco, Toti dal Monte, Margò Fontaine e molti altri di cui aveva parecchie fotografie con dediche che venivano gelosamente custodite nel primo cassetto di un comò e che purtroppo sono andate perse. Papà amava le opere liriche e quando le trasmettevano per radio tutti dovevano rimanere in religioso silenzio per assaporarle pienamente.
Forse la passione del mio papà per la lirica e il suo lavoro alla Scala di Milano mi ha portato per una vita a cercare di realizzare un sogno: quello di diventare uno “Spinazitt” che in dialetto milanese significa “piccolo spinacio” ma nel mio caso si riferisce al nome affettuoso dato alle giovani allieve della Scuola di danza classica della Scala di Milano. Ovviamente era una scuola che la mia famiglia non si poteva permettere pertanto il mio papà, per non darmi un dispiacere e forse trovare un po’ di consolazione per non potermi offrire la frequenza a questa scuola, tutte le volte che lo chiedevo trovava un modo gentile per declinare la mia richiesta. Tra le cose che mi diceva più spesso c’era il fatto che era una scuola molto faticosa e che quindi non era cosa essendo io di costituzione piuttosto gracile.
Non avendo grandi disponibilità economiche anche le cose più banali erano razionate, ad esempio mio papà comperava le sigarette a 10 alla volta e mi mandava nel tabaccaio di Via Brera della “Sciora Titta”, vicino al Bar Jamaica entrambi i locali allora frequentati da pittori e artisti. A me piaceva andare non solo per poter uscire in strada, anche se il tragitto era veramente breve una trentina di passi al massimo, ma per poter rimanere un po’ a guardare ed ascoltare queste persone che parlavano di cose a me sconosciute ma affascinanti. Un giorno mi è capitato di intrattenermi a parlare per pochi minuti con un’artista di nome Anna Prati che, così su due piedi, mi ha fatto un ritratto con la tecnica grafica della sanguigna che mi ha poi regalato e che purtroppo non sono riuscita a trovare più da nessuna parte.
Durante il periodo di Natale, ricordo che a casa papà mi costruiva un bellissimo presepe con la cartapesta arricchito da alcune ochette su uno specchio che rappresentava il lago: era molto bello e suggestivo. Ero molto religiosa e attendevo il momento dell’arrivo di Gesù Bambino con infinita gioia. Faticavo ad addormentarmi ed ero sempre combattuta perché la curiosità di vederlo talvolta superava di gran lunga la consapevolezza che, se fossi rimasta sveglia, non avrei ricevuto le sorprese.
I regali non erano certo, come oggi, elencati in una letterina perché sebbene di desideri ne avessimo avuti molti, sapevamo di non poterli chiedere a Gesù. Se ci ripenso, eravamo in grado di apprezzare con gioia anche solo un paio di calze bianche, una piccola stecca di cioccolato o un torrone, raramente una bambola di pezza ma quasi sempre un paio di mandarini le cui bucce venivano poi messe sulla stufa economica per profumare l’ambiente grazie agli olii in essa contenuti.
Nel periodo di carnevale la signora Aurelia, che era una brava sarta, era solita confezionarmi vestiti da contadinella in carta crespa che sfoggiavo con un certo orgoglio in Piazza del Duomo dove Nayer mi accompagnava per vedere i carri allegorici e le maschere milanesi di Meneghino e Cecca. I coriandoli erano sempre troppo pochi pertanto una volta finiti quelli nel minuscolo sacchetto tanti bambini come me li raccoglievano per strada per continuare quella festa nella speranza che questi momenti di gioia non finissero mai. Alla sera ci recavamo in Galleria Vittorio Emanuele dove, in corrispondenza dell’ottagono, suonava un’orchestra dal vivo per i signori seduti ai tavoli che mangiavano leccornie che noi potevamo solo sognarci. Ricordo che mi soffermavo a guardarli e ogni tanto mi capitava di ballare e qualche turista straniero mi faceva cenno di avvicinarsi compiaciuto e mi offriva una caramella o un biscotto. Capitava molto spesso che il giorno di carnevale piovesse pertanto arrivavo a casa con i vestiti tutti disfatti, in ogni caso per me era comunque una gioia poter andare in maschera anche se solo per brevi momenti per far finta che in fondo la vita non fosse poi così tanto male.
Nel ‘45 la guerra finì e qualche anno più tardi cominciai a frequentare le scuole elementari di Via Palermo. Ricordo che il primo giorno di scuola mi trovai in classe a guardare quegli strani banchi che io non avevo mai visto e non sapendo bene come funzionavano mi sedetti sul banco appoggiando i piedi sulla panchina dove invece avrei dovuto sedermi.
Talvolta andavo a casa di alcune delle mie compagne di scuola che, nonostante non fossero ricche, abitavano in appartamenti sicuramente più confortevoli del mio e avevano parecchi giochi. In verità non molti ma in numero notevolmente superiore ai miei. Nonostante la mia casa fosse comunque decorosa era sicuramente “diversa” dalla loro …. così diversa che avevo vergogna ricambiare l’invito pertanto smisi abbastanza velocemente di vedermi in casa delle mie compagne con estremo mio dispiacere.
Le stagioni erano scandite da rituali e ritrovi in diverse occasioni: nelle domeniche d’estate si mangiava all’aperto e Nayer si prodigava cucinando i “pesitt” su un fornello a carbone, nel pomeriggio si ascoltavano le partite alla radio e si mangiava l’anguria. Nei freddi giorni autunnali ci si radunava a turno nelle varie abitazioni e, seppur nel poco spazio a disposizione, si condividevano le castagne lesse oppure arrosto cucinate sulla stufa economica a legna o carbone e, quando possibile, questa leccornia veniva accompagnata anche da un assaggio di vino Panerone. In inverno Milano era coperta da una spessa coltre di neve, mio papà raccoglieva alcune tazzine di neve dal tetto direttamente dalle finestre degli abbaini e faceva la granita rendendola golosa con l’aggiunta di succo di limone e zucchero oppure, quando era disponibile, lo sciroppo al gusto di tamarindo o menta: io ne andavo matta, ricordo ancora adesso il gusto e i momenti di felicità.
Nei mesi primaverili ed estivi l’oratorio era un punto fisso di ritrovo per noi ragazzi, quando possibile mi veniva dato qualche soldino per comperare le scarpette e le stringhe di liquirizia oppure quella classica in legno, poche semplici cose di cui però ne posso sentire ancora il sapore.
Nelle serate di maggio mi recavo nella vicina chiesa di Piazza San Marco per recitare il rosario e pregare per il mese mariano. Finite le orazioni ci lasciavano un po’ di tempo per sfogarci nel piazzale della chiesa con le mie amiche Luisa Boeri, Fiorella Piccaluga, Carla Maggioni e Augusta di cui non mi ricordo più il cognome. Si giocava oppure semplicemente ci si ritrovava insieme per raccontarci la giornata: questo era sufficiente per ritrovare la gioia dimenticando per un attimo i momenti di povertà e difficoltà. Una volta alla settimana, con 10 lire, ci si poteva permettere un gelato nella classica “parigina”: due ostie di pasta wafer rotonde, quadrate o rettangolari nelle quali veniva inserita una piccola porzione di gelato: che buono!
Nel 1954 la televisione fece capolino in Italia ma non era certamente diffusa a livello di singola famiglia che invece sentiva volentieri la radio. Le trasmissioni più seguite nel nostro palazzo erano le commedie a episodi raccontate come per esempio, “La Cittadella”e “Il Dottor Antonio”.
La radio, quasi sempre accesa, faceva compagnia alle persone che rimanevano a casa come massaie e ai bambini al ritorno da scuola, ad esempio prima di pranzo ricordo che sentivo Spadaro con la canzone “Aprite le finestre” e subito dopo il gazzettino padano con il cinguettio di uccellino che sicuramente molti ricorderanno con nostalgia.
Qualche anno più tardi la televisione poteva essere vista al circolino, locale di ritrovo normalmente per gli uomini che giocavano a carte bevendo un bicchiere, nella serata di giovedì quando andava in onda “Lascia o raddoppia” con Mike Bongiorno. Tuttavia, al terzo piano dello stabile dove abitavo c’era una famiglia con due figli, Gladis e Omar, il cui padre era un dipendente del Bottegone di Corso Garibaldi e disponevano di un apparecchio televisivo funzionante tramite l’inserimento di monete da 100 Lire che venivano poi ritirati dall’azienda che gli aveva fornito a noleggio la TV.
Noi non lo sapevamo e, quando ci invitavano per vedere qualche trasmissione, ogni tanto sentivamo un rumore, che era appunto il cadere della moneta, ma alle nostre domande i padroni di casa – che nonostante avessero disponibilità superiori a molti abitanti del palazzo – si vergognavano a svelarne la causa e sviavano il discorso minimizzando.
Nel 1957 il mio papà è mancato a seguito di una malattia, nel contempo ho trovato un lavoro in Via Podgora nei pressi del Tribunale di Milano come impiegata presso la società OSO S.p.A. La mamma viveva da sola perché le mie sorelle (di 14 e 16 anni più grandi di me) ormai avevano costruito la loro vita: una si era sposata mentre l’altra era andata a vivere con una zia ed avevano le loro abitazioni in Via Pastrengo al quartiere Isola di Milano. Per quanto mi riguarda io vivevo spesso con Nayer e Umberto Bellan che mi hanno cresciuto come una figlia e mi hanno aiutato molto in questi momenti di difficoltà della mia famiglia d’origine. Quando potevano, le mie sorelle mi facevano visita ma lavorando e avendo le loro vite le vedevo sporadicamente. Fortunatamente abitavo ancora nelle case di ringhiera e quando rincasavo mi trovavo sempre in una grande famiglia che parzialmente ha compensato queste mancanze.
Ho conosciuto Claudio e dopo un lungo fidanzamento di 10 anni nell’aprile del 1968 ci siamo sposati, l’anno successivo, ho avuto un unico figlio Marco che con sua moglie Silvia ci hanno regalato 3 bellissimi nipoti. Abbiamo festeggiato quest’anno 50 anni di matrimonio, ringraziando la vita che a voler fare un bilancio ci ha regalato anni di felicità che ci auguriamo continuino ancora per molto tempo.
La casa di Via Pontaccio come vi è stata raccontata non c’è più: una ristrutturazione alla fine degli anni 90 l’ha trasformata in una casa sicuramente più comoda e lussuosa che dalla originaria casa di ringhiera mutua probabilmente solo il ballatoio e il parapetto in ferro.
Mia mamma ha provato più volte a sbirciare all’interno per vedere cosa adesso è diventata e provare a ricordare quello che per lei è stato, purtroppo senza successo. Magari qualcuno che adesso abita in quella casa può raccogliere questa richiesta oppure qualcuno che si è riconosciuto nel racconto può chiamare la redazione se ha voglia di aggiungere qualcosa oppure se ha piacere ritrovarsi e ricordare.
Personalmente ricordo che tra gli anni 70 e 90 mi piaceva guardare la casa dal retro tra due palazzi di Via Brera: mi sembrava la scenografia di un teatro i cui balconi e finestre affacciavano sul cortile, palcoscenico di vita quotidiana delle famiglie che li abitavano. L’entrata della casa dava su Via Pontaccio dove, un portone carraio di legno marrone di oltre 3 metri di altezza, nascondeva un ingresso comune con accesso diretto alle cantine e alle scale che portavano ai piani. Il grande portone integrava una porticina - che permetteva l’ingresso pedonale senza necessità di doverlo aprire ogni volta - così piccola che entrando era necessario abbassarsi in una sorta di inchino per evitare di sbattere la testa.
Mai mi potrò dimenticare mentre salivo le scale fino al 3° piano i profumi delle cucine, ciascuna con un piatto diverso sui fornelli, l’odore del bucato appena lavato, la fragranza di caffè della domenica mattina che insieme coprivano, almeno in parte, l’odore di muffa del vecchio stabile che talvolta aveva il sopravvento. Quello che non ho avuto il piacere di udire sono state le voci dei bambini che giocavano in cortile che al tempo delle mie frequentazioni ormai non abitavano più quelle case, e il brusio delle persone che sui ballatoi chiacchieravano raccontandosi la quotidianità. Insomma, queste case erano un piccolo mondo dietro le strade trafficate di Milano fatto di voci, suoni, rumori, profumi, storie di solidarietà e accoglienza ormai passate, in un cortile all’aria aperta e, appena sopra gli occhi, il cielo.
Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano. (Madre Teresa di Calcutta)
Marco Boldini
fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/
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MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.
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