Visualizzazione post con etichetta la mia generazione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta la mia generazione. Mostra tutti i post

domenica 19 maggio 2019

nome di battaglia Mara


La cascina Spiotta è ancora là, in cima alla collina, tra i dolci paesaggi delle langhe, circondata dagli alberi e con un grande prato davanti. Irriconoscibile, se non fosse per una targa sul cancello, rispetto alle foto che finirono sui giornali oltre 40 anni fa. Quel 5 giugno 1975 ad Acqui se lo ricordano ancora: il rapimento, gli spari, la morte sull’erba per un carabiniere e per quella giovane donna. Il grave ferimento di altri militari della pattuglia. La paura e la rabbia dall’una e dall’altra parte. Era il battesimo di sangue delle Brigate Rosse. Molti storici hanno definito il tragico evento della cascina Spiotta come la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Quell’idea quasi romantica di cavalcare la rivoluzione di classe, nata nel 1966 con la prima occupazione dell’università di Trento, alimentata dai tumulti del ’68 e dalle grandi proteste operaie dei primi anni ’70, stava per segnare il passo ad un lungo periodo di buio e di terrore. La notte della Repubblica, che avrebbe lasciato disseminati per le strade italiane centinaia di morti tra gente comune, opposte fazioni politiche e uomini delle istituzioni. E comunque si vogliano leggere e interpretare i cosiddetti “anni di piombo” quel tragico evento di cascina Spiotta resterà legato per sempre all’immagine di una ragazza riversa sul prato in una giornata di sole, i jeans arrotolati, le scarpe di corda, il viso solcato da un rivolo di sangue. Così è morta quel giorno Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, fondatrice del nucleo storico delle Brigate Rosse, capo della colonna torinese. La prima donna ad aver scelto la lotta armata, la prima a morire. 


Margherita nasce a Trento l’8 aprile 1945 in una famiglia della media borghesia. E’ l’ultima di tre figlie, il padre gestisce una profumeria e la madre lavora in una farmacia. Una famiglia molto unita e religiosa: scuola e lavoro durante la settimana, messa in chiesa alla domenica, vacanze estive negli scout o in colonia. Margherita quando non studia fa volontariato insieme ad un padre gesuita negli ospizi di Trento. Pratica sport, scia, gioca a tennis, ama fare trekking in montagna. La chitarra classica è la sua grande passione, è talmente dotata da eccellere a livello nazionale, si esibisce perfino all’estero. Potrebbe diventare un naturale sbocco lavorativo se la ragazza non decidesse di iscriversi alla facoltà di sociologia dell’università di Trento. E’ l’origine di tutto. In quegli anni l’ateneo è un’autentica fucina di idee: tanto all’avanguardia per la formazione dei futuri quadri del nuovo capitalismo industriale, quanto un sottobosco ideologico e antagonista per il ‘68 italiano. Tra i professori ci sono Romano Prodi e Beniamino Andreatta, tra gli studenti Renato Curcio e Mauro Rostagno. Margherita conosce Curcio con il quale ben presto si lega sentimentalmente. Lei è bella, di una bellezza tranquilla, non appariscente. Capelli neri e occhi verdi, un viso minuto. E’ seria, riservata, si trova subito bene con quel ragazzo che sembra avere sempre un’ombra di malinconia negli occhi. È il gennaio 1966, gli studenti decidono di occupare l’università. Margherita è fra loro anche se ogni giorno, entro le 19.00, deve per forza rientrare a casa dai genitori. L’anno successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra. Si laurea il 29 luglio del 1969 con la tesi “Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico”. Uscirà con 110 e lode e saluterà tutti con il pugno chiuso: “mi ha spiazzato – ricorderà il rettore Francesco Alberoni – non credevo fosse così politicizzata”. Il primo agosto Margherita e Renato si sposano in Chiesa, con rito misto cattolico-valdese (Curcio proviene da Torre Pellice) nell’antico monastero di San Romedio, luogo incantato della Val di Non. Dopo un breve viaggio di nozze si trasferiscono a Milano, dove Mara ha vinto una borsa di studio di due anni per un corso di sociologia. Studia la vita di fabbrica, coltivando il suo impegno politico in maniera sempre più pressante. 


L'8 settembre 1969 Margherita Cagol, Renato Curcio ed altri fondano il Collettivo Politico Metropolitano (CPM) venendo introdotti nelle fabbriche milanesi: SIT Siemens, Alfa Romeo, Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini. Siamo in pieno “autunno caldo”, scaduto il contratto nazionale dei metalmeccanici le proteste ed i disordini si susseguono incessanti. Il 12 dicembre del 1969 accade qualcosa che cambierà per sempre il destino di questa generazione di giovani e dell’Italia intera: in piazza Fontana scoppia una bomba che uccide diciassette persone e ne ferisce novanta. L’opinione pubblica è disorientata, i depistaggi, la morte dell’anarchico Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda. Ha inizio la strategia della tensione. I militanti della sinistra extra-parlamentare si riuniscono in convegni, a Pecorile parlano per la prima volta di strage di Stato, di reazione ad un sistema imperialista capace di sacrificare chiunque pur di mantenere il potere, discutono di lotta armata e di clandestinità. Margherita partecipa e intanto scrive lunghe lettere ai familiari, in particolare alla madre, alla quale confessa che la sua coscienza sta cambiando, che Milano le appare sempre più “… un mostro feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di essenziale c’è nella vita. Milano è la barbarie, è la vera faccia della società in cui viviamo … Questa società … ci toglie la possibilità di coltivare la famiglia, di coltivare noi stessi, le nostre esigenze, i nostri bisogni, ci reprime … ha estremo bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario …. Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo perché questo io credo sia il senso della nostra vita.” La militanza passa dalle parole ai fatti. In una malandata Fiat 850, nel traffico di piazzale Loreto, il 29enne Renato Curcio fa un cenno a Margherita, all’epoca 25enne e al compagno Alberto Franceschini, 23 anni: “è lì che le brigate partigiane hanno appeso a testa in giù Mussolini e la Petacci”. Si guardano in silenzio. Ma certo, brigata è il nome giusto. Brigata e poi? Rossa, propone Margherita. Gli altri annuiscono. E’ fatta. Così nascono le Brigate Rosse. Come simbolo la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa utilizzata dai Tupamaros uruguaiani. Margherita sceglie il suo nome di battaglia: Mara. E’ il 17 settembre 1970 quando iniziano le prime azioni: Franceschini e la Cagol danno fuoco all’auto del capo del personale della SIT-Siemens, Giuseppe Leoni, colpevole di aver fatto fotografare i partecipanti ai picchetti e di averli poi licenziati. Comincia la propaganda: Curcio, il teorico del gruppo, scrive il volantino di rivendicazione. A novembre viene diffuso alla Pirelli un comunicato con la stella a 5 punte in cui compaiono i nomi dei capi e dei crumiri da punire. Qualche giorno dopo bruciano anche le macchine del capo della vigilanza, Ermanno Pellegrini e del dirigente Enrico Loriga. Gli atti di “punizione” sulle auto dei dirigenti proseguono per tutto il 1971, seguiti da volantini di rivendicazione ma stigmatizzati dai giornali come puro e insignificante teppismo. Mara in quell’anno rimane incinta, è felice, lei e Renato fanno progetti, pensano a come conciliare la cura di un bambino con gli impegni politici. Sarà difficile ma in fondo non c’è stata fino ad ora alcuna scelta irrevocabile, questo figlio può rimettere in discussione tutto. Invece al sesto mese Mara cade dal motorino e perde il bambino. Da lì in poi la sua vita comincia a correre, già l’anno seguente, il 2 maggio, i Carabinieri scoprono il covo di via Boiardo a Milano ed entrano in possesso di tutti i nomi dei capi storici. Mara e Renato passano alla clandestinità. 


Ne parlano a lungo ma l’ipotesi di fare un altro figlio è definitivamente tramontata. Non ci sono più margini, la lotta armata è ormai definitiva. In una delle molte lettere ai genitori Mara scrive: “ … Cari genitori non pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi da ragione come l’ha data alla Resistenza del ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri …” 
In Italia proseguono gli atti di contestazione e di violenza per tutto il 1972, le sigle di gruppi armati di destra e sinistra nascono come funghi: Giangiacomo Feltrinelli viene trovato ucciso a Segrate, esploso mentre prepara un attentato ad un traliccio; a Milano viene ucciso il commissario Calabresi. Le neonate brigate di Curcio e Mara proseguono però con atti dimostrativi, senza macchiarsi di sangue. Ormai ricercati, Curcio e la Cagol si trasferiscono a Torino, lei diventa capo della colonna torinese mentre a Milano restano Franceschini e Moretti. Comincia la penetrazione informativa negli stabilimenti Fiat di Mirafiori e Lingotto. Mara, nelle sue costanti lettere, continua a rassicurare i genitori, dice che vorrebbe passare un po’ di tempo a casa, ma loro leggono i giornali e temono il peggio, non sanno come comportarsi con questi due ragazzi che si sono messi in testa di cambiare il mondo e adesso hanno il mondo contro. Nell’autunno 1973 l’economia mondiale attraversa la sua crisi più grave dal 1929. La guerra arabo-israeliana fa lievitare i prezzi del petrolio. L’inflazione è fuori controllo, l’anno seguente toccherà il 23%. A novembre il Governo vara il decreto “Austerity”: niente auto la domenica, insegne spente a partire dalle 22.00, strade a illuminazione ridotta, chiusura serale di radio e televisione. Ma sono i lavoratori a pagare il prezzo più caro dei sacrifici, la Fiat è pronta a licenziare, Agnelli ventila la cassa integrazione, il rinnovo del contratto non arriva ed i turni in fabbrica sono massacranti, il sindacato è in difficoltà. Mirafiori viene occupata per tre giorni con bandiere rosse sui tetti e operai padroni dei reparti. Cortei. Assemblee. La Cagol e Curcio organizzano il sequestro di Ettore Amerio, capo del personale della Fiat Mirafiori. L’interrogatorio sul fascismo nella Fiat, sui licenziamenti e sulla cassa integrazione, la condanna del sistema oppressivo dei padroni e infine il rilascio dell’ostaggio dopo 8 giorni. Segue il volantino di rivendicazione. Il metodo funziona, dà visibilità, la gente inizia a parlarne. Il 18 aprile 1974 le BR sequestrano a Genova il giudice Mario Sossi, membro del MSI e pubblico ministero in processi contro gruppi terroristici di sinistra. E’ l’operazione Girasole, condotta con l’obiettivo di “colpire al cuore lo Stato”. E a questo punto lo Stato comincia a prendere coscienza del problema, il Generale Dalla Chiesa costituisce il primo nucleo Carabinieri antiterrorismo. E’ il vero salto di qualità. Si cerca di contrattare il rilascio di alcuni terroristi detenuti, minacciando di uccidere l’ostaggio nel caso in cui le istituzioni non scendano a patti. Lo stesso giudice scrive lettere e appelli dalla prigionia perché le istituzioni si prendano le loro responsabilità. Lo Stato finge di cedere ma in realtà all’ultimo momento non libera i detenuti. Per Mara Cagol questo può bastare, perché comunque le istituzioni hanno dimostrato di voler trattare. In disaccordo con Mario Moretti che vuole ancora uccidere l’ostaggio, il 23 maggio Sossi viene liberato. La settimana dopo esplode a Brescia una bomba in piazza della Loggia, provocando otto morti e un centinaio di feriti. Nel giugno ’74 il primo passo falso delle Brigate Rosse avviene a Padova, quando il gruppo armato di Susanna Ronconi e Roberto Ognibene assalta, senza alcuna autorizzazione da parte dei capi milanesi e torinesi, la sede del Msi uccidendo due militanti. Il gruppo storico è contrario, l’imbarazzo è totale ma Curcio decide comunque di non rendere pubbliche le fratture interne e rivendica l’atto con un comunicato (il gesto gli costerà 28 anni di carcere per concorso morale in omicidio non premeditato). Il 4 agosto un altro ordigno squassa il treno Italicus lasciando dodici morti e quarantotto feriti. Il nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa nel frattempo muove le prime pedine: l’8 settembre 1974 Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati dai Carabinieri a Pinerolo. Si fanno fregare dal più improbabile degli infiltrati: Silvano Girotto, alias padre Leone, alias frate Mitra e chissà cos’altro. Proprio quel tipo che a Mara non piaceva, quello che con le sue spacconerie aveva incantato tutti ma non lei. Troppo convinto, troppo autoreferenziale, si dichiarava ex rapinatore, ex legionario, ex guerrigliero, grande esperto di armi e tuttavia Renato voleva metterlo alla prova. Fatto sta che tra i suoi tanti incarichi, Girotto aveva omesso di dire che era anche un collaboratore dell’Arma. I due vengono bloccati sulla loro 128 blu, mentre chiacchierano tranquilli ad un passaggio a livello chiuso, nelle campagne appena fuori dalla cittadina torinese. Senza essersi accorti di nulla, senza nemmeno il tempo di reagire, vengono agguantati dai militari in borghese: un paio di pugni a Franceschini mentre Curcio rimane incredulo e immobile al volante. Mario Moretti sfugge al’arresto, probabilmente perché avvertito da una telefonata di uno sconosciuto. Nonostante lui dichiarerà di aver cercato senza riuscirvi di avvertire Curcio, l’ambiguità sulla figura del futuro capo delle BR non l’abbandonerà mai più, negli anni a venire. 


L’arresto dei due capi storici si somma ad altri arresti importanti in varie parti d’Italia. Ora le BR sono davvero in difficoltà. Il loro futuro è nelle mani di Mara. Da sola ha la responsabilità della colonna torinese e deve riannodare le fila di un’organizzazione allo sbando. Inoltre cosa penseranno i suoi genitori di lei ora che suo marito è in carcere e tutti i giornali li dipingono come pericolosi sovversivi? Mara prende la decisione: ha bisogno di Renato al suo fianco, bisogna assaltare il carcere di Casale Monferrato e liberarlo; la struttura è vulnerabile, poco sorvegliata. Moretti è perplesso, la definisce un’azione emotiva, alla Bonnie & Clyde, troppo rischiosa e troppo personalistica. E se va male le BR sono finite. Tre mesi di discussioni ma alla fine Mara la spunta, l’azione si farà e sarà lei ad organizzarla. E’ il 18 febbraio 1975, una ragazza bionda si avvicina al portone del carcere. Suona, è giorno di visite, ha con sé un involucro: “per favore mi apra. Devo consegnare questo pacco a mio marito”. Nulla di strano, la donna è carina e sorridente. Pochi secondi ed il piantone fa scattare la serratura. Si ritrova con un mitra puntato al petto “stai buono o sei morto” dice la ragazza. Due uomini vestiti con le tute blu della SIP appoggiano una scala sul muro e tagliano i fili del telefono. Margherita e un altro compagno entrano, si fanno aprire un secondo cancello. Ora sono nel corridoio dove si affacciano alcune celle. Fanno mettere tutti al muro, ma Curcio non si vede. “Renato dove sei?” grida. E’ al piano superiore, scende con un balzo. Ora sono fuori, diretti ad Alassio. Tutto si è svolto in pochi minuti. Un’azione perfetta. Senza sparare un colpo. Il blitz ha una grande risonanza sui giornali. Dopo tante sconfitte le Brigate Rosse si rifanno un po’ d’immagine, grazie anche al corollario romantico di una donna che, armi in pugno, libera il suo uomo. Persino il giudice di sorveglianza mentre interroga Franceschini ha parole di ammirazione per la “magnifica donna” che ha guidato il commando. Ora però le Brigate Rosse sono a corto di denaro e decidono di finanziarsi con un rapimento. Si pensa a Vittorio Vallarino Gancia, l’industriale dello spumante. Chiederanno un riscatto di un miliardo di lire. Il sequestro è deciso per il 4 giugno 1975, Gancia viene bloccato sulla sua Alfetta in una strada di campagna con la scusa di lavori in corso. Uno dei finti operai agita una bandierina rossa mentre con l’altra mano gli fa cenno di rallentare. L’industriale ferma l’auto, un uomo esce da un furgone che lo precedeva, rompe il suo finestrino e gli punta una pistola alla tempia. Gancia viene caricato su una Fiat 124 verde oliva, manette ai polsi e coperta in faccia. Viene portato in una vecchia casa colonica da ristrutturare vicino a Canelli, che tre anni prima Mara aveva comprato per 6 milioni di lire, sotto il falso nome di Marta Caruso. E’ la Cascina Spiotta. I vicini descriveranno la proprietaria come una bella ragazza, gentile e sempre disponibile, che quando arrivava si metteva subito a lavorare i campi sorridendo, facendosi aiutare a curare la vigna ed a coltivare qualche verdura. Gancia viene chiuso in una stanzetta, un materasso e una coperta, un catino all’angolo. A custodirlo rimangono Mara ed un altro brigatista, mai identificato. Ma quella mattina qualcosa va storto: la Fiat 124 che sta tornando dopo aver scaricato l’ostaggio tampona una Fiat 500, tra Canelli e Cassinasco. Sono le 13.00. I due a bordo della 124 hanno fretta di andarsene, firmano una dichiarazione di responsabilità su un foglietto e rassicurano il guidatore della 500, Cesarino Tarditi professione idraulico. Questi però non si fida e, appena i due si allontanano, chiama lo stesso i Carabinieri. La Fiat 124 con il cofano ammaccato viene rintracciata, c’è un uomo solo a bordo. E’ un normale controllo ma l’individuo si spaventa e scappa. La fuga però dura poco, l’auto si schianta e appena viene preso Massimo Maraschi, 22enne di Lodi, si dichiara prigioniero politico. 


I due carabinieri, sbigottiti, avvertono immediatamente la centrale. Ci vuole poco a collegare il sequestro Gancia: l’area viene subito raggiunta dagli uomini del Generale Dalla Chiesa. La caccia comincia: le colline vengono suddivise in settori, le località isolate, le cascine, le abitazioni sospette vengono controllate a tappeto. Il giorno dopo, 5 giugno 1975, il Tenente Umberto Rocca comandante della Compagnia CC di Acqui Terme, dopo aver celebrato la Festa dell’Arma, esce di pattuglia con la Fiat 127 di servizio, a bordo anche il Maresciallo Rosario Cattafi e gli Appuntati Giovanni d’Alfonso e Pietro Barberis. Alle 11.30 arrivano alla cascina Spiotta, uno degli obiettivi di sua competenza da controllare. Mara sta riposando, ha fatto il turno di guardia di notte, il suo compagno che avrebbe dovuto darle il cambio, si è appisolato e non vede avvicinarsi i carabinieri. Il Maresciallo bussa alla porta e Mara si affaccia per un istante rimanendo sgomenta. All’interno il trambusto è indescrivibile. L’uomo prende la pistola mitragliatrice M1 e 4 bombe a mano SRCM, Mara borsetta e mitra a tracolla, in mano pistola e valigetta. Lui propone di ammazzare l’ostaggio, la Cagol si rifiuta: “Gancia non si tocca, non c’entra niente e la sua vita non deve essere messa a repentaglio”. Aprono la porta e l’uomo lancia la prima bomba a mano che esplode sui militari: tra le urla il braccio sinistro del tenente si stacca di netto e l’occhio sinistro – che perderà - gli si riempie di sangue. Il Maresciallo è colpito da diverse schegge in tutto il corpo ma da terra reagisce al fuoco. I due brigatisti corrono verso le auto parcheggiate, l’Appuntato d’Alfonso si para loro davanti e spara, ma viene colpito da una raffica alla testa, al torace e all’addome. Morirà poco dopo lasciando una moglie e tre figli. Mara ed il compagno raggiungono la Fiat 128, partono ma finiscono contro la 127 dell’Arma con cui l’Appuntato Barberis sta sbarrando la strada. L’uomo esce dall’auto e grida “siamo feriti, ci arrendiamo”. Barberis cessa il fuoco e intima di alzare le mani. Dopo pochi passi l’individuo, facendosi scudo della donna, estrae un’altra bomba e la lancia verso il carabiniere, il quale, scartando di lato, evita l’impatto e ricomincia a sparare. Mara Cagol viene colpita in torsione, sotto l’ascella, il colpo perfora il torace ed esce orizzontalmente dalla parte del dorso. Muore praticamente sul colpo. 


Il secondo brigatista invece si dilegua nei boschi. Il sedicente fuggitivo scriverà poi un rapporto a Curcio, in seguito ritrovato in un covo e reso pubblico, nel quale dichiarerà che mentre stava scappando si accorgeva che Mara non era con lui, voltandosi la vedeva seduta sull’erba con le mani in alto. Riprendendo la fuga avrebbe immediatamente sentito uno, forse due colpi secchi. Secondo lui Mara era stata giustiziata. Tale versione, per quanto dubbiosa vista la traiettoria dei proiettili e la posizione del cadavere, viene subito rivendicata in un comunicato delle BR. Per il giudice Caselli il brigatista fuggitivo aveva la necessità di fornire all’organizzazione una valida scusa per aver lasciato da sola la ragazza, dopo essersene addirittura fatto scudo. Tuttavia l’opinione pubblica rimane talmente scossa che vivrà per molti anni con il sospetto che quel giorno lo Stato abbia voluto giustiziare freddamente la pasionaria delle Brigate Rosse. Da quel momento la direzione strategica del movimento passa nelle mani dell’ala militarista, capeggiata da Mario Moretti. Sei mesi dopo Curcio viene arrestato a Milano insieme alla sua nuova compagna, Nadia Mantovani. Inizia la lunga fase degli omicidi e del sangue, la strada del non ritorno. 
La figura di Mara Cagol resta ancora oggi ben impressa nell’immaginario collettivo, tanto che perfino lo scrittore Umberto Eco ha affermato che, una volta scoperto che la moglie di Frà Dolcino (Margherita Boninsegna), anch’essa trentina, aveva lo stesso nome di Margherita Cagol ed era morta in condizioni analoghe, l’ha espressamente citata nel suo romanzo “Il nome della rosa”. Per molti anni la stampa nazionale la dipingerà come la donna che per amore è stata disposta a tutto, perfino a sparare, negandole quell’autonomia di pensiero e di iniziativa che ha invece caratterizzato tutte le sue scelte. 
Un mazzo di rose rosse verrà ritrovato davanti alla cascina Spiotta l’indomani della sparatoria e così il 5 giugno di ogni anno, per molti anni. 

Sergio Amendolia

fonte: I VIAGGIATORI IGNORANTI

Bibliografia
Stefania Podda, Nome di battaglia Mara, Sperling & Kupfer; 

Piero Agostini, Mara Cagol. Una donna nelle prime Brigate Rosse, Marsilio - temi; 

Gian Carlo Caselli, Le due guerre, Melampo; 

Giorgio Bocca, Noi terroristi, Garzanti. 

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

venerdì 14 settembre 2018

Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia

Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.
Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul Giovanni Falconeclientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.
Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.
Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiereLa fine di Paolo BorsellinoParioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.
I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).
I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del Claudio Martellicomando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).
Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».
L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma Tina Anselmivoleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.
Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso:  delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».
«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde Mario Draghie supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».
Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.
Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare  la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi George Sorosdegli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.
Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.
In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte Giuliano Amatooggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).
Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.
Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e Carlo Azeglio Ciampiattuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».
«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).
I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale Lamberto Diniinterna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).
Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».
Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni La famiglia Benettondicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).
Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, Roberto Colaninnosocietà che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.
Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.
Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Romano ProdiNell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.
Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il  controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.
Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di Sergio Cragnottieuro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.
Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.
(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it” del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).

fonte: http://www.libreidee.org/

sabato 1 settembre 2018

Alfredino? Gettato nel pozzo di Vermicino dai suoi assassini

La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.
E’ la notte del 13 giugno ‘81, milioni di telespettatori spengono il video alle prime ore del mattino, profondamente amareggiati e delusi. Addolorato è anche il presidente della Repubblica, Pertini, che era corso sul posto nel pomeriggio quando si credevaAlfredino Rampiche il bambino di sei anni potesse essere salvato. Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, ordina che siano immessi nel cunicolo gas refrigeranti. Il magistrato dovrà, poi, passare l’inchiesta al giudice istruttore. Si scava per alcuni giorni, poi viene prelevata una grossa sfera di terreno congelato con all’interno il corpo di Alfredino. La palla di terra e ghiaccio è trasportata all’Istituto di medicina legale dell’università. Il corpo, pur rimanendo congelato, viene isolato dalla terra; si fotografano le varie fasi e alcuni fotogrammi testimoniano l’esatta posizione di Alfredino dentro il pozzo. Il bambino si trovava nel cunicolo come fosse seduto, con le gambe ritirate a angolo retto in avanti. Il braccio sinistro, piegato anch’esso ad angolo retto, era dietro la schiena, l’altro era libero e la mano sovrastava verticalmente la testa.
I medici legali scoprono che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, c’è una lunga fettuccia di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. In sostanza un’imbracatura robusta e ben sistemata che passa anche sotto il braccio rimasto incastrato. Su questo reperto, i medici legali scattano molte foto: in una di esse si vede distintamente un grosso nodo. Per l’imbracatura viene usato anche un manichino, mentre due foto mettono in evidenza una ferita che il bambino aveva sulla testa. Ed è proprio dalla macabra sequenza di queste 62 foto, allineate in un album, che sono nati i primi sospetti sulla vicenda di Vermicino. Il primo interrogativo che si è posto il pm Giancarlo Armati nell’esaminare quei documenti fotografici riguarda il perché i due soccorritori, Licheri e Donato Caruso, non hanno agganciato La madre di Alfredinola corda rossa di soccorso a quell’anello. La risposta più semplice a questo interrogativo l’ha fornita Caruso, sceso dopo Licheri: «Non ho visto quell’imbracatura, forse stava nella parte del corpo incastrata o era coperta e sporca dal fango».
Se la risposta fosse quella giusta è evidente che Alfredino è finito nel pozzo con quell’imbracatura – o meglio, qualcuno lo ha calato nel cunicolo e poi lo ha fatto precipitare in modo che il suo corpo non fosse mai trovato. Il bambino invece rimase incastrato per due giorni a circa 36 metri di profondità poi sprofondò a 60 metri. Tutto semplice? Non è così. La soluzione del giallo ancora presenta un punto da chiarire. Angelo Licheri, il primo che raggiunse Alfredino, affermò che quell’imbracatura gli era stata data da uno speleologo prima di scendere nel pozzo di soccorso scavato a due metri dal cunicolo, e che era stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino. Proprio questa testimonianza potrebbe aver portato, finora, gli inquirenti fuori strada. Al processo, in tribunale la versione data da Licheri è stata smentita da alcuni protagonisti delle operazioni di soccorso; il pm Armati ha ravvisato molte contraddizioni su quanto è stato affermato dal coraggioso tipografo. L’ingegner Elveno Pastorelli, in modo Elveno "Mino" Pastorelliperentorio, ha detto in tribunale che Licheri non aveva quell’attrezzatura quando scese con quella specie di ascensore fino a 30 metri. «Non lo avrei mai permesso», ha detto l’ex comandante dei vigili del fuoco, «era un’attrezzatura inadatta».
Le sequenze televisive gli danno ragione, si vede Licheri che entra nel bidone-ascensore con le braccia alzate e senza alcuna fettuccia. Ha soltanto una benda legata ad un braccio: l’aveva preparata il professor Fava, il sanitario del San Giovanni che seguì le vicende del bambino e lo aiutò a resistere con latte e bevande mentre era nel cunicolo. La benda, di quelle usate in ospedale, da una parte era fissata al braccio di Licheri, dall’altra aveva un cappio che doveva essere introdotto nel braccio del bambino. Licheri ha eseguito questa operazione, però la benda scivolò. Infatti è stata trovata dai medici legali su una spalla di Alfredino e appare in due foto. Ma l’ingegner Pastorelli afferma un’altra verità, dopo aver visto le foto dell’Istituto di medicina legale. Era impossibile a Licheri o a qualsiasi altra persona realizzare quell’imbracatura all’ interno del cunicolo. Il pozzo è largo soltanto 28 centimetri, il soccorritore doveva stringere le spalle e unire le braccia protese in avanti, per potersi calare. Poteva soltanto far uso di piccoli movimenti delle sole mani e, in quelle condizioni, è pazzesco pensare che si possa fare una imbracatura.
Più drammatico è stato il confronto tra il vigile del fuoco Mario Gonini e Licheri. Gonini, che si trovava a 30 metri nella piccola galleria scavata tra il cunicolo e il pozzo di soccorso, aiutò Licheri a calarsi: gli legò i piedi, fece scendere lentamente davanti a lui la corda rossa di soccorso e un piccolo tubo che portava ossigeno per respirare. Il vigile del fuoco ha sostenuto che Licheri non aveva alcuna fettuccia e, quando quest’ultimo insisteva nella sua versione, Gonini ha urlato: «Non fare il bambino, dì la verità!». Che Licheri non avesse l’imbracatura quando scese nel cunicolo lo ha sostenuto anche lo speleologo Bernabei, che era insieme a Gonini. Bernabei e Gonini erano le uniche due persone che si trovavano, sdraiate, nella piccola galleria di raccordo, lunga 2 metri. C’è inoltre un altro elemento che mette in discussione la testimonianza di Licheri. Lo ha fornito lui stesso quando raggiunse Alfredino nel cunicolo. «Lo hai preso?», gli chiese il vigile Gonini. «Mi scivola… mi scivola», rispose Licheri. Il pm Giancarlo ArmatiE’ evidente che il soccorritore non stava operando su quella imbracatura, forte e massiccia, che il bambino aveva sul corpo, ma tentava di agganciare la mano con la benda.
Anche le manette con le quali l’altro soccorritore, Caruso, tentò di agganciare quella mano, scivolarono e il tentativo fu inutile. Licheri, inoltre, quando risalì non disse a nessuno che aveva imbracato il piccolo e che bastava agganciare la corda rossa all’ anello metallico. In questo quadro assume una rilevante importanza il comportamento di Alfredino nei due giorni che visse nel cunicolo. Non parlò mai, durante i colloqui con il vigile Nando, di come era finito in quel pozzo. L’ esame delle cose dette dal bambino comporta una sola spiegazione: Alfredino non si era reso conto in quale posto si trovava. «Quando venite a salvarmi?», chiese a Nando. Il vigile rispose: «Abbiamo delle difficoltà, ma verrò presto a prenderti». Alfredino, con voce risentita: «Ma quale difficoltà! Sfondate la porta e entrate nella stanza buia». Non fece mai il nome di nessuna persona da lui conosciuta, ad eccezione di due volte, quando invocò e parlò con la mamma. Un atteggiamento che lascia adito a numerose considerazioni – una, soprattutto: che il piccolo sia stato calato nel pozzo dopo essere stato addormentato.
(Franco Scottoni, “Alfredino du gettato in quel pozzo”, da “La Repubblica” dell’8 febbraio 1987. L’articolo si conclude con la menzione del pm Armati contro Elio Ubertini, il titolare della ditta che eseguì lo sbancamento del terreno. Due operai testimoniarono che l’imboccatura del pozzo nel quale rimase intrappolato il bambino era stata da loro chiusa con una grossa lastra di ferro, quest’ ultima coperta con grosse pietre e con due palanche di legno. «Un altro elemento che prova che il bambino non era in grado di aprire l’imboccatura del pozzo». L’articolo è ripreso dal blog dello scrittore Giuseppe Genna, autore del romanzo “Dies Irae” ispirato alla tragedia di Vermicino. Lo stesso Genna riporta anche un secondo articolo di “Repubblica”, datato 6 novembre 1987, nel quale il quotidiano scrive: «I misteri della tragedia di Alfredino Rampi, il bambino Giuseppe Gennadeceduto il 13 giugno ’81 nel cunicolo del pozzo di Vermicino, resteranno insoluti». Il pm si è arreso, chiedendo l’archiviazione del caso: Armati si è trovato nella impossibilità di accertare se la fine di Alfredino sia stata causata da disgrazia o da altre ragioni «più sconvolgenti», come lascerebbe pensare «la discordanza delle prove testimoniali e materiali».
Ubertini, che aveva sbancato il terreno, fu accusato di omicidio per aver lasciato incustodita l’apertura del pozzo. L’imputato fu assolto con formula piena, ma durante il dibattimento emersero nuovi fatti. Il capo dei soccorritori, Mino Pastorelli, insieme a due vigili del fuoco sostenne che la cinghia trovata attorno al corpo di Alfredino «non poteva essere stata messa dal soccorritore Licheri, ma da qualcuno che aveva voluto calare il bambino nel pozzo». Inoltre fu presentata una perizia che stabiliva l’impossibilità che Alfredino fosse precipitato per disgrazia, in quel maledetto pozzo, a causa dalla limitata circonferenza del cunicolo. «Queste e altre circostanze – scrive sempre “Repubblica” – non hanno trovato dei riscontri probatori tali da chiarire con certezza il giallo». Così il pm Armati non ha potuto far altro che richiedere l’archiviazione, come normalmente avviene in casi così controversi. «L’ipotesi che dietro la morte di Alfredino ci sia stata volontà non è una fantasmagoria da conspiracy theory», sottolinea Giuseppe Genna nel suo blog. «Ci fu un processo e quel processo manifestò irresolubili ambiguità, legate all’esame del povero corpicino». Tutto ciò, aggiunge lo scrittore, è poco noto agli italiani «poiché l’impatto della diretta televisiva, che mostrava a milioni di spettatori un caso tragicamente fortuito, impresse un’immagine inscalfibile nell’immaginario nazionale»).

fonte: http://www.libreidee.org/