domenica 30 aprile 2017
festa del lavoro chimico
nuova figurazione e racconto del sé
OTTONE ROSAI L'attesa, 1920
EMILIO VEDOVA Il Caffeuccio Veneziano, 1942
FILIPPO DE PISIS Il suonatore di flauto, 1940
ARNALDO BADODI L'armadio, 1938
ARNALDO BADODI Soprabito sul divano, 1941
RENATO BIROLLI Le Signorine Rossi, 1938
MARIO MAFAI Strada con casa rossa, 1928
MARIO MAFAI Tramonto sul Lungotevere, 1929
una mostra davvero difficile per me.
Collezione Iannaccone, arte italiana tra il 1920 e il 1945.
io ci vedo
una cupezza
un dolore sordo
una malinconia
un colore scuro cinereo, opaco, sfumato, un'assenza di luce.
sagome morte.
come I fidanzati di Rosai (il mio preferito): sono due figure spente, curve, piegate, senza età e senza tempo, diretti verso un futuro inspiegabile in un mondo senz'aria.
OTTONE ROSAI I fidanzati 1934
e son tutti così, periodo funereo, irrespirabile, contratto.
un'adesione totale tra uomo ed emotività, racconto di un sé sofferente, una figurazione di un mondo squassato dalle guerre.
LUIGI BROGGINI Paesaggio romano con figura sdraiata, 1932
É bello vedere come la storia dell’arte ci offra testimonianze di una continua attenzione degli artisti per i sentimenti, le emozioni e le sofferenze degli uomini. Le epoche cambiano, gli artisti si adeguano alle nuove realtà , anche socio-economiche, creando nuove poesie,ma il cuore dell’uomo non muta e allora scorgo una componente poetica comune in ogni epoca artistica. È con questi pensieri che ho iniziato a collezionare, prima opere degli anni tra le due guerre e poi, piano piano, mi sono avvicinato ai linguaggi dei giorni nostri. Amo pensare alla mia collezione come ad un unico grande contenitore di racconti senza tempo, legati da un filo conduttore che crea un dialogo tra di loro. Storie di vita vissuta, indipendentemente dalla loro epoca storica, che parlano della profondità dell’animo umano, delle sue gioie e le sue debolezze.
Giuseppe Iannaccone
fonte: http://nuovateoria.blogspot.it/
Giuseppe Iannaccone
fonte: http://nuovateoria.blogspot.it/
sabato 29 aprile 2017
5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).
«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».
Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».
La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?
«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».
Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».
In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?
«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievodel filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).
Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.
Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».
Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».
Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».
«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».
«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».
Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».
La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».
E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.
fonte: http://www.libreidee.org/
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venerdì 28 aprile 2017
la scomparsa misteriosa e unica di un genio
«Sono nato a Catania il 5 agosto del 1906. Ho seguito gli studi classici conseguendo la licenza liceale nel 1923; ho poi atteso regolarmente agli studi di ingegneria in Roma fino alla soglia dell'ultimo anno. Nel 1928 ho chiesto ed ottenuto il passaggio alla Facoltà di Fisica e nel 1929 mi sono laureato in Fisica Teorica sotto la direzione di Enrico Fermi. Negli anni successivi ho frequentato l'istituto di Fisica di Roma seguendo il movimento scientifico e attendendo a ricerche teoriche di varia indole. Ininterrottamente mi sono giovato della guida sapiente e animatrice del professore Enrico Fermi.»
Queste notizie sulla carriera didattica furono scritte nel 1932, in seguito alla richiesta di una sovvenzione al consiglio Nazionale delle Ricerche per un viaggio in Germania e Danimarca che un giovane professore voleva intraprendere dietro suggerimento di Fermi.
La storia inizia in un giorno di primavera.
25 marzo 1938, ore 23,30.
Un piroscafo della società Tirrenia è fermo nel porto di Napoli, a breve partirà con destinazione Palermo.
A bordo di quella nave vi è un uomo, un giovane professore di Fisica, magro e molto elegante.
Il suo nome è Ettore Majorana.
L'uomo ha da poco imbucato una lettera all'indirizzo di Antonio Carelli, professore di Fisica Sperimentale presso l'Università di Napoli.
E' una lettera che incute timore: «Caro Carrelli, ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma soprattutto per aver deluso tutta la fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi. Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciuti; dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo.»
Poco prima di partire Majorana aveva lasciato una seconda lettera, nella stanza d'albergo nella quale viveva, all'indirizzo dei propri familiari. «Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all'uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi.»
Entrambe le lettere ci rimandano al suicidio.
Il giovane professore di Fisica vuole morire.
Majorana si getterà in mare dal piroscafo che sbuffava verso Palermo.
Il giorno dopo, 26 marzo 1938, al professor Carelli, che non ha ancora ricevuto la lettera, giunge un telegramma da Palermo con il seguente testo: «Non allarmarti. Segue lettera. Majorana.»
Il giorno stesso scrive ed invia una lettera a Carelli con il seguente testo: «Caro Carrelli,
Spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all'albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunziare all'insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli.»
Spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all'albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunziare all'insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli.»
Il 26 marzo del 1938, alle 19 di sera, il piroscafo postale che collega la Sicilia al continente, parte da Palermo ed arriva a Napoli alle 5,45 del mattino seguente.
Ettore Majorana è tornato nella sua stanza d'albero a Napoli?
Il professore di Fisica è tornato all'Università?
No.
Ettore Majorana non è a Napoli, non è a Catania dai genitori, non è a Roma da amici.
E' scomparso.
Dov'è finito?
Dobbiamo retrocedere per avanzare.
Agli inizi degli anni trenta la fisica italiana sta conoscendo un periodo particolarmente fortunato: sono i magnifici anni dei ragazzi di via Panisperna, dal nome della via dove si trovava il Regio Istituto di Fisica dell'Università di Roma. I ragazzi di Via Panisperna era un gruppo di geniali studiosi coordinati da Enrico Fermi.
Nel silenzio di quell'istituto saranno effettuate le prime importanti ricerche per arrivare al primo reattore nucleare.
Passaggio fondamentale nella narrazione.
Per il suo carattere distaccato, critico e scontroso gli fu affibbiato il soprannome di Grande inquisitore. In verità tutti i giovani fisici dell’Istituto di via Panisperna avevano un soprannome mediato in gran parte dalla gerarchia ecclesiastica, così Fermi era il Papa, Rasetti, che spesso sostituiva Fermi in alcune mansioni importanti, il Cardinale Vicario, Corbino era il Padreterno, Segrè era Basilisco, mentre Amaldi, per le sue delicate fattezze fisiche, era chiamato Gote rosse, o Adone, un titolo di cui non era affatto entusiasta.
Ettore Majorana è uno di quei ragazzi, il più dotato, il genio del gruppo.
Di lui Enrico Fermi dirà: «Al mondo ci sono varie categorie di scienziati; gente di secondo e terzo rango, che fanno del loro meglio ma non vanno lontano. C'è anche gente di primo rango, che arriva a scoperte di grande importanza, fondamentale per lo sviluppo della scienza. Ma poi ci sono i geni come Galileo e Newton. Ebbene Ettore era uno di quelli. Majorana aveva quel che nessun altro al mondo ha. Sfortunatamente gli mancava quel che è invece comune trovare negli altri uomini: il semplice buon senso.»
Majorana si lasciò convincere ad andare a Lipsia, grazie ad una sovvenzione del Consiglio Nazionale delle Ricerche. La trasferta durò circa sei mesi. L'incontro con Werner Heisenberg fu proficuo, tanto che questi riuscì dove Fermi e molti altri avevano fallito: far pubblicare a Majorana sulla Teoria Nucleare all'interno del Giornale di Fisica.
Trascorso il periodo di permanenza a Lipsia torna in Italia.
Sembra non volersi più occupare di Fisica.
Non frequenta il gruppo di Via Panisperna.
Si chiude in casa e non parla con nessuno, salvo qualche parola con sporadici amici.
Lavora, anche dodici ore al giorno.
Lavora a cosa?
Non lo dice a nessuno.
Si occupa di Fisica, certamente.
Scrive tutto il giorno ma la sera, distrugge il lavoro della giornata.
Di questo periodo restano due brevi saggi.
Quindi, a cosa lavora?
Sembra che effettui ricerche sull'antimateria: esiste una particella chiamata, in onore dello scienziato che l'ha teorizzato, fermione Majorana. Nella fisica delle particelle questo fermione è una particella che che è anche la propria antiparticella.
A tutt'oggi non esiste nessuna evidenza sperimentale di osservazione di fermioni da parte di Majorana.
Nel luglio del 1938 iniziò la campagna antisemita in Italia con la pubblicazione del manifesto della razza e le successive leggi razziali, per cui Enrico Fermi dovette rinunciare alla collaborazione di alcuni suoi assistenti. La stessa moglie di Fermi, Laura Capon, essendo ebrea era soggetta alle persecuzioni razziali, insieme ai loro figli. La moglie ricorderà in un libro che la coppia decise di lasciare l'Italia in seguito all'attuazione delle leggi sulla razza.
Occorre ricordare che lo stesso eminente scienziato era soggetto a controlli di ogni sorta da parte del regime.
Ettore vive questa situazione per quattro lunghi anni, poi viene a conoscenza dell'esistenza di un concorso per l'insegnamento di Fisica presso l'Università di Roma.
L'università blocca l'iscrizione, probabilmente perché i posti erano assegnati e Majorana avrebbe scardinato il sistema, e lo nomina, senza concorso, professore di Fisica all'Università di Napoli.
Direttore della facoltà Antonio Carelli, persona cui Majorana scrisse la lettera, il telegramma e la nuova lettera prima di scomparire.
Iniziano le indagini da parte della Polizia.
Il capo della Polizia, Arturo Bocchini, riceve una lettera a firma del senatore Giovanni Gentile dove è richiesto di ascoltare il dottor Salvatore Majorana sul disgraziato caso del fratello scomparso.
La madre di Ettore ed Enrico Fermi scrivono a Benito Mussolini, che richiede il fascicolo al capo della Polizia. Chiudendo la lettura degli atti, Mussolini sciabola sulla copertina la seguente frase: Voglio che si trovi.
Il fascicolo torna ad Arturo Bocchini. Dopo aver letto la frase del capo del Governo scrive, in tono dimesso e con grandezza inferiore al capo: I morti si trovano, sono i vivi che possono scomparire.
Le indagini, sviluppatesi in varie direzioni, non porteranno a nulla.
Indiscrezioni e segnalazioni che non portano, e non porteranno a nulla.
Di concreto c'è solo il fatto che Ettore Majorana è scomparso.
Per sempre.
In una manciata di polvere ti mostrerò lo spavento, dice il poeta.
Questo spavento ha visto Majorana in una manciata di atomi?
Ha precisamente visto la bomba atomica?
In quella manciata di atomi ha visto la fine del mondo?
Chi lo frequentava allora lo vedeva spaventato, diceva: «Siamo sulla strada sbagliata. Gli scienziati sono sulla strada sbagliata.»
Ore 8,16 del 6 agosto 1945.
Una bomba all'uranio è sganciata su Hiroshima.
I morti sono 60.175, saliti ad oltre 100.000 negli anni seguenti a causa delle radiazioni.
«Siamo sulla strada sbagliata. Gli scienziati sono sulla strada sbagliata.»
Fabio Casalini
Bibliografia
Salvo Bella - Rivelazioni sulla scomparsa di uno scienziato: Ettore Majorana - Edizioni Italia Letteraria, Milano, 1975
Leandro Castellani - Dossier Majorana - Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1974
Alessandro Maurizi - Il destino di Majorana - Macerata, Simple edizioni, 2009
Leonardo Sciascia - La scomparsa di Majorana - Einaudi, 1975
fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/
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martedì 25 aprile 2017
un gioiello nascosto tra i campi
...e conobbi
la dolcezza che si nasconde sotto
le palpebre calate di chi aspetta
L'Oratorio San Salvatore sorge a nord dell'abitato di Casorezzo (Mi). Conduce in questo angolo di quiete un solitario viale, dove fino ad una manciata d'anni fa si narra sorgesse una fonte miracolosa in grado di porre rimedio a numerose malattie legate all'apparato visivo. Ora ricordano la sua essenza solo le innumerevoli gocciole di guazza che inumidiscono i campi circostanti nelle sterminate notti di nebbia, quando la terra sembra trattenere il respiro diluita in impercettibili sfumature d'incanto.
Le prime testimonianze di questa millenaria chiesa, posizionata lungo l'antica direttrice tra Pavia e Castelseprio (in epoca antica Casorezzo era terra di confine del contado di Seprio), risalgono al 922 e la rammentano rivolta ad oriente, esattamente il contrario di come la ritroviamo oggigiorno. Evento avvenuto per volere di San Carlo Borromeo, transitato in zona durante una delle sue innumerevoli visite pastorali.
Tra le celebrazioni di particolare rilevanza e sentimento nella storia di questa chiesa campestre è affascinante notare la presenza della festa della Trasfigurazione (nota come la “Pasqua dell’estate”), un sottile fil rouge che come nubi naviganti conduce lentamente verso oriente.
Degna di menzione anche la (doppia) dedica del luogo a Sant'Ilario, figura cara ai Longobardi, di cui una nenia infantile ad esso intitolata ancora oggi viene ricordata tra questi borghi di campagna posti nell'estremo lembo occidentale della regione.
Intitolazióne di inequivocabile influenza bizantina, la quale sembra materializzarsi nei preziosi “gioielli” medievali (datati tra XI e XII secolo) che adornano le pareti. Avvolti da un'impalpabile immobilità muti scrutano il nostro incerto passaggio. Le forme delicate e assorte ce li restituiscono come testimoni di un pensiero spirituale senza tempo.
Il ciclo completo consisteva in circa dieci episodi a soggetto cristologico narranti la storia dell'infanzia di Gesù, numerosi dei quali purtroppo andati perduti.
Soffermandoci su ciò che il tempo ha preservato dall'oblio ecco posto nel registro superiore della parete sud (il lato sinistro) un frammento di quella che doveva essere un annunciazione; si scorge la forma di un trono con decorazioni in oro e pietre preziose. A seguire, in condizioni nettamente migliori, l'incantevole rappresentazione della visita di Maria presso la cugina Elisabetta. Quest'ultima posa con tenerezza commossa la mano sul ventre gravido di Maria custodente il figliolo come prima testimonianza tangibile dell'incarnazione divina.
Continuando nell'analisi notiamo nella parte sinistra, dal bordo di una tenda decorata con motivi dai toni ocra, affacciarsi una figura femminile abbigliata con una lunga tunica. Sul lato opposto sosta invece un diacono abbigliato con una veste bianca ornata da una striscia porpora.
Entrambi hanno le labbra serrate in un enigmatica piega e raccolti nell'ombra dei pensieri osservano tacitamente la toccante scena con forte senso devozionale.
Entrambi hanno le labbra serrate in un enigmatica piega e raccolti nell'ombra dei pensieri osservano tacitamente la toccante scena con forte senso devozionale.
Sbalorditiva è la somiglianza con un affresco presente nella Chiesa costruita nel tufo a Soganli, in Turchia; ma senza catapultarci sino in Cappadocia, e restando nei confini di quello che fu il Contado del Seprio, è davvero curiosa l'affinità della scena confrontandola con l'affresco presente nella chiesa di Santa Maria foris portas (Castelseprio) ed il legame ci appare ancor più solido scrutando con attenzione il dipinto posto nella parte inferiore che ritrae la presentazione di Gesù al Tempio.
Sotto un arco sosta tacito Giuseppe. Tra le mani due colombe per il sacrificio. La profetessa Anna (figlia di Fanuele, della tribù di Aser) sul lato opposto osserva l'accadimento.
Sullo sfondo una struttura bizantina, Simeone davanti all'altare allunga le braccia in segno di accoglienza verso Cristo fanciullo sostenuto nelle mani della Vergine, quasi in forma di trono, della quale richiama nettamente la fisionomia. Ma un particolare catalizza l'occhio attento...
Le mani dell'anziano sono solo in parte velate.
E come sappiamo, grazie a numerose rappresentazioni, nell'antichità venire a contatto a mani nude col sacro (sia in forma di oggetto che di essere umano) lo avrebbe reso impuro.
Scrutando la mano sinistra del sacerdote si scorge distintamente il pollice e una parte del dorso non velata, un'evidente analogia con l'affresco dello stesso tema presente a Santa Maria foris portas.
In questo insolito gesto l'artista voleva probabilmente dimostrare la reale personificazione di Gesù come il gesto di Elisabetta nella scena precedente? Complesso affermarlo con certezza, ma rientra tra la schiera delle ipotesi più probabili.
(Presentazione di Gesù al Tempio, Castelseprio)
I due cicli suggeriscono senza dubbio l'opera di maestranze distinte, anche a livello cronologico.
Inequivocabile l'influsso bizantino nell'esercizio presente nel più fruibile lato sud (in consonanza con il ciclo di affreschi presente a S. Calocero di Civate), di vocabolario romanico la mano che testimonia ciò che resta della parete opposta.
Ciò ci spinge a fantasticare su quanta bellezza questo luogo, un tempo sperduto tra i campi, contenesse.
Ed ecco che la curiosità genera conoscenza e la conoscenza spesso sfocia in passione ed amore, un sentimento indubbiamente fecondo alla tutela e conservazione degli innumerevoli piccoli tesori nascosti di cui è costellato il nostro bel paese.
Un efficiente antidoto per arginare la dilagante mediocrità, che con sguardo accorato ci scruta e si insinua nel quotidiano di questi anni pesanti.
San Salvatore, testimonianza di prim'ordine intessuta di armonia ed eleganza, regno di leggende a tinte oniriche, che con il naso all'insù ed il cuore appeso ad una falce di luna amiamo ancora sentirci sussurrare.
Filippo Spadoni
fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/
Bibliografia
L'Oratorio di San Salvatore a Casorezzo: C. Bertelli, E. Griner, P.C.Marani, N. White, P. Zanolini, G. Zari 1994
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