La cascina Spiotta è ancora là, in cima alla collina, tra i dolci paesaggi delle langhe, circondata dagli alberi e con un grande prato davanti. Irriconoscibile, se non fosse per una targa sul cancello, rispetto alle foto che finirono sui giornali oltre 40 anni fa. Quel 5 giugno 1975 ad Acqui se lo ricordano ancora: il rapimento, gli spari, la morte sull’erba per un carabiniere e per quella giovane donna. Il grave ferimento di altri militari della pattuglia. La paura e la rabbia dall’una e dall’altra parte. Era il battesimo di sangue delle Brigate Rosse. Molti storici hanno definito il tragico evento della cascina Spiotta come la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Quell’idea quasi romantica di cavalcare la rivoluzione di classe, nata nel 1966 con la prima occupazione dell’università di Trento, alimentata dai tumulti del ’68 e dalle grandi proteste operaie dei primi anni ’70, stava per segnare il passo ad un lungo periodo di buio e di terrore. La notte della Repubblica, che avrebbe lasciato disseminati per le strade italiane centinaia di morti tra gente comune, opposte fazioni politiche e uomini delle istituzioni. E comunque si vogliano leggere e interpretare i cosiddetti “anni di piombo” quel tragico evento di cascina Spiotta resterà legato per sempre all’immagine di una ragazza riversa sul prato in una giornata di sole, i jeans arrotolati, le scarpe di corda, il viso solcato da un rivolo di sangue. Così è morta quel giorno Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, fondatrice del nucleo storico delle Brigate Rosse, capo della colonna torinese. La prima donna ad aver scelto la lotta armata, la prima a morire.
Margherita nasce a Trento l’8 aprile 1945 in una famiglia della media borghesia. E’ l’ultima di tre figlie, il padre gestisce una profumeria e la madre lavora in una farmacia. Una famiglia molto unita e religiosa: scuola e lavoro durante la settimana, messa in chiesa alla domenica, vacanze estive negli scout o in colonia. Margherita quando non studia fa volontariato insieme ad un padre gesuita negli ospizi di Trento. Pratica sport, scia, gioca a tennis, ama fare trekking in montagna. La chitarra classica è la sua grande passione, è talmente dotata da eccellere a livello nazionale, si esibisce perfino all’estero. Potrebbe diventare un naturale sbocco lavorativo se la ragazza non decidesse di iscriversi alla facoltà di sociologia dell’università di Trento. E’ l’origine di tutto. In quegli anni l’ateneo è un’autentica fucina di idee: tanto all’avanguardia per la formazione dei futuri quadri del nuovo capitalismo industriale, quanto un sottobosco ideologico e antagonista per il ‘68 italiano. Tra i professori ci sono Romano Prodi e Beniamino Andreatta, tra gli studenti Renato Curcio e Mauro Rostagno. Margherita conosce Curcio con il quale ben presto si lega sentimentalmente. Lei è bella, di una bellezza tranquilla, non appariscente. Capelli neri e occhi verdi, un viso minuto. E’ seria, riservata, si trova subito bene con quel ragazzo che sembra avere sempre un’ombra di malinconia negli occhi. È il gennaio 1966, gli studenti decidono di occupare l’università. Margherita è fra loro anche se ogni giorno, entro le 19.00, deve per forza rientrare a casa dai genitori. L’anno successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra. Si laurea il 29 luglio del 1969 con la tesi “Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico”. Uscirà con 110 e lode e saluterà tutti con il pugno chiuso: “mi ha spiazzato – ricorderà il rettore Francesco Alberoni – non credevo fosse così politicizzata”. Il primo agosto Margherita e Renato si sposano in Chiesa, con rito misto cattolico-valdese (Curcio proviene da Torre Pellice) nell’antico monastero di San Romedio, luogo incantato della Val di Non. Dopo un breve viaggio di nozze si trasferiscono a Milano, dove Mara ha vinto una borsa di studio di due anni per un corso di sociologia. Studia la vita di fabbrica, coltivando il suo impegno politico in maniera sempre più pressante.
L'8 settembre 1969 Margherita Cagol, Renato Curcio ed altri fondano il Collettivo Politico Metropolitano (CPM) venendo introdotti nelle fabbriche milanesi: SIT Siemens, Alfa Romeo, Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini. Siamo in pieno “autunno caldo”, scaduto il contratto nazionale dei metalmeccanici le proteste ed i disordini si susseguono incessanti. Il 12 dicembre del 1969 accade qualcosa che cambierà per sempre il destino di questa generazione di giovani e dell’Italia intera: in piazza Fontana scoppia una bomba che uccide diciassette persone e ne ferisce novanta. L’opinione pubblica è disorientata, i depistaggi, la morte dell’anarchico Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda. Ha inizio la strategia della tensione. I militanti della sinistra extra-parlamentare si riuniscono in convegni, a Pecorile parlano per la prima volta di strage di Stato, di reazione ad un sistema imperialista capace di sacrificare chiunque pur di mantenere il potere, discutono di lotta armata e di clandestinità. Margherita partecipa e intanto scrive lunghe lettere ai familiari, in particolare alla madre, alla quale confessa che la sua coscienza sta cambiando, che Milano le appare sempre più “… un mostro feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di essenziale c’è nella vita. Milano è la barbarie, è la vera faccia della società in cui viviamo … Questa società … ci toglie la possibilità di coltivare la famiglia, di coltivare noi stessi, le nostre esigenze, i nostri bisogni, ci reprime … ha estremo bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario …. Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo perché questo io credo sia il senso della nostra vita.” La militanza passa dalle parole ai fatti. In una malandata Fiat 850, nel traffico di piazzale Loreto, il 29enne Renato Curcio fa un cenno a Margherita, all’epoca 25enne e al compagno Alberto Franceschini, 23 anni: “è lì che le brigate partigiane hanno appeso a testa in giù Mussolini e la Petacci”. Si guardano in silenzio. Ma certo, brigata è il nome giusto. Brigata e poi? Rossa, propone Margherita. Gli altri annuiscono. E’ fatta. Così nascono le Brigate Rosse. Come simbolo la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa utilizzata dai Tupamaros uruguaiani. Margherita sceglie il suo nome di battaglia: Mara. E’ il 17 settembre 1970 quando iniziano le prime azioni: Franceschini e la Cagol danno fuoco all’auto del capo del personale della SIT-Siemens, Giuseppe Leoni, colpevole di aver fatto fotografare i partecipanti ai picchetti e di averli poi licenziati. Comincia la propaganda: Curcio, il teorico del gruppo, scrive il volantino di rivendicazione. A novembre viene diffuso alla Pirelli un comunicato con la stella a 5 punte in cui compaiono i nomi dei capi e dei crumiri da punire. Qualche giorno dopo bruciano anche le macchine del capo della vigilanza, Ermanno Pellegrini e del dirigente Enrico Loriga. Gli atti di “punizione” sulle auto dei dirigenti proseguono per tutto il 1971, seguiti da volantini di rivendicazione ma stigmatizzati dai giornali come puro e insignificante teppismo. Mara in quell’anno rimane incinta, è felice, lei e Renato fanno progetti, pensano a come conciliare la cura di un bambino con gli impegni politici. Sarà difficile ma in fondo non c’è stata fino ad ora alcuna scelta irrevocabile, questo figlio può rimettere in discussione tutto. Invece al sesto mese Mara cade dal motorino e perde il bambino. Da lì in poi la sua vita comincia a correre, già l’anno seguente, il 2 maggio, i Carabinieri scoprono il covo di via Boiardo a Milano ed entrano in possesso di tutti i nomi dei capi storici. Mara e Renato passano alla clandestinità.
Ne parlano a lungo ma l’ipotesi di fare un altro figlio è definitivamente tramontata. Non ci sono più margini, la lotta armata è ormai definitiva. In una delle molte lettere ai genitori Mara scrive: “ … Cari genitori non pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi da ragione come l’ha data alla Resistenza del ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri …”
In Italia proseguono gli atti di contestazione e di violenza per tutto il 1972, le sigle di gruppi armati di destra e sinistra nascono come funghi: Giangiacomo Feltrinelli viene trovato ucciso a Segrate, esploso mentre prepara un attentato ad un traliccio; a Milano viene ucciso il commissario Calabresi. Le neonate brigate di Curcio e Mara proseguono però con atti dimostrativi, senza macchiarsi di sangue. Ormai ricercati, Curcio e la Cagol si trasferiscono a Torino, lei diventa capo della colonna torinese mentre a Milano restano Franceschini e Moretti. Comincia la penetrazione informativa negli stabilimenti Fiat di Mirafiori e Lingotto. Mara, nelle sue costanti lettere, continua a rassicurare i genitori, dice che vorrebbe passare un po’ di tempo a casa, ma loro leggono i giornali e temono il peggio, non sanno come comportarsi con questi due ragazzi che si sono messi in testa di cambiare il mondo e adesso hanno il mondo contro. Nell’autunno 1973 l’economia mondiale attraversa la sua crisi più grave dal 1929. La guerra arabo-israeliana fa lievitare i prezzi del petrolio. L’inflazione è fuori controllo, l’anno seguente toccherà il 23%. A novembre il Governo vara il decreto “Austerity”: niente auto la domenica, insegne spente a partire dalle 22.00, strade a illuminazione ridotta, chiusura serale di radio e televisione. Ma sono i lavoratori a pagare il prezzo più caro dei sacrifici, la Fiat è pronta a licenziare, Agnelli ventila la cassa integrazione, il rinnovo del contratto non arriva ed i turni in fabbrica sono massacranti, il sindacato è in difficoltà. Mirafiori viene occupata per tre giorni con bandiere rosse sui tetti e operai padroni dei reparti. Cortei. Assemblee. La Cagol e Curcio organizzano il sequestro di Ettore Amerio, capo del personale della Fiat Mirafiori. L’interrogatorio sul fascismo nella Fiat, sui licenziamenti e sulla cassa integrazione, la condanna del sistema oppressivo dei padroni e infine il rilascio dell’ostaggio dopo 8 giorni. Segue il volantino di rivendicazione. Il metodo funziona, dà visibilità, la gente inizia a parlarne. Il 18 aprile 1974 le BR sequestrano a Genova il giudice Mario Sossi, membro del MSI e pubblico ministero in processi contro gruppi terroristici di sinistra. E’ l’operazione Girasole, condotta con l’obiettivo di “colpire al cuore lo Stato”. E a questo punto lo Stato comincia a prendere coscienza del problema, il Generale Dalla Chiesa costituisce il primo nucleo Carabinieri antiterrorismo. E’ il vero salto di qualità. Si cerca di contrattare il rilascio di alcuni terroristi detenuti, minacciando di uccidere l’ostaggio nel caso in cui le istituzioni non scendano a patti. Lo stesso giudice scrive lettere e appelli dalla prigionia perché le istituzioni si prendano le loro responsabilità. Lo Stato finge di cedere ma in realtà all’ultimo momento non libera i detenuti. Per Mara Cagol questo può bastare, perché comunque le istituzioni hanno dimostrato di voler trattare. In disaccordo con Mario Moretti che vuole ancora uccidere l’ostaggio, il 23 maggio Sossi viene liberato. La settimana dopo esplode a Brescia una bomba in piazza della Loggia, provocando otto morti e un centinaio di feriti. Nel giugno ’74 il primo passo falso delle Brigate Rosse avviene a Padova, quando il gruppo armato di Susanna Ronconi e Roberto Ognibene assalta, senza alcuna autorizzazione da parte dei capi milanesi e torinesi, la sede del Msi uccidendo due militanti. Il gruppo storico è contrario, l’imbarazzo è totale ma Curcio decide comunque di non rendere pubbliche le fratture interne e rivendica l’atto con un comunicato (il gesto gli costerà 28 anni di carcere per concorso morale in omicidio non premeditato). Il 4 agosto un altro ordigno squassa il treno Italicus lasciando dodici morti e quarantotto feriti. Il nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa nel frattempo muove le prime pedine: l’8 settembre 1974 Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati dai Carabinieri a Pinerolo. Si fanno fregare dal più improbabile degli infiltrati: Silvano Girotto, alias padre Leone, alias frate Mitra e chissà cos’altro. Proprio quel tipo che a Mara non piaceva, quello che con le sue spacconerie aveva incantato tutti ma non lei. Troppo convinto, troppo autoreferenziale, si dichiarava ex rapinatore, ex legionario, ex guerrigliero, grande esperto di armi e tuttavia Renato voleva metterlo alla prova. Fatto sta che tra i suoi tanti incarichi, Girotto aveva omesso di dire che era anche un collaboratore dell’Arma. I due vengono bloccati sulla loro 128 blu, mentre chiacchierano tranquilli ad un passaggio a livello chiuso, nelle campagne appena fuori dalla cittadina torinese. Senza essersi accorti di nulla, senza nemmeno il tempo di reagire, vengono agguantati dai militari in borghese: un paio di pugni a Franceschini mentre Curcio rimane incredulo e immobile al volante. Mario Moretti sfugge al’arresto, probabilmente perché avvertito da una telefonata di uno sconosciuto. Nonostante lui dichiarerà di aver cercato senza riuscirvi di avvertire Curcio, l’ambiguità sulla figura del futuro capo delle BR non l’abbandonerà mai più, negli anni a venire.
L’arresto dei due capi storici si somma ad altri arresti importanti in varie parti d’Italia. Ora le BR sono davvero in difficoltà. Il loro futuro è nelle mani di Mara. Da sola ha la responsabilità della colonna torinese e deve riannodare le fila di un’organizzazione allo sbando. Inoltre cosa penseranno i suoi genitori di lei ora che suo marito è in carcere e tutti i giornali li dipingono come pericolosi sovversivi? Mara prende la decisione: ha bisogno di Renato al suo fianco, bisogna assaltare il carcere di Casale Monferrato e liberarlo; la struttura è vulnerabile, poco sorvegliata. Moretti è perplesso, la definisce un’azione emotiva, alla Bonnie & Clyde, troppo rischiosa e troppo personalistica. E se va male le BR sono finite. Tre mesi di discussioni ma alla fine Mara la spunta, l’azione si farà e sarà lei ad organizzarla. E’ il 18 febbraio 1975, una ragazza bionda si avvicina al portone del carcere. Suona, è giorno di visite, ha con sé un involucro: “per favore mi apra. Devo consegnare questo pacco a mio marito”. Nulla di strano, la donna è carina e sorridente. Pochi secondi ed il piantone fa scattare la serratura. Si ritrova con un mitra puntato al petto “stai buono o sei morto” dice la ragazza. Due uomini vestiti con le tute blu della SIP appoggiano una scala sul muro e tagliano i fili del telefono. Margherita e un altro compagno entrano, si fanno aprire un secondo cancello. Ora sono nel corridoio dove si affacciano alcune celle. Fanno mettere tutti al muro, ma Curcio non si vede. “Renato dove sei?” grida. E’ al piano superiore, scende con un balzo. Ora sono fuori, diretti ad Alassio. Tutto si è svolto in pochi minuti. Un’azione perfetta. Senza sparare un colpo. Il blitz ha una grande risonanza sui giornali. Dopo tante sconfitte le Brigate Rosse si rifanno un po’ d’immagine, grazie anche al corollario romantico di una donna che, armi in pugno, libera il suo uomo. Persino il giudice di sorveglianza mentre interroga Franceschini ha parole di ammirazione per la “magnifica donna” che ha guidato il commando. Ora però le Brigate Rosse sono a corto di denaro e decidono di finanziarsi con un rapimento. Si pensa a Vittorio Vallarino Gancia, l’industriale dello spumante. Chiederanno un riscatto di un miliardo di lire. Il sequestro è deciso per il 4 giugno 1975, Gancia viene bloccato sulla sua Alfetta in una strada di campagna con la scusa di lavori in corso. Uno dei finti operai agita una bandierina rossa mentre con l’altra mano gli fa cenno di rallentare. L’industriale ferma l’auto, un uomo esce da un furgone che lo precedeva, rompe il suo finestrino e gli punta una pistola alla tempia. Gancia viene caricato su una Fiat 124 verde oliva, manette ai polsi e coperta in faccia. Viene portato in una vecchia casa colonica da ristrutturare vicino a Canelli, che tre anni prima Mara aveva comprato per 6 milioni di lire, sotto il falso nome di Marta Caruso. E’ la Cascina Spiotta. I vicini descriveranno la proprietaria come una bella ragazza, gentile e sempre disponibile, che quando arrivava si metteva subito a lavorare i campi sorridendo, facendosi aiutare a curare la vigna ed a coltivare qualche verdura. Gancia viene chiuso in una stanzetta, un materasso e una coperta, un catino all’angolo. A custodirlo rimangono Mara ed un altro brigatista, mai identificato. Ma quella mattina qualcosa va storto: la Fiat 124 che sta tornando dopo aver scaricato l’ostaggio tampona una Fiat 500, tra Canelli e Cassinasco. Sono le 13.00. I due a bordo della 124 hanno fretta di andarsene, firmano una dichiarazione di responsabilità su un foglietto e rassicurano il guidatore della 500, Cesarino Tarditi professione idraulico. Questi però non si fida e, appena i due si allontanano, chiama lo stesso i Carabinieri. La Fiat 124 con il cofano ammaccato viene rintracciata, c’è un uomo solo a bordo. E’ un normale controllo ma l’individuo si spaventa e scappa. La fuga però dura poco, l’auto si schianta e appena viene preso Massimo Maraschi, 22enne di Lodi, si dichiara prigioniero politico.
I due carabinieri, sbigottiti, avvertono immediatamente la centrale. Ci vuole poco a collegare il sequestro Gancia: l’area viene subito raggiunta dagli uomini del Generale Dalla Chiesa. La caccia comincia: le colline vengono suddivise in settori, le località isolate, le cascine, le abitazioni sospette vengono controllate a tappeto. Il giorno dopo, 5 giugno 1975, il Tenente Umberto Rocca comandante della Compagnia CC di Acqui Terme, dopo aver celebrato la Festa dell’Arma, esce di pattuglia con la Fiat 127 di servizio, a bordo anche il Maresciallo Rosario Cattafi e gli Appuntati Giovanni d’Alfonso e Pietro Barberis. Alle 11.30 arrivano alla cascina Spiotta, uno degli obiettivi di sua competenza da controllare. Mara sta riposando, ha fatto il turno di guardia di notte, il suo compagno che avrebbe dovuto darle il cambio, si è appisolato e non vede avvicinarsi i carabinieri. Il Maresciallo bussa alla porta e Mara si affaccia per un istante rimanendo sgomenta. All’interno il trambusto è indescrivibile. L’uomo prende la pistola mitragliatrice M1 e 4 bombe a mano SRCM, Mara borsetta e mitra a tracolla, in mano pistola e valigetta. Lui propone di ammazzare l’ostaggio, la Cagol si rifiuta: “Gancia non si tocca, non c’entra niente e la sua vita non deve essere messa a repentaglio”. Aprono la porta e l’uomo lancia la prima bomba a mano che esplode sui militari: tra le urla il braccio sinistro del tenente si stacca di netto e l’occhio sinistro – che perderà - gli si riempie di sangue. Il Maresciallo è colpito da diverse schegge in tutto il corpo ma da terra reagisce al fuoco. I due brigatisti corrono verso le auto parcheggiate, l’Appuntato d’Alfonso si para loro davanti e spara, ma viene colpito da una raffica alla testa, al torace e all’addome. Morirà poco dopo lasciando una moglie e tre figli. Mara ed il compagno raggiungono la Fiat 128, partono ma finiscono contro la 127 dell’Arma con cui l’Appuntato Barberis sta sbarrando la strada. L’uomo esce dall’auto e grida “siamo feriti, ci arrendiamo”. Barberis cessa il fuoco e intima di alzare le mani. Dopo pochi passi l’individuo, facendosi scudo della donna, estrae un’altra bomba e la lancia verso il carabiniere, il quale, scartando di lato, evita l’impatto e ricomincia a sparare. Mara Cagol viene colpita in torsione, sotto l’ascella, il colpo perfora il torace ed esce orizzontalmente dalla parte del dorso. Muore praticamente sul colpo.
Il secondo brigatista invece si dilegua nei boschi. Il sedicente fuggitivo scriverà poi un rapporto a Curcio, in seguito ritrovato in un covo e reso pubblico, nel quale dichiarerà che mentre stava scappando si accorgeva che Mara non era con lui, voltandosi la vedeva seduta sull’erba con le mani in alto. Riprendendo la fuga avrebbe immediatamente sentito uno, forse due colpi secchi. Secondo lui Mara era stata giustiziata. Tale versione, per quanto dubbiosa vista la traiettoria dei proiettili e la posizione del cadavere, viene subito rivendicata in un comunicato delle BR. Per il giudice Caselli il brigatista fuggitivo aveva la necessità di fornire all’organizzazione una valida scusa per aver lasciato da sola la ragazza, dopo essersene addirittura fatto scudo. Tuttavia l’opinione pubblica rimane talmente scossa che vivrà per molti anni con il sospetto che quel giorno lo Stato abbia voluto giustiziare freddamente la pasionaria delle Brigate Rosse. Da quel momento la direzione strategica del movimento passa nelle mani dell’ala militarista, capeggiata da Mario Moretti. Sei mesi dopo Curcio viene arrestato a Milano insieme alla sua nuova compagna, Nadia Mantovani. Inizia la lunga fase degli omicidi e del sangue, la strada del non ritorno.
La figura di Mara Cagol resta ancora oggi ben impressa nell’immaginario collettivo, tanto che perfino lo scrittore Umberto Eco ha affermato che, una volta scoperto che la moglie di Frà Dolcino (Margherita Boninsegna), anch’essa trentina, aveva lo stesso nome di Margherita Cagol ed era morta in condizioni analoghe, l’ha espressamente citata nel suo romanzo “Il nome della rosa”. Per molti anni la stampa nazionale la dipingerà come la donna che per amore è stata disposta a tutto, perfino a sparare, negandole quell’autonomia di pensiero e di iniziativa che ha invece caratterizzato tutte le sue scelte.
Un mazzo di rose rosse verrà ritrovato davanti alla cascina Spiotta l’indomani della sparatoria e così il 5 giugno di ogni anno, per molti anni.
Bibliografia
Stefania Podda, Nome di battaglia Mara, Sperling & Kupfer;
Piero Agostini, Mara Cagol. Una donna nelle prime Brigate Rosse, Marsilio - temi;
Gian Carlo Caselli, Le due guerre, Melampo;
Giorgio Bocca, Noi terroristi, Garzanti.
SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.