domenica 19 maggio 2019

nome di battaglia Mara


La cascina Spiotta è ancora là, in cima alla collina, tra i dolci paesaggi delle langhe, circondata dagli alberi e con un grande prato davanti. Irriconoscibile, se non fosse per una targa sul cancello, rispetto alle foto che finirono sui giornali oltre 40 anni fa. Quel 5 giugno 1975 ad Acqui se lo ricordano ancora: il rapimento, gli spari, la morte sull’erba per un carabiniere e per quella giovane donna. Il grave ferimento di altri militari della pattuglia. La paura e la rabbia dall’una e dall’altra parte. Era il battesimo di sangue delle Brigate Rosse. Molti storici hanno definito il tragico evento della cascina Spiotta come la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Quell’idea quasi romantica di cavalcare la rivoluzione di classe, nata nel 1966 con la prima occupazione dell’università di Trento, alimentata dai tumulti del ’68 e dalle grandi proteste operaie dei primi anni ’70, stava per segnare il passo ad un lungo periodo di buio e di terrore. La notte della Repubblica, che avrebbe lasciato disseminati per le strade italiane centinaia di morti tra gente comune, opposte fazioni politiche e uomini delle istituzioni. E comunque si vogliano leggere e interpretare i cosiddetti “anni di piombo” quel tragico evento di cascina Spiotta resterà legato per sempre all’immagine di una ragazza riversa sul prato in una giornata di sole, i jeans arrotolati, le scarpe di corda, il viso solcato da un rivolo di sangue. Così è morta quel giorno Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, fondatrice del nucleo storico delle Brigate Rosse, capo della colonna torinese. La prima donna ad aver scelto la lotta armata, la prima a morire. 


Margherita nasce a Trento l’8 aprile 1945 in una famiglia della media borghesia. E’ l’ultima di tre figlie, il padre gestisce una profumeria e la madre lavora in una farmacia. Una famiglia molto unita e religiosa: scuola e lavoro durante la settimana, messa in chiesa alla domenica, vacanze estive negli scout o in colonia. Margherita quando non studia fa volontariato insieme ad un padre gesuita negli ospizi di Trento. Pratica sport, scia, gioca a tennis, ama fare trekking in montagna. La chitarra classica è la sua grande passione, è talmente dotata da eccellere a livello nazionale, si esibisce perfino all’estero. Potrebbe diventare un naturale sbocco lavorativo se la ragazza non decidesse di iscriversi alla facoltà di sociologia dell’università di Trento. E’ l’origine di tutto. In quegli anni l’ateneo è un’autentica fucina di idee: tanto all’avanguardia per la formazione dei futuri quadri del nuovo capitalismo industriale, quanto un sottobosco ideologico e antagonista per il ‘68 italiano. Tra i professori ci sono Romano Prodi e Beniamino Andreatta, tra gli studenti Renato Curcio e Mauro Rostagno. Margherita conosce Curcio con il quale ben presto si lega sentimentalmente. Lei è bella, di una bellezza tranquilla, non appariscente. Capelli neri e occhi verdi, un viso minuto. E’ seria, riservata, si trova subito bene con quel ragazzo che sembra avere sempre un’ombra di malinconia negli occhi. È il gennaio 1966, gli studenti decidono di occupare l’università. Margherita è fra loro anche se ogni giorno, entro le 19.00, deve per forza rientrare a casa dai genitori. L’anno successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra. Si laurea il 29 luglio del 1969 con la tesi “Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico”. Uscirà con 110 e lode e saluterà tutti con il pugno chiuso: “mi ha spiazzato – ricorderà il rettore Francesco Alberoni – non credevo fosse così politicizzata”. Il primo agosto Margherita e Renato si sposano in Chiesa, con rito misto cattolico-valdese (Curcio proviene da Torre Pellice) nell’antico monastero di San Romedio, luogo incantato della Val di Non. Dopo un breve viaggio di nozze si trasferiscono a Milano, dove Mara ha vinto una borsa di studio di due anni per un corso di sociologia. Studia la vita di fabbrica, coltivando il suo impegno politico in maniera sempre più pressante. 


L'8 settembre 1969 Margherita Cagol, Renato Curcio ed altri fondano il Collettivo Politico Metropolitano (CPM) venendo introdotti nelle fabbriche milanesi: SIT Siemens, Alfa Romeo, Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini. Siamo in pieno “autunno caldo”, scaduto il contratto nazionale dei metalmeccanici le proteste ed i disordini si susseguono incessanti. Il 12 dicembre del 1969 accade qualcosa che cambierà per sempre il destino di questa generazione di giovani e dell’Italia intera: in piazza Fontana scoppia una bomba che uccide diciassette persone e ne ferisce novanta. L’opinione pubblica è disorientata, i depistaggi, la morte dell’anarchico Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda. Ha inizio la strategia della tensione. I militanti della sinistra extra-parlamentare si riuniscono in convegni, a Pecorile parlano per la prima volta di strage di Stato, di reazione ad un sistema imperialista capace di sacrificare chiunque pur di mantenere il potere, discutono di lotta armata e di clandestinità. Margherita partecipa e intanto scrive lunghe lettere ai familiari, in particolare alla madre, alla quale confessa che la sua coscienza sta cambiando, che Milano le appare sempre più “… un mostro feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di essenziale c’è nella vita. Milano è la barbarie, è la vera faccia della società in cui viviamo … Questa società … ci toglie la possibilità di coltivare la famiglia, di coltivare noi stessi, le nostre esigenze, i nostri bisogni, ci reprime … ha estremo bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario …. Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo perché questo io credo sia il senso della nostra vita.” La militanza passa dalle parole ai fatti. In una malandata Fiat 850, nel traffico di piazzale Loreto, il 29enne Renato Curcio fa un cenno a Margherita, all’epoca 25enne e al compagno Alberto Franceschini, 23 anni: “è lì che le brigate partigiane hanno appeso a testa in giù Mussolini e la Petacci”. Si guardano in silenzio. Ma certo, brigata è il nome giusto. Brigata e poi? Rossa, propone Margherita. Gli altri annuiscono. E’ fatta. Così nascono le Brigate Rosse. Come simbolo la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa utilizzata dai Tupamaros uruguaiani. Margherita sceglie il suo nome di battaglia: Mara. E’ il 17 settembre 1970 quando iniziano le prime azioni: Franceschini e la Cagol danno fuoco all’auto del capo del personale della SIT-Siemens, Giuseppe Leoni, colpevole di aver fatto fotografare i partecipanti ai picchetti e di averli poi licenziati. Comincia la propaganda: Curcio, il teorico del gruppo, scrive il volantino di rivendicazione. A novembre viene diffuso alla Pirelli un comunicato con la stella a 5 punte in cui compaiono i nomi dei capi e dei crumiri da punire. Qualche giorno dopo bruciano anche le macchine del capo della vigilanza, Ermanno Pellegrini e del dirigente Enrico Loriga. Gli atti di “punizione” sulle auto dei dirigenti proseguono per tutto il 1971, seguiti da volantini di rivendicazione ma stigmatizzati dai giornali come puro e insignificante teppismo. Mara in quell’anno rimane incinta, è felice, lei e Renato fanno progetti, pensano a come conciliare la cura di un bambino con gli impegni politici. Sarà difficile ma in fondo non c’è stata fino ad ora alcuna scelta irrevocabile, questo figlio può rimettere in discussione tutto. Invece al sesto mese Mara cade dal motorino e perde il bambino. Da lì in poi la sua vita comincia a correre, già l’anno seguente, il 2 maggio, i Carabinieri scoprono il covo di via Boiardo a Milano ed entrano in possesso di tutti i nomi dei capi storici. Mara e Renato passano alla clandestinità. 


Ne parlano a lungo ma l’ipotesi di fare un altro figlio è definitivamente tramontata. Non ci sono più margini, la lotta armata è ormai definitiva. In una delle molte lettere ai genitori Mara scrive: “ … Cari genitori non pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi da ragione come l’ha data alla Resistenza del ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri …” 
In Italia proseguono gli atti di contestazione e di violenza per tutto il 1972, le sigle di gruppi armati di destra e sinistra nascono come funghi: Giangiacomo Feltrinelli viene trovato ucciso a Segrate, esploso mentre prepara un attentato ad un traliccio; a Milano viene ucciso il commissario Calabresi. Le neonate brigate di Curcio e Mara proseguono però con atti dimostrativi, senza macchiarsi di sangue. Ormai ricercati, Curcio e la Cagol si trasferiscono a Torino, lei diventa capo della colonna torinese mentre a Milano restano Franceschini e Moretti. Comincia la penetrazione informativa negli stabilimenti Fiat di Mirafiori e Lingotto. Mara, nelle sue costanti lettere, continua a rassicurare i genitori, dice che vorrebbe passare un po’ di tempo a casa, ma loro leggono i giornali e temono il peggio, non sanno come comportarsi con questi due ragazzi che si sono messi in testa di cambiare il mondo e adesso hanno il mondo contro. Nell’autunno 1973 l’economia mondiale attraversa la sua crisi più grave dal 1929. La guerra arabo-israeliana fa lievitare i prezzi del petrolio. L’inflazione è fuori controllo, l’anno seguente toccherà il 23%. A novembre il Governo vara il decreto “Austerity”: niente auto la domenica, insegne spente a partire dalle 22.00, strade a illuminazione ridotta, chiusura serale di radio e televisione. Ma sono i lavoratori a pagare il prezzo più caro dei sacrifici, la Fiat è pronta a licenziare, Agnelli ventila la cassa integrazione, il rinnovo del contratto non arriva ed i turni in fabbrica sono massacranti, il sindacato è in difficoltà. Mirafiori viene occupata per tre giorni con bandiere rosse sui tetti e operai padroni dei reparti. Cortei. Assemblee. La Cagol e Curcio organizzano il sequestro di Ettore Amerio, capo del personale della Fiat Mirafiori. L’interrogatorio sul fascismo nella Fiat, sui licenziamenti e sulla cassa integrazione, la condanna del sistema oppressivo dei padroni e infine il rilascio dell’ostaggio dopo 8 giorni. Segue il volantino di rivendicazione. Il metodo funziona, dà visibilità, la gente inizia a parlarne. Il 18 aprile 1974 le BR sequestrano a Genova il giudice Mario Sossi, membro del MSI e pubblico ministero in processi contro gruppi terroristici di sinistra. E’ l’operazione Girasole, condotta con l’obiettivo di “colpire al cuore lo Stato”. E a questo punto lo Stato comincia a prendere coscienza del problema, il Generale Dalla Chiesa costituisce il primo nucleo Carabinieri antiterrorismo. E’ il vero salto di qualità. Si cerca di contrattare il rilascio di alcuni terroristi detenuti, minacciando di uccidere l’ostaggio nel caso in cui le istituzioni non scendano a patti. Lo stesso giudice scrive lettere e appelli dalla prigionia perché le istituzioni si prendano le loro responsabilità. Lo Stato finge di cedere ma in realtà all’ultimo momento non libera i detenuti. Per Mara Cagol questo può bastare, perché comunque le istituzioni hanno dimostrato di voler trattare. In disaccordo con Mario Moretti che vuole ancora uccidere l’ostaggio, il 23 maggio Sossi viene liberato. La settimana dopo esplode a Brescia una bomba in piazza della Loggia, provocando otto morti e un centinaio di feriti. Nel giugno ’74 il primo passo falso delle Brigate Rosse avviene a Padova, quando il gruppo armato di Susanna Ronconi e Roberto Ognibene assalta, senza alcuna autorizzazione da parte dei capi milanesi e torinesi, la sede del Msi uccidendo due militanti. Il gruppo storico è contrario, l’imbarazzo è totale ma Curcio decide comunque di non rendere pubbliche le fratture interne e rivendica l’atto con un comunicato (il gesto gli costerà 28 anni di carcere per concorso morale in omicidio non premeditato). Il 4 agosto un altro ordigno squassa il treno Italicus lasciando dodici morti e quarantotto feriti. Il nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa nel frattempo muove le prime pedine: l’8 settembre 1974 Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati dai Carabinieri a Pinerolo. Si fanno fregare dal più improbabile degli infiltrati: Silvano Girotto, alias padre Leone, alias frate Mitra e chissà cos’altro. Proprio quel tipo che a Mara non piaceva, quello che con le sue spacconerie aveva incantato tutti ma non lei. Troppo convinto, troppo autoreferenziale, si dichiarava ex rapinatore, ex legionario, ex guerrigliero, grande esperto di armi e tuttavia Renato voleva metterlo alla prova. Fatto sta che tra i suoi tanti incarichi, Girotto aveva omesso di dire che era anche un collaboratore dell’Arma. I due vengono bloccati sulla loro 128 blu, mentre chiacchierano tranquilli ad un passaggio a livello chiuso, nelle campagne appena fuori dalla cittadina torinese. Senza essersi accorti di nulla, senza nemmeno il tempo di reagire, vengono agguantati dai militari in borghese: un paio di pugni a Franceschini mentre Curcio rimane incredulo e immobile al volante. Mario Moretti sfugge al’arresto, probabilmente perché avvertito da una telefonata di uno sconosciuto. Nonostante lui dichiarerà di aver cercato senza riuscirvi di avvertire Curcio, l’ambiguità sulla figura del futuro capo delle BR non l’abbandonerà mai più, negli anni a venire. 


L’arresto dei due capi storici si somma ad altri arresti importanti in varie parti d’Italia. Ora le BR sono davvero in difficoltà. Il loro futuro è nelle mani di Mara. Da sola ha la responsabilità della colonna torinese e deve riannodare le fila di un’organizzazione allo sbando. Inoltre cosa penseranno i suoi genitori di lei ora che suo marito è in carcere e tutti i giornali li dipingono come pericolosi sovversivi? Mara prende la decisione: ha bisogno di Renato al suo fianco, bisogna assaltare il carcere di Casale Monferrato e liberarlo; la struttura è vulnerabile, poco sorvegliata. Moretti è perplesso, la definisce un’azione emotiva, alla Bonnie & Clyde, troppo rischiosa e troppo personalistica. E se va male le BR sono finite. Tre mesi di discussioni ma alla fine Mara la spunta, l’azione si farà e sarà lei ad organizzarla. E’ il 18 febbraio 1975, una ragazza bionda si avvicina al portone del carcere. Suona, è giorno di visite, ha con sé un involucro: “per favore mi apra. Devo consegnare questo pacco a mio marito”. Nulla di strano, la donna è carina e sorridente. Pochi secondi ed il piantone fa scattare la serratura. Si ritrova con un mitra puntato al petto “stai buono o sei morto” dice la ragazza. Due uomini vestiti con le tute blu della SIP appoggiano una scala sul muro e tagliano i fili del telefono. Margherita e un altro compagno entrano, si fanno aprire un secondo cancello. Ora sono nel corridoio dove si affacciano alcune celle. Fanno mettere tutti al muro, ma Curcio non si vede. “Renato dove sei?” grida. E’ al piano superiore, scende con un balzo. Ora sono fuori, diretti ad Alassio. Tutto si è svolto in pochi minuti. Un’azione perfetta. Senza sparare un colpo. Il blitz ha una grande risonanza sui giornali. Dopo tante sconfitte le Brigate Rosse si rifanno un po’ d’immagine, grazie anche al corollario romantico di una donna che, armi in pugno, libera il suo uomo. Persino il giudice di sorveglianza mentre interroga Franceschini ha parole di ammirazione per la “magnifica donna” che ha guidato il commando. Ora però le Brigate Rosse sono a corto di denaro e decidono di finanziarsi con un rapimento. Si pensa a Vittorio Vallarino Gancia, l’industriale dello spumante. Chiederanno un riscatto di un miliardo di lire. Il sequestro è deciso per il 4 giugno 1975, Gancia viene bloccato sulla sua Alfetta in una strada di campagna con la scusa di lavori in corso. Uno dei finti operai agita una bandierina rossa mentre con l’altra mano gli fa cenno di rallentare. L’industriale ferma l’auto, un uomo esce da un furgone che lo precedeva, rompe il suo finestrino e gli punta una pistola alla tempia. Gancia viene caricato su una Fiat 124 verde oliva, manette ai polsi e coperta in faccia. Viene portato in una vecchia casa colonica da ristrutturare vicino a Canelli, che tre anni prima Mara aveva comprato per 6 milioni di lire, sotto il falso nome di Marta Caruso. E’ la Cascina Spiotta. I vicini descriveranno la proprietaria come una bella ragazza, gentile e sempre disponibile, che quando arrivava si metteva subito a lavorare i campi sorridendo, facendosi aiutare a curare la vigna ed a coltivare qualche verdura. Gancia viene chiuso in una stanzetta, un materasso e una coperta, un catino all’angolo. A custodirlo rimangono Mara ed un altro brigatista, mai identificato. Ma quella mattina qualcosa va storto: la Fiat 124 che sta tornando dopo aver scaricato l’ostaggio tampona una Fiat 500, tra Canelli e Cassinasco. Sono le 13.00. I due a bordo della 124 hanno fretta di andarsene, firmano una dichiarazione di responsabilità su un foglietto e rassicurano il guidatore della 500, Cesarino Tarditi professione idraulico. Questi però non si fida e, appena i due si allontanano, chiama lo stesso i Carabinieri. La Fiat 124 con il cofano ammaccato viene rintracciata, c’è un uomo solo a bordo. E’ un normale controllo ma l’individuo si spaventa e scappa. La fuga però dura poco, l’auto si schianta e appena viene preso Massimo Maraschi, 22enne di Lodi, si dichiara prigioniero politico. 


I due carabinieri, sbigottiti, avvertono immediatamente la centrale. Ci vuole poco a collegare il sequestro Gancia: l’area viene subito raggiunta dagli uomini del Generale Dalla Chiesa. La caccia comincia: le colline vengono suddivise in settori, le località isolate, le cascine, le abitazioni sospette vengono controllate a tappeto. Il giorno dopo, 5 giugno 1975, il Tenente Umberto Rocca comandante della Compagnia CC di Acqui Terme, dopo aver celebrato la Festa dell’Arma, esce di pattuglia con la Fiat 127 di servizio, a bordo anche il Maresciallo Rosario Cattafi e gli Appuntati Giovanni d’Alfonso e Pietro Barberis. Alle 11.30 arrivano alla cascina Spiotta, uno degli obiettivi di sua competenza da controllare. Mara sta riposando, ha fatto il turno di guardia di notte, il suo compagno che avrebbe dovuto darle il cambio, si è appisolato e non vede avvicinarsi i carabinieri. Il Maresciallo bussa alla porta e Mara si affaccia per un istante rimanendo sgomenta. All’interno il trambusto è indescrivibile. L’uomo prende la pistola mitragliatrice M1 e 4 bombe a mano SRCM, Mara borsetta e mitra a tracolla, in mano pistola e valigetta. Lui propone di ammazzare l’ostaggio, la Cagol si rifiuta: “Gancia non si tocca, non c’entra niente e la sua vita non deve essere messa a repentaglio”. Aprono la porta e l’uomo lancia la prima bomba a mano che esplode sui militari: tra le urla il braccio sinistro del tenente si stacca di netto e l’occhio sinistro – che perderà - gli si riempie di sangue. Il Maresciallo è colpito da diverse schegge in tutto il corpo ma da terra reagisce al fuoco. I due brigatisti corrono verso le auto parcheggiate, l’Appuntato d’Alfonso si para loro davanti e spara, ma viene colpito da una raffica alla testa, al torace e all’addome. Morirà poco dopo lasciando una moglie e tre figli. Mara ed il compagno raggiungono la Fiat 128, partono ma finiscono contro la 127 dell’Arma con cui l’Appuntato Barberis sta sbarrando la strada. L’uomo esce dall’auto e grida “siamo feriti, ci arrendiamo”. Barberis cessa il fuoco e intima di alzare le mani. Dopo pochi passi l’individuo, facendosi scudo della donna, estrae un’altra bomba e la lancia verso il carabiniere, il quale, scartando di lato, evita l’impatto e ricomincia a sparare. Mara Cagol viene colpita in torsione, sotto l’ascella, il colpo perfora il torace ed esce orizzontalmente dalla parte del dorso. Muore praticamente sul colpo. 


Il secondo brigatista invece si dilegua nei boschi. Il sedicente fuggitivo scriverà poi un rapporto a Curcio, in seguito ritrovato in un covo e reso pubblico, nel quale dichiarerà che mentre stava scappando si accorgeva che Mara non era con lui, voltandosi la vedeva seduta sull’erba con le mani in alto. Riprendendo la fuga avrebbe immediatamente sentito uno, forse due colpi secchi. Secondo lui Mara era stata giustiziata. Tale versione, per quanto dubbiosa vista la traiettoria dei proiettili e la posizione del cadavere, viene subito rivendicata in un comunicato delle BR. Per il giudice Caselli il brigatista fuggitivo aveva la necessità di fornire all’organizzazione una valida scusa per aver lasciato da sola la ragazza, dopo essersene addirittura fatto scudo. Tuttavia l’opinione pubblica rimane talmente scossa che vivrà per molti anni con il sospetto che quel giorno lo Stato abbia voluto giustiziare freddamente la pasionaria delle Brigate Rosse. Da quel momento la direzione strategica del movimento passa nelle mani dell’ala militarista, capeggiata da Mario Moretti. Sei mesi dopo Curcio viene arrestato a Milano insieme alla sua nuova compagna, Nadia Mantovani. Inizia la lunga fase degli omicidi e del sangue, la strada del non ritorno. 
La figura di Mara Cagol resta ancora oggi ben impressa nell’immaginario collettivo, tanto che perfino lo scrittore Umberto Eco ha affermato che, una volta scoperto che la moglie di Frà Dolcino (Margherita Boninsegna), anch’essa trentina, aveva lo stesso nome di Margherita Cagol ed era morta in condizioni analoghe, l’ha espressamente citata nel suo romanzo “Il nome della rosa”. Per molti anni la stampa nazionale la dipingerà come la donna che per amore è stata disposta a tutto, perfino a sparare, negandole quell’autonomia di pensiero e di iniziativa che ha invece caratterizzato tutte le sue scelte. 
Un mazzo di rose rosse verrà ritrovato davanti alla cascina Spiotta l’indomani della sparatoria e così il 5 giugno di ogni anno, per molti anni. 

Sergio Amendolia

fonte: I VIAGGIATORI IGNORANTI

Bibliografia
Stefania Podda, Nome di battaglia Mara, Sperling & Kupfer; 

Piero Agostini, Mara Cagol. Una donna nelle prime Brigate Rosse, Marsilio - temi; 

Gian Carlo Caselli, Le due guerre, Melampo; 

Giorgio Bocca, Noi terroristi, Garzanti. 

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

venerdì 10 maggio 2019

Rugby Club La Plata, i desaparecidos della palla ovale


Nel bar del Rugby Club La Plata ancora oggi sono appese le fotografie di alcuni dei venti giocatori che facevano parte della squadra negli anni settanta: uomini che sparirono, probabilmente uccisi, per mano del terrorismo di stato. Vicino a quell'immagine una targa, del 2006, che ricorda il trentennale del colpo di stato in Argentina ed il settantaduesimo compleanno della nobile squadra di rugby de La Plata.
Per comprendere cosa accadde ai giocatori della squadra di rugby dobbiamo fare un passo indietro: si ritene che tra il 1976 ed il 1983, in Argentina, sotto il regime della Giunta militare, siano scomparsi almeno 30.000 dissidenti o sospettati tali. Le modalità di sequestro e sparizione delle vittime fu ideata per raggiungere due obiettivi: il primo era quello di evitare quanto si verificò in seguito al Golpe cileno del 1973 (che aveva portato al potere la giunta militare guidata da Pinochet) dove le immagini dei dissidenti all'interno dello stadio di Santiago del Cile avevano fatto il giro del mondo, sollevando l'indignazione di cittadini e capi di stato. Il secondo era quello di terrorizzare la popolazione poiché la mancata diffusione delle notizie riguardanti i dissidenti limitava fortemente ogni altro possibile dissenso al regime.


Le modalità di sparizione dei dissidenti risultano sconcertanti: gli arresti avvenivano mediante rapimento grazie all'operato di squadre non ufficiali di militari. Questi terroristi di stato giungevano a bordo di una Ford Falcon verde scuro senza targa, piombando nelle abitazioni di notte con l'intento di sequestrare intere famiglie. L'assoluto mistero sulla sorte dei rapiti fece si che le stesse famiglie delle vittime tacessero per paura. La conseguenza principale di questa procedura fu che, in Argentina ma soprattutto nel resto del mondo, tale fenomeno rimase ignorato.
Le vittime una volta arrestate venivano rinchiuse in luoghi segreti di detenzione. I sequestrati venivano torturati per mesi. La sorte di molti fu terribile. Secondo testimonianze degli stessi militari coinvolti, molti desaparecidos, questo il nome con il quale sono conosciute le vittime del terrorismo di stato argentino degli anni settanta, furono imbarcati a bordo di aerei militari, sedati e lanciati nel Rio de la Plata, o nell'oceano. La quasi totalità di queste persone fu gettata dagli aerei con il ventre squarciato da una coltellata affinché fossero divorati dagli squali. Questa tipologia di omicidio di stato divenne nota come vuelos de la muerte. Una seconda parte dei rapiti sparì nei centri di detenzione clandestini. Uno di questi, rimasto celebre, ebbe sede nella scuola di addestramento della Marina Militare ESMA di Buenos Aires.


Il massimo responsabile di questi raccapriccianti avvenimenti fu Jorge Rafael Videla, generale e dittatore dell'Argentina tra il 1976 ed il 1981. Videla arrivò al potere con un colpo di stato ai danni di Isabelita Peron. Il suo governo fu contrassegnato dalle costanti violazioni dei diritti umani e dai contrasti frontalieri con il Cile, che per poco non sfociarono in una sanguinosa guerra tra i due paesi sudamericani. Fu condannato a due ergastoli e 50 anni di carcere per crimini contro l'umanità. Scontò la pena in un carcere di Buenos Aires durante gli ultimi anni della sua vita, che si concluse il 17 maggio del 2013. Il suo regime dittatoriale, militarista ed anticomunista, è stato paragonato al fascismo dai suoi oppositori.
Torniamo al bar del Rugby Club La Plata. La targa inaugurata nel 2006, come anticipato, non ricorda una vittoria, ricorda i giocatori della squadra di rugby ammazzati, o spariti, durante gli anni della dittatura militare. Furono diciassette i giocatori ad essere eliminati, uno dopo l'altro, dalle squadre della morte di Videla. Sparirono tutti: i piloni, le tre quarti ala, i tallonatori e le terze linee. Sparì il capitano Mariano Montequin. Sparì la coppia di mediani. Solo uno riapparve: Otilio Pascua, il numero 10. Il mediano di apertura, praticamente il regista della squadra, non riapparve vivo: il suo corpo fu ripescato in un affluente del Rio Lujan dopo, circa, un mese di permanenza in acqua. Pascua fu rinvenuto con un peso attaccato ai piedi e le braccia legate dietro la schiena.


Perché il regime decise di eliminare i giocatori di una squadra di rugby? 
Tutto iniziò nell'aprile del 1975. 
Hernan Roca, mediano della terza squadra, sparì nel nulla. Hernan non era un dissidente politico, era un semplice ragazzo dedito al rugby. Le squadre della morte lo prelevarono da casa scambiandolo per il fratello Marcelo, appartenente ai Montoneros, un gruppo radicale della sinistra peronista. Quando i rapitori si accorsero d'aver prelevato il ragazzo sbagliato lo ammazzarono e si liberarono del corpo. 
Una domanda sarà corsa nella mente dei più attenti: ma se la dittatura iniziò nel 1976, perché Hernan Roca fu rapito ed ucciso nel 1975? 
Già prima del Golpe militare erano attive le squadre della morte della Tripla A, ovvero Alianza anticomunista argentina. 
Dopo il rinvenimento del cadavere del povero Hernan cambiò radicalmente l'atteggiamento dei ragazzi del Rugby Club La Plata. Alcuni scelsero di emigrare all'estero, la maggior parte decise di rimanere e di continuare a giocare a rugby. Decisero anche di iniziare a fare politica. I ragazzi coniugarono la passione sportiva con la militanza politica ed all'interno dello spogliatoio si formò una cellula del PCML, il partito marxista-leninista argentino. I ragazzi del Rugby Club La Plata continuarono a giocare. E vincere. Purtroppo iniziarono anche le sparizioni. Gli assassini di stato. Ogni giocatore prelevato dalle squadre della morte veniva sostituito da un ragazzo delle squadre giovanili. Un solo giocatore della squadra iniziale rimase in vita, Raul Bandarian. Fu grazie a lui che la storia dei 17 desaparecidos della squadra di rugby de La Plata venne conosciuta da tutto il mondo. 
Ritengo sia interessante concludere con le parole di Raul Bandarian: «Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l' unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall'università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi, e fare politica fu una scelta naturale. I vertici della società si rendevano conto di quel che accadeva in spogliatoio: ma non ci hanno mai chiesto niente, né ci hanno mai discriminato».

Fabio Casalini

Bibliografia
Miguel Bonasso, Ricordo della morte, il Saggiatore, 2012 

Enrico Calamai, Niente asilo politico. Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, Feltrinelli, 2006 

la Repubblica, Quei ragazzi del rugby. La squadra desaparecida, 2 aprile 2006

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare

domenica 5 maggio 2019

a Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè

Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.
Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio Il professor Federico Caffè“Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.
Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.
L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si Bill Clintonvantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.
Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.
Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi Carlo Rossellil’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?
La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.
Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia,Thomas SankaraUcraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.
Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.
Tutto questo, purtroppo, è anche molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio  spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un Olof Palmecrimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.
(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).

fonte: LIBRE IDEE

mercoledì 1 maggio 2019

il paradosso della nave di Teseo


Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria. 

La nave dunque è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo, la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l’entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto?

Il paradosso della nave di Teseo esprime la questione metafisica dell’effettiva persistenza dell’identità originaria, per un’entità le cui parti cambiano nel tempo; in altre parole, se un tutto unico rimane davvero se stesso (oppure no) dopo che, col passare del tempo, tutti i suoi pezzi componenti sono cambiati (con altri uguali o simili). (Fonte: paradossabile.wordpress.com) ...


I metafisici e, a volte, i filosofi del linguaggio e della mente, si pongono queste domande:

“Se le parti di un oggetto sono rimpiazzate una dopo l’altra, in modo che l’oggetto finale sia composto da tutte nuove parti, come nella Nave di Teseo, in che modo i due oggetti sono lo stesso oggetto?”

Vediamo quindi cos’è Il Paradosso della nave di Teseo.

“Questo paradosso esprime la questione metafisica dell’effettiva persistenza dell’identità originaria, per un’entità le cui parti cambiano nel tempo; in altre parole, se un tutto unico rimane davvero se stesso (oppure no) dopo che, col passare del tempo, tutti i suoi pezzi componenti sono cambiati (con altri uguali o simili).
Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria.
Ragionando su tale situazione (la nave è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l’entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto?
Tale questione si può facilmente applicare a innumerevoli altri casi; per esempio alla scrupolosa conservazione di alcuni antichi templi giapponesi (anch’essi principalmente in legno, come la nave di Teseo), per i quali ci si può domandare se siano ancora templi originali.

Si può anche rivolgere il paradosso riguardo l’identità della nostra stessa persona, che nel corso degli anni cambia ampiamente, sia nella sostanza che la compone sia nella sua forma, ma nonostante ciò sembra rimanere quella stessa persona.

Gente con le idee chiare riguardo alla risposta da dare al paradosso di Teseo sono sicuramente gli shintoisti giapponesi. Infatti il loro tempio più importante, il tempio di Ise, costruito in legno, ogni venti anni viene abbattuto e ricostruito completamente con lo stesso disegno architettonico su un terreno a fianco del precedente. Tale cerimonia è detta shikinen sengu, al fine di ricordare che tutto muore e risorge, ed il tempio da essi è considerato originale ma rinato.

RIFLESSIONI.

Applichiamo ora il PARADOSSO, nell’era dei trapianti, a degli esseri umani. Supponiamo di prendere due uomini (li chiameremo Tizio e Caio) e di estrarre da ognuno via via tutti gli organi e di trapiantarli nell’altro e viceversa (o se vogliamo facciamo il processo prendendo una cellula alla volta e trapiantando questa nell’altro, e viceversa).

Alla fine del processo di trapianto, tutti gli organi o le cellule dell’uno (Tizio) sono passate nell’altro (Caio) e viceversa (cervello e sinapsi comprese, che sovraintendono carattere e memorie).

Ora, ammesso che Tizio e Caio abbiano un’anima e/o uno spirito personali, alla fine del processo dove si troveranno? L’anima di Tizio nel corpo di Caio (e viceversa)?

Ma le riflessioni non finiscono qui

Pensiamo di interrompere il processo a metà (ad esempio trapiantiamo solo la parte destra di un individuo nell’altro e viceversa). Dove si troveranno l’anima (e/o spirito) di Tizio e di Caio?

Ovvero l’anima (e/o lo spirito) individuale esistono veramente? …E se si, cosa succederebbe in un caso simile?

Ovviamente si può estrapolare il problema prendendo 10 persone e suddividendoli in 10 parti (cervello compreso) riassembrandole ognuna con il 10% delle prime dieci persone di partenza.

Nella visione RIDUZIONISTICA (mancanza di anima e di spirito) il problema non si pone; ma anche nella visione della RETE DEGLI INCONSCI il problema è secondario. Quello che conta è che il cervello che genera la MENTE faccia si che questa possa continuare a comunicare con altri menti e continuare a far parte dell’INTERNET DEGLI INCONSCI BIOLOGICI (conservando parte delle due personalità).

In conclusione la visione metafisica o spirituale dell’individuo è MESSA A DURA PROVA, rispetto a quella della RETE DEGLI INCONSCI.

Meditate, gente, meditate.