In un precedente post ( Sulla natura subdola e mostruosa del potere) avevo descritto il potere in termini molto concreti come una dinamica subdola che si insinua nella psiche delle persone, nelle strutture sociali, politiche ed economiche e come un meccanismo ben collaudato che rivela tutta la sua mostruosità disumana quando si infiltra negli apparati dello Stato e negli organismi sovranazionali sino a snaturarne le funzioni. Dunque il potere non come un concetto astratto ma come un sistema di pressione e di disumanizzazione che agisce indisturbato da secoli. Ora proverò a descrivere il modello antropologico di riferimento del potere, che è fondato su tre postulati essenziali.
Il primo di questi postulati è l’individualismo. L’uomo oggi non è più concepito come essere in relazione con gli altri ma come monade isolata senza legami stabili e duraturi, sradicato dalla comunità e ripiegato su se stesso, sui suoi bisogni e desideri, che il sistema si guarda bene dal soddisfare. Aristotele aveva affermato che l’essenza dell’essere umano è la relazione, il neoliberismo invece, che è una delle maschere mostruose che il potere indossa, ha ridotto l’uomo a una macchina che non risponde più agli stimoli esterni ma solo a quelli interni. Siamo in presenza di un autismo indotto, diffuso come pandemia a livello di massa. In questo quadro gioca un ruolo di primo piano la pervasività delle nuove tecnologie, che spingono l'uomo a ritirarsi dall'agorà per chiudersi nel suo solipsismo.
Il secondo postulato è il riduzionismo. Esso è stato introdotto dal positivismo e oggi come mai prima d’ora esercita il suo fascino dissacratore sulle menti di scienziati e intellettuali. Il riduzionismo ha eliminato dall’orizzonte antropologico la dimensione dell’anima e dello spirito. L’uomo è stato così ridotto a essere semplice, monodimensionale, fatto di sola materia. Materia da macello, sacrificabile in nome di interessi indicibili. E’ l’apoteosi del materialismo che ha ucciso gli slanci vitali dell’essere umano.
L’ultimo postulato è quello dell’efficientismo. Esso ha contribuito a costruire un’immagine dell’essere umano come esecutore meccanico, efficiente appunto, di mansioni, compiti, ordini. La persona così non vale per quel che è ma per quel che fa e produce. Questo meccanismo è particolarmente evidente nel mondo del lavoro, dove domina il concetto di produttività: se non si è produttivi si vale zero. Ciò ha delle ricadute molto pesanti sull’equilibrio psichico della persona, la quale, a furia di sentirsi dire che non è abbastanza produttiva, è portata a svalutarsi e a sottostimarsi.
Davanti al dominio incontrastato di questo modello antropologico disumanizzante, quali le soluzioni? La prima soluzione da adottare, a parere di chi scrive, è disfarsi il prima possibile di tale modello infernale sostituendolo con un modello umano nel vero senso della parola, un modello che ponga al centro la persona, intesa come essere in relazione con il mondo. L’essere umano non è un grumo di cellule e nemmeno un elaboratore neutro di dati, ma un essere complesso che ha una memoria rivolta al passato, che vive nel presente e che ha delle attese verso il futuro. Le tre dimensioni temporali sono essenziali per alimentare l’anima. Se alla persona si toglie la memoria, che è anche riflessione critica sugli errori del passato, e l’aspettativa di un futuro migliore riducendo la sua esistenza al solo presente fatto di frustrazioni, incertezza e instabilità, si uccide la sua anima. E questo è lo scopo che il potere si prefigge da millenni e che in parte è riuscito ad attuare. Per questo motivo è urgente cambiare modello antropologico di riferimento. Purtroppo, finché a dominare la scena saranno i vari Piero Angela e Roberto Saviano, a dominare sarà sempre una antropologia deviata, servile, inconsistente, criminale. E gli intellettuali perfettamente integrati al sistema continueranno a promuoverla ottenendo in cambio favori, privilegi e visibilità mediatica. Perciò i veri intellettuali, per usare un’espressione tratta da un famoso saggio di Umberto Eco, hanno il compito di essere apocalittici, nel senso di esercitare il ruolo che gli spetta, che è quello di denunciare senza pietà le storture e le manipolazioni del potere. Apocalittici non significa, come una certa tradizione religiosa ha trasmesso nel corso dei secoli, essere dei misantropi asociali e degli esaltati ma assumere uno sguardo critico sul passato e sul presente per cambiare il futuro. Rimuovere il velo ottenebrante delle menzogne propagandate dal potere, questo è il vero compito dell’intellettuale e di tutti gli uomini di buona volontà.
fonte: http://federicafrancesconi.blogspot.it/
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