venerdì 3 aprile 2015

"nel mio lavoro rischio sempre la vita"

Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più io divento artista, creatore... con quanta minor fatica si sarebbe potuto vivere la vita, invece di fare dell'arte.

l'unico quadro venduto di Van Gogh. La vigna rossa.


in tutta la sua vita, rispetto ai 900 quadri prodotti, ha venduto solo questo, Vincent Van Gogh.
difficile capire quali sono i meccanismi per cui un pittore oggi valutato cifre interstellari, in vita abbia vissuto nella miseria, sostenuto dal solo fratello Theo, il fratello che tutti vorrebbero avere, e abbia venduto un solo quadro.
Freud sosteneva che la povertà è un sintomo, la povertà di Van Gogh è uno dei sintomi della sua follia, della sua psicosi, del suo disancoraggio dalla realtà. Van Gogh porta il nome del fratello morto (nasce esattamente un anno dopo la sua morte), quel fratello la cui perdita aveva segnato tanto la madre e tanto da segnare per sempre lui con l'indegno nome di un morto, un fratello che, se pur deceduto, valeva più di lui. ed ecco, alla nascita, segnarsi sulla sua vita il tatuaggio indelebile del destino, l'indegnità del figlio-sostituto. Vincent non ha valore in sè, ma per il nome, di un altro morto, che porta. la pittura, come l'ossessione per la bibbia e la teologia prima di essa, sembra rappresentare l'unica possibilità di entrare in un mondo simbolico, l'unica via di accesso a una forma di esistenza, altrimenti bucata, negata, fin dalla nascita. possiamo dire che Van Gogh sia nato morto.
Cosa altro si può fare, pensando a tutte le cose la cui ragione non si comprende, se non perdere lo sguardo sui campi di grano. La loro storia è la nostra, perché noi, che viviamo di pane, non siamo forse grano in larga parte? Se non altro, dobbiamo o no sottostare a crescere, senza poterci muovere, come una pianta, ignorando ciò che la nostra immaginazione a volte desidera, ed essere falciati quando maturi? Per quanto mi riguarda, penso che sarebbe più saggio non augurarsi di star meglio, di riacquistare le forze e probabilmente mi ci abituerò a essere spezzato. Un po’ prima, un po’ dopo, che differenza vuoi che faccia per me?
si guardano, girando per la mostra, i suoi primi disegni, nel periodo scuro olandese, e si sente mormorare che di talento pittorico, Van Gogh, non ne aveva. era cocciuto, sento dire, e insisteva ossessivamente a copiare i disegni dei grandi maestri, anche giapponesi, per imparare. forse era solo disperato, alla ricerca di un'insegna che gli facesse da guida, di un significante che sostituisse quelli mancanti.

ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole...So benissimo che la tela ha dei difetti ma, rendendomi conto che le teste che dipingo adesso sono sempre più vigorose, oso affermare che I mangiatori di patate, insieme con le tele che dipingerò in avvenire, resteranno.

come sono questi disegni e quadri? non so, belli no, scuri, spoporzionati, goffi. ma la devozione alla pittura è quel che lo tiene insieme, finchè potrà, è l'adesione necessaria per costruire un'identità di cui è privo, di cui è stato privato fin dalla nascita.
secondo l'analisi di Recalcati, in Melanconia e creazione in Vincent van Gogh,  la passione artistica di Van Gogh funziona da polarità sostitutiva e da punto limite, ossessionato dall'"alta nota gialla", ossia dall'incandescenza della luce del Sud catturata sulla tela. "la sua pittura non è la semplice espressione di stati emotivi, ma lo sforzo estremo di attingere, attraverso la luce e il colore, direttamente all’assoluto, alla Cosa stessa. la dedizione all’arte, che lo aveva in un primo tempo salvato dalla sua melanconia originaria, si rivela ciò che lo fa precipitare negli abissi della follia. il suo movimento pittorico e biografico dal Nord al Sud lo avvicina troppo al calore incandescente della Luce e in questa prossimità, come nel mito di Icaro, egli finisce per consumarsi."
affascinante interpretazione, questa di Recalcati, mi dice tanto, mi dice tutto.
infatti guardo il quadro finale della mostra di Milano, Van Gogh e la terra, Palazzo Reale, e leggo qualcosa che cita la bellezza e l'armonia.

ecco io non le vedo, io vedo schizzi, pennellate furibonde, un movimento della materia che ricorda davvero l'incandescenza, un sole che si confonde con la luna, l'accecamento dell'oro del grano, nulla di sereno, nulla di sano, piuttosto una sofferenza stringente, un circuito impazzito nella testa.
nel mio lavoro rischio sempre la vita, dice la lettera che tiene con sé dopo essersi tolto la vita. dipingere voleva dire infatti, per lui, avventurarsi al confine tra forma e informe, sperimentare la potenza pericolosa di uno stato-limite. e varcare, prima o poi, l'argine di sicurezza.
quanto ai pochi giorni in cui l’ho dipinto – è stata una battaglia spaventosa, ma una che ho affrontato con grande entusiasmo. Anche se a momenti ho temuto di non farcela.

fonte: nuovateoria.blogspot.it

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