giovedì 31 gennaio 2019

Galvarino, il guerriero Mapuche che legò due lame agli arti amputati per combattere


La storia di Galvarino inizia a metà del Cinquecento, in quel periodo della colonizzazione del Nuovo Mondo su cui sono state scritte migliaia di pagine. I conquistadores dopo aver incrociato la propria strada con gli imperi aztechi ed inca, decisero di rivolgere l'attenzione alla sottomissione delle tribù di nativi conosciute come Mapuche, termine composto dalle parole Che e Mapu ovvero popolo della Terra. 


I Mapuche sono un popolo amerindo originario del Cile centro-meridionale e del Sud dell'Argentina. In spagnolo sono spesso indicati come araucanos (Araucani). I Mapuche resistettero con successo a molti tentativi dell'impero Inca di asso, e questo sebbene mancassero di un'organizzazione statale. I Mapuche combatterono contro i conquistadores per difendere le proprie terre dall'invasore spagnolo, utilizzando il fiume Bio-Bio come frontiera naturale. I guerrieri nativi utilizzarono tattiche di guerriglia ed un acume accattivante per sconfiggere la potenza di fuoco dei conquistadores. Alla fine di una di queste battaglie, combattuta nella zona di Lagunillas, inizia la storia di Galvarino. Il guerriero Mapuche, insieme ad altri 150 combattenti, fu catturato dalle truppe all'ordine del governatore Garcia Hurtado de Mendoza. 


Il governatore, come punizione per l'insurrezione voluta dalle tribù Mapuche, decise di condannare i prigionieri all'amputazione di parte del corpo: ad alcuni di essi furono tagliate la mano destra ed il naso ad altri, tra cui Galvarino, furono amputate entrambe le mani. Eseguita la sentenza, Galvarino e gli altri furono rilasciati. La liberazione aveva uno scopo preciso: doveva fungere da avvertimento nei confronti delle tribù Mapuche. Quando Galvarino fece ritorno all'accampamento Mapuche apparve di fronte al consiglio di guerra. Il combattente nativo mostrò le orribili mutilazioni gridando giustizia contro l'invasore spagnolo. Per il coraggio dimostrato e la ferma determinazione nel voler difendere la propria terra, Galvarino fu nominato comandante di uno squadrone di guerrieri. Non potendo utilizzare armi, decise di legare delle lame ai moncherini degli arti superiori. Galvarino guidò i combattenti della propria tribù nella battaglia di Millarapue.


Gli eventi furono narrati da un cronista spagnolo, Jeronimo de Vivar, nel suo Cronica: «Giunse comandando come un sergente ed animando i suoi uomini in questo modo: "Ea, miei fratelli, vedo che state combattendo molto bene, non vorrete essere senza mani come me, e non essere in grado di lavorare né di mangiare, se non vincete!". E sollevò le proprie braccia, mostrandole per convincerli a combattere con maggiore spirito e dicendo loro: "Quelli che state per combattere le tagliarono, e lo faranno con chiunque cattureranno, e nessuno potrà fuggire ma dovrà morire, perché morite difendendo la vostra madre patria". Si spostò davanti allo squadrone, e disse con voce potente che sarebbe morto per primo e che, anche senza le mani, avrebbe fatto il necessario con i denti».
Una seconda testimonianza fu riportata da Pedro Marino de Lobera, nel suo Cronica del Reino de Chile: «Miei fratelli, perché avete smesso di attaccare questi cristiani, vedendo i danni causati dal momento in cui sono entrati nel nostro regno? E ancora faranno a voi quello che vedete hanno fatto e faranno? E ancora faranno quello che vedete hanno fatto a me, amputandomi le mani, se non sarete precisi nel portare la maggior distruzione possibile su queste persone per conto nostro, per i nostri bambini e le nostre donne».


La battaglia, durata poco più di un'ora, sorrise agli spagnoli, comandati da Mendoza, che uccisero oltre 3000 Mapuche e fecero circa 8000 prigionieri, compreso lo stesso Galvarino. Garcia Hurtado de Mendoza ordinò di giustiziarlo gettandolo tra i cani. Alfonso de Ercilla, poeta spagnolo al seguito delle truppe per raccontare la conquista del Cile, profondamente toccato dalle vicissitudini del guerriero Mapuche, cercò di intercedere per lui allo scopo di salvargli la vita. Galvarino rifiutò l'offerta con le seguenti parole: “Preferisco morire piuttosto che aver salva la vita da voi; merito la morte per non essere stato in grado di farvi a pezzi con i miei denti”.


Secondo lo stesso Alfonso de Ercilla, Galvarino non fu gettato in pasto ai cani ma trovò la morte tramite impiccagione. Secondo alcuni storici cileni, forse spinti dal creare ulteriore leggenda intorno alla figura di Galvarino, il guerriero Mapuche si levò la vita prima che gli stessi spagnoli potessero ucciderlo, privandoli della gioia dell'esecuzione.

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia


Jerónimo de Vivar, Crónica y relación copiosa y verdadera de los reinos de Chile, Artehistoria Revista Digital, Crónicas de América, Capítulo CXXXII, CXXXIII

Pedro Mariño de Lobera, Crónica del Reino de Chile , escrita por el capitán Pedro Mariño de Lobera....reducido a nuevo método y estilo por el Padre Bartolomé de Escobar, edizione digitale a partire da "Crónicas del Reino de Chile", Madrid, Atlas, 1960, pp. 227-562, Libro 2, Capitolo II, III, IV

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

giovedì 10 gennaio 2019

Comfort women, le schiave sessuali dell'esercito giapponese


Le Comfort women, le donne di conforto, erano ragazze costrette a far parte di corpi di prostitute creati dall'Impero del Giappone. Con impero giapponese ci si riferisce al periodo della storia del Giappone che ebbe inizio con la Restaurazione Meiji e terminò con la fine della seconda guerra mondiale. Politicamente si riferisce al periodo che iniziò con l'istruzione delle prefetture in sostituzione dei domini feudali, 14 luglio del 1871, e terminò con la resa formale del Giappone, 2 settembre del 1945. Molti documenti relativi alla Corea del Sud affermano che le Comfort women non fossero volontarie, documenti comprovati dalle testimonianze di molte donne che a partire dal 1989 si sono esposte pubblicamente incolpando i soldati giapponesi di averle rapite. La stima del numero di donne coinvolte varia da un minimo di 20.000, citato da storici giapponesi, ad un massimo di 410.000, stando alle dichiarazioni di accademici cinesi. Se le cifre sono ancora oggetto di dibattimento, non lo è la provenienza delle ragazze: le Comfort women provenivano dalla Corea, dalla Cina, dal Giappone e dalle Filippine. Inoltre è documentata che i centri di sfruttamento delle Comfort women impiegassero anche donne provenienti dalla Thailandia, dal Vietnam, dalla Malaysia, da Taiwan e dall'Indonesia.


Secondo le testimonianze dirette, le ragazze dei paesi controllati dall'Impero giapponese venivano prelevate dalle loro case e, dopo essere state ingannate con promesse di lavoro nelle fabbriche, indirizzate alla prostituzione a favore dell'esercito giapponese. L'idea alla base dei centri di prostituzione era quella di prevenire gli stupri di guerra, che avrebbero incrementato l'ostilità dei locali verso i soldati giapponesi. L'esercito giapponese istituì i centri di Comfort women anche per prevenire la diffusione delle malattie veneree ed intercettare lo spionaggio nemico. Uno storico giapponese, Yoshiaki Yoshimi, sostiene che “l'esercito imperiale giapponese aveva il timore che lo scontento covato dai soldati potesse esplodere in sommosse o rivolte. Cosi provvedettero con le comfort women”.  Il primo centro di comfort women fu istituito nella concessione giapponese a Shanghai, nel 1932. Le prime ragazze furono prostitute giapponesi, che si offrirono volontariamente per questo servizio. Nelle prime fasi della guerra, le autorità giapponesi decisero di reclutare ulteriori comfort women con metodi convenzionali. Nelle aree urbane fu utilizzata la pubblicità, anche sfruttando annunci sui giornali che circolavano in Giappone. Con il proseguimento della campagna d'espansione dell'Impero giapponese, i soldati si trovarono senza prostitute al seguito, motivo che portò l'esercito a decidere di sfruttare le donne che vivevano nelle zone conquistate. Per sfruttare queste ragazze, l'esercito giapponese usò l'inganno: molte di loro accettarono le richieste di lavoro fatte dai giapponesi svolgere il compito di operaie o infermiere, non potendo immaginare che sarebbero state costrette a divenire schiave sessuali.


La situazione peggiorò ulteriormente con il proseguimento della guerra: i militari iniziarono a saccheggiare le risorse delle popolazioni locali che avevano conquistato. Le autorità militari presenti sui territori invasi, esigevano che i governanti locali procurassero loro le donne per i bordelli. Quando le popolazioni locali divennero ostili nei confronti degli invasori (fatti che si perpetrarono soprattutto in Cina) i militari dell'Impero giapponese eseguirono la Sanko sakusen, ovvero la Politica dei Tre Tutto: uccidi tutti, saccheggia tutto e distruggi tutto. Tale, violenta, politica dell'esercito comportava il sequestro e lo stupro indiscriminato dei civili. Durante il periodo di esistenza dei centri delle Comfort women, i tre quarti delle donne prelevate con la forza e schiavizzate morì. La maggior parte delle ragazze sopravvissute perse la fertilità a causa dei traumi o delle malattie trasmesse. Tra le varie testimonianze ritrovate, quella di un soldato giapponese, Yasuji, permette di comprendere l'atteggiamento ed il regime di terrore a cui era sottoposte le comfort women: “le donne piangevano ma non c'importava se vivevano o morivano. Noi eravamo soldati dell'Imperatore. Sia nei bordelli militari che nei villaggi, violentavamo senza riluttanza. La violenza e le torture erano comuni”.


Una seconda, agghiacciante, testimonianza è quella di Jan Ruff-O'Herne, una ragazza olandese che, insieme ad altre nove donne, fu rapita dai campi di Giava e costretta a divenire una schiva sessuale dell'esercito giapponese. La Ruff-O'Herne testimoniò di fronte alla Camera dei rappresentati degli Stati Uniti nel 1990 dichiarando: «Molte storie sono state raccontate su orrori, brutalità, sofferenze e inedia delle donne olandesi nei campi di prigionia giapponese. Ma una storia non fu mai raccontata, la storia più vergognosa della peggiore violazione dei diritti umani commessa dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: la storia delle comfort women, le jugun ianfu, e di come queste donne furono prese con la forza e contro la loro volontà, per provvedere alle necessità sessuali dell'Esercito Imperiale del Giappone. Nei cosiddetti "centri del comfort", sono stata sistematicamente picchiata e violentata giorno e notte. Anche i dottori giapponesi mi stupravano ogni volta che visitavano i bordelli per visitarci a causa delle malattie veneree». Le dieci ragazze olandesi, nei momenti successivi al rapimento, furono condotte in un bordello e fotografate. Le istantanee furono esposte nella sala d'attesa del centro di comfort affinché i soldati potessero scegliere la ragazza da stuprare. Per i quattro mesi successivi, le ragazze furono violentate e torturate; quelle che rimanevano incinte furono costrette ad abortire. Le ragazze sopravvissute furono trasferite in un secondo centro di Comfort prima di essere tradotte in un campo di prigionia nell'ovest di Giava, dove ritrovarono le famiglie. I campi di prigionia furono liberati nel 1945.


Ma la situazione peggiore, forse, si creò in Corea. Durante la seconda guerra mondiale, il regime imperiale giapponese creò un sistema di prostituzione altamente organizzato. Agenti coreani, uomini della polizia militare e militari ausiliari coreani furono coinvolti nel rapimento e nello stupro di migliaia di donne. Dopo la sconfitta, i militari giapponesi distrussero molti documenti per paura di essere perseguiti per crimini di guerra. 
Nel 1965, il governo giapponese pagò 364 milioni di dollari al governo coreano come indennizzo per tutti i crimini di guerra, incluse le ferite procurate alle comfort women. 
Nel 1994, il governo del Giappone creò un Fondo Donne Asiatiche per distribuire compensazioni supplementari a Corea del Sud, Filippine, Paesi Bassi ed Indonesia. Ad ogni sopravvissuta fu consegnata una scusa ufficiale dell'allora Primo Ministro del Giappone. 
Il fondo fu chiuso il 31 marzo del 2007. 
Alcuni storici giapponesi, tra cui Ikuhiko Hata, sostengono che il numero massimo di comfort women utilizzato dal Giappone durante il Secondo conflitto mondiale fosse di 20.000. Lo stesso Hata aggiunse che nessuna comfort women fu reclutata con la forza. 
Alcuni politici nazionalisti giapponesi sostengono che le testimonianze delle ex-comfort women sono inconsistenti ed inverosimili. 
Se tutto questo non fosse accaduto, perché il governo giapponese avrebbe pagato una somma enorme del 1965 come risarcimento per le comfort women? 
Inoltre, perché nel 1994 il Primo Ministro giapponese avrebbe voluto recapitare ad ogni ex-comfort women una lettera di scuse nella quale scriveva: «Come Primo Ministro del Giappone, io dunque rinnovo le mie più sincere scuse e il [mio più sincero] rimorso a tutte le donne che furono sottoposte ad immensurabili e dolorose esperienze e [che] soffrirono ferite fisiche e psicologiche incurabili nel ruolo di comfort women»?

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

George Hicks, The Comfort Women. Japans Brutal Regime of Enforced Prostitution in the Second World War, New York, W.W. Norton & Company, 1997 

Maria Rose Henson, Comfort Woman: A Filipina's Story of Prostitution and Slavery Under the Japanese Military, Rowman & Littlefield Publishers, 1999 

C. Sarah Soh, The Comfort Women: Sexual Violence and Postcolonial Memory in Korea and Japan, 2009


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

giovedì 27 dicembre 2018

nessuno può sperare di fermare il cambiamento climatico

Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.
Le cospirazioni esistono e so che anche i paranoici hanno nemici. Di conseguenza non posso escludere che anche in questo frangente ci sia un secondo fine con lo scopo di inchiappettare l’umanità per l’ennesima volta. Il mio stesso subconscio cospira Climate changecostantemente contro di me, mi sabota, e io inciampo e non ho certezza alcuna. Questa è l’epoca in cui viviamo, la realtà si è frammentata in miriadi di cocci impalpabili, ma ancora ci sono cercatori di Verità che spesso hanno seguaci pugnaci. Terrapiattisti ed altri poveracci impauriti sono sintomo di un reale vanificarsi di ogni punto di riferimento per interpretare l’esistente. Si è costretti a dubitare di tutto. Insomma, non mi sorprenderei se scoprissi di essere di fronte ad un ulteriore frode planetaria. E questo sarebbe un atteggiamento tutto sommato salutare, se non si rischiasse di essere vittime di quegli stessi interessi che controllano i media di regime, ma che non possiamo essere sicuri che non siano anche dietro molte fonti alternative. In questo caso, però, la versione ufficiale, apparentemente sostenuta da una percentuale altissima di specialisti del settore, è parecchio sensata: l’attività dell’uomo sta sconvolgendo in tempi rapidissimi tutta la biosfera e di conseguenza anche il clima. Ciò sta avendo ed avrà sempre più conseguenze catastrofiche. Tutto qui, ed è incredibilmente ragionevole.
Eppure lo scetticismo, giustificatissimo, nei confronti della narrazione del potere dominante ha fatto sì che questo fatto lapalissiano e preoccupante fosse annacquato da mille dubbi inconsistenti. L’aumento di CO₂ determina un aumento di temperatura? Non lo so, non sono uno scienziato. Ma so che la CO₂ fa crescere le piante. Non c’è nessun aumento della temperatura, quelli dell’Iccp si sono inventati tutto. L’aumento della temperatura c’è, ma è dovuto alle macchie solari e l’attività umana non c’entra niente… non sono uno scienziato, ma ne sono convinto. Basta un Trump infinocchiante qualsiasi, eroe proletario che si batte contro le menzogne dei potenti, per finire a fare il gioco proprio di quei poteri che la controcultura dovrebbe smascherare. Continuiamo così, il ciclo produzione-consumo è salvo e siamo tutti più sollevati. Ci siamo ben resi conto che smantellare il sistema è abbondantemente al di sopra delle nostre possibilità. In realtà, dare la colpa ad impalpabili Desertificazione dei suolipoteri occulti, sedicenti illuminati e cupole segrete, fa molto comodo. È pieno di zombie di nome Giovanni e Giuseppe che non rinuncerebbero mai alla loro auto per raggiungere il tabacchino all’angolo. Ma anche questo è irrilevante.
Ammettiamolo, per quante prove si trovino in favore di una tesi, su Internet se ne possono trovare altrettante in favore della tesi opposta. Comprensibile in politica, se parliamo di scienza un po’ meno. Eppure ci sono indizi che, pur non essendo forse scientificamente validi, in quanto basati su percezioni limitate e soggettive, mi inducono ad essere scettico piuttosto nei confronti di chi nega il cambiamento climatico di origine antropica. Per esempio, i miei genitori mi dicevano che decenni fa il clima era più stabile, nel senso che si sapeva che a fine agosto, dopo la festa del santo patrono arrivavano i temporali che segnavano la fine dell’afa. E accadeva ogni anno immancabilmente. Nelle rare eccezioni, bastava mettere una sarda salata in bocca a sant’Oronzo e quello per la sete faceva piovere. Semplice. Ora i nuvoloni arrivano, ma non è detto che piova. Del resto, la vita di quelle popolazioni contadine dipendeva da quelle piogge, noi ne possiamo fare tranquillamente a meno. Forse è per questo che cominciano a disertarci.
Magari la pioggia si presenta con un bel po’ di ritardo e ne cade un ettolitro per centimetro quadrato. Si dice addirittura che uno scienziato pazzo in vena di conquistare il mondo stia usando una macchina di sua invenzione per controllare il tempo a dispetto di Occam e del suo rasoio. La neve era un’altra visitatrice abituale. Pare che ogni inverno ne cadesse tanta e gli anni senza erano piuttosto sporadici, ma già quando io ero piccolo era il contrario. L’inverno con la neve era un’eccezione. Me lo ricordo bene perché appena vedevamo qualche fiocco decidevamo che non si poteva andare a scuola, ma era perfettamente praticabile la strada per andare a scivolare dalle colline con le buste di plastica sotto il sedere. Inoltre, in tutti i miei viaggi ho notato effetti sull’ambiente, evidentemente frutto di manomissioni umane. In Tanzania, la mia prima volta fuori dall’Europa, scalai la vetta del Kilimangiaro insieme ad altre centinaia di turisti e vidi che il ghiacciaio rimane ormai solo sulla porzione più Orso polare denutritoalta della cresta del vulcano. Pare che in cento anni sia regredito dell’85%. Uno scioglimento un po’ troppo veloce per essere dovuto ai normali cicli cosmici.
Il fenomeno non è direttamente attribuibile all’aumento della temperatura globale o locale, ma piuttosto alla deforestazione alla base della montagna che ha causato una diminuzione della traspirazione e quindi del vapore acqueo che poi si trasformava in precipitazioni nevose. Quella volta capii che scalare montagne, soprattutto se in compagnia di una mandria di occidentali in cerca d’avventura Alpitur, non faceva per me, quindi non ho informazioni di prima mano su altri ghiacciai in altre zone del pianeta, ma pare che lo stesso stia accadendo un po’ ovunque. Qualche anno dopo mi trovavo ancora in Africa ma dall’altro lato e i locali mi raccontarono che il mare in pochi anni aveva mangiato una quindicina di metri di spiaggia. Non posso essere certo della causa, ma consiglio di non fare mai un bagno nell’Oceano Atlantico al largo delle coste dell’Africa Occidentale. Ci buttano di tutto. Per quanto riguarda il livello del mare, anche dalle mie parti qualche spiaggia si è ristretta misteriosamente negli ultimi anni, ufficialmente a causa di una non meglio specificata ‘erosione’. Ma io non sono uno scienziato.
In Giappone visitai una spiaggia nei pressi di Suzuka, dove fanno il moto-Gp, un paio d’anni dopo lo tsunami e il disastro di Fukushima. Una vista apocalittica. Questo non c’entra niente col cambiamento climatico. Era giusto per dire. Quest’anno mi trovavo in Amazzonia e, per il secondo anno consecutivo, a quanto mi è stato riferito, il periodo delle piogge e la relativa piena dei fiumi stagionale, che per quelle popolazioni segna l’arrivo dell’inverno, è arrivata con due mesi di ritardo. Al momento mi trovo in Svizzera per la prima volta. Mi sono sentito un po’ come Totò e Peppino che arrivano a Milano incappottati aspettandosi un tempaccio artico, invece è stato un ottobre fenomenale che, a sentire chi vive qui da molti anni, non si era mai visto. Ma un ottobre eccezionale non sarà di certo la fine del mondo. Con tutto questo bighellonare in lungo e in largo per il pianeta avrò contribuito in maniera sostanziale al casino climatico-ambientale. Non lo nego. Merito la lapidazione. Chi non ha peccato inizi pure. Ma non c’è da avere sensi di colpa. Non è proprio colpa di nessuno. Non c’è colpa. Faccio un esempio: 49 milioni di anni fa, millennio più millennio meno, accadde ciò che gli scienziati chiamano The Azolla Event. Nel mezzo dell’eocene, l’oceano artico aveva temperature ed ecosistemi tropicali. Una serie di condizioni idriche e geologiche favorirono Azollala crescita esplosiva di una felce chiamata appunto azolla. Per circa 800.000 anni questa pianta prosperò su 4 milioni di km² sequestrando l’80% della CO₂ dall’atmosfera sul fondo anaerobico del mare, dove si trova tuttora sedimentata in uno strato geologico esteso lungo tutto il bacino artico.
La concentrazione di CO₂ nell’atmosfera passò da 3.500 ppm a 650 ppm. La temperatura si abbassò da 13°C agli attuali -9. Forse per la prima volta nella storia della Terra ci fu una calotta di ghiaccio al polo nord. Ehi, questa è l’ipotesi di un gruppo di scienziati olandesi dell’università di Utrecht che potrebbero benissimo far parte del complotto. Tra l’altro, tutto ciò ha implicazioni geopolitiche, perché proprio in questi depositi organici può essersi formato il gas e il petrolio che le superpotenze si contendono, ora che quei luoghi diventano accessibili. E quegli scienziati magari lavorano per la Shell. Che mondo… Prendo per vera l’ipotesi solo per esplicitare un concetto: l’azolla ha sconvolto il suo stesso habitat in accordo con la natura o contro la natura? Per inciso, l’azolla non si è estinta, continua a prosperare a latitudini più basse. Ovviamente, l’episodio fu un evento del ciclo della natura. Si crearono le condizioni per una crescita eccezionale dell’azolla, la quale scatenò un cambiamento climatico epocale. Niente di innaturale in tutto ciò. L’azolla ha solo svolto la sua parte. Perché invece quelle stesse dinamiche sono innaturali se protagonista è l’uomo?
Dall’inizio dell’era industriale la CO₂ nell’atmosfera è aumentata di quasi il 40%. Questo ha prodotto cambiamenti a livello climatico? Non lo so, ma probabilmente sì, non me ne stupirei. L’era geologica in cui viviamo si chiama antropocene. Cioè, la nostra specie altera l’ambiente così profondamente da caratterizzarne l’epoca a livello geologico. Oltre a riprocessare l’atmosfera, abbiamo alterato il corso dei fiumi, spianato colline e sventrato montagne, stravolto gli ecosistemi di interi continenti, alterato la radioattività di fondo, saturato lo spazio di elettrosmog. E volete che tutto questo non abbia alterato il clima? E perché, di grazia? Perché quel signore onnipotente che abita in cielo ha detto che potevamo fare il cazzo che ci pareva in eterno, tanto il clima l’avrebbe tenuto costante lui, perché gli siamo simpatici e proteggerà sempre e comunque il divino ordine capitalista? Si dice che il battito di una farfalla in Cina possa far scoreggiare un alieno insettoide in una dimensione Guy McPherson prevede la fine del mondo entro 10 anniparallela, figuriamoci se la superloffa della specie umana non sia capace di modificare il clima del pianeta. Quindi abbiamo fatto una cazzata immane? Probabilmente sì, ma non avevamo scelta.
Non siamo diversi dall’azolla, proprio perché non ci abbiamo pensato due volte a cacciarci in questo guaio e non abbiamo la più pallida idea di come uscirne. Perché non ne siamo responsabili. Agiamo secondo le direttive della natura di cui non siamo consci per permettere alla terra di iniziare un nuovo ciclo di vita. Giovanni che prende la macchina per andare a comprare le sigarette contribuisce a cuor leggero. È questa la nostra hubris: illuderci di essere al di fuori ed al di sopra dei cicli naturali ed addirittura capaci di alterarli. Non è così, noi facciamo parte di questo scorrevole tutto e non possiamo che recitare la nostra minuscola comparsata in uno spettacolo i cui atti durano milioni di anni. Non possiamo fare proprio nulla. Secondo gli scienziati più pessimisti, come per esempio Guy McPherson e i suoi “abrupt climate change” e “near term extinction”, anche se fermassimo tutte le attività umane domani, la temperatura schizzerebbe alle stelle; infatti, oltre ad immettere gas serra nell’atmosfera che inducono un riscaldamento nel lungo termine, immettiamo anche particolato (non so se si riferisca anche alle scie chimiche), che fermando i raggi solari ne blocca l’effetto nel breve periodo. Se ci fermassimo, questo particolato cadrebbe al suolo e la schermatura che fornisce verrebbe meno, facendo salire la temperatura oltremodo.
Per altro, fermare tutto l’ambaradan dall’oggi al domani è irrealizzabile, non solo praticamente, ma perché il caos sociale che ne deriverebbe sarebbe assolutamente distruttivo e quindi controproducente. McPherson prevede il collasso entro dieci anni. Hai voglia a proporre soluzioni innovative e trabiccoli succhia carbonio con scappellamento triplo carpiato. Ormai da anni non mi occupo più di iperborei, rettiliani e altri argomenti à la Martin Mystère, ma ricordo di aver letto su un loro testo che i Rosacroce credono che nella storia della Terra si siano succedute sei civiltà evolute con esseri intelligenti più o meno simili a noi, ognuna sviluppatasi dopo la catastrofe che segnò la fine della precedente. Secondo loro siamo vicini all’avvento dellaScie chimichesettima razza e di conseguenza alla fine della sesta, cioè noi. C’è qualcosa di simile nella scienza ufficiale che ci dice che ci sono state cinque estinzioni di massa sul pianeta, e stiamo avvicinandoci con estrema velocità alla sesta.
Mio padre, classe ’24, diceva che rispetto a quando era piccolo lui c’era stato un crollo impressionante nel numero degli animali che abitavano il paese e le campagne. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Del resto nemmeno di ciò che sia successo nel passato possiamo essere tanto certi e molti di noi vagano in un presente ovattato. Non si può sapere se gli allarmisti abbiano edificato un castello di falsità per poter un giorno lucrare sullo scambio di quote di emissioni o se invece dobbiamo credere a quell’amico del popolo di Trump, che non è amico dei petrolieri, ci mancherebbe, che ci assicura che tutto va a meraviglia. Una cosa però a me sembra certa. Se non fosse ormai troppo tardi, ci sarebbe un solo obbiettivo da perseguire: dovremmo smettere di ritenerci nel bene o nel male al di fuori della natura. Per secoli è stato il nostro sogno proibito, perché la natura ci dava sostentamento, ma allo stesso tempo portava carestie, epidemie e tutto doveva essere ottenuto col sudore della fronte. Come sarebbe stato bello finalmente dominarla, la natura, anzi meglio, semplicemente tirarsene fuori. Non dover sottostare alle stagioni, alle piogge e alle siccità, alla grandine che poteva distruggere un anno di lavoro in un pomeriggio, alle cavallette, alla peste bubbonica. Anche a costo poi di dover vivere col senso di colpa e la paura che la natura si vendicasse. Abbiamo creduto di riuscirci. Ma non è possibile. Ci siamo dentro, nel bene e nel male, e non c’è via d’uscita. Parafrasando l’esimio Bill Clinton: it’s nature, stupid!
(“Il cambiamento climatico è del tutto naturale”, post pubblicato da “Amago” su “Come Don Chisciotte” il 9 dicembre 2018).

fonte: http://www.libreidee.org/

giovedì 20 dicembre 2018

le case di ringhiera, dimore della solidarietà e dell’accoglienza



Le case di ringhiera, tipiche abitazioni lombarde e piemontesi, nate agli inizi del ‘900 come edilizia popolare, sono state costruite inizialmente per far fronte al flusso migratorio dal Sud durante gli anni del boom industriale. Quando le fabbriche si spostarono verso le periferie, seguite da tutte le famiglie che in queste lavoravano, le case vennero abitate per la maggior parte dalle persone più umili e in difficoltà.


La composizione dello stabile mediamente di 3-4 piani (ma anche fino a 6) era identica: la porta di ingresso di ciascuna abitazione si affacciava sul ballatoio comune dotato di un parapetto in ferro (da qui il nome case di ringhiera) che percorreva l’intera facciata interna. Su questo ballatoio, tipicamente “in fondo alla ringhiera”, si trovavano i servizi in comune che spesso servivano 7-10 famiglie ed erano ridotti ad un semplice bagno “alla turca” in un locale che permetteva giusto i pochi movimenti necessari per l’utilizzo e una finestrella spesso senza infissi. L’esterno della casa era per la maggiore di color “giallo Milano” mentre l’interno, rifinito con un intonaco grigio e talvolta scrostato, era spesso rallegrato dai colori di piante e fiori a decoro dei ballatoi.


Le abitazioni erano molto simili tra loro: due stanze collegate tra loro da una porta per un totale di 40/50 metri quadri in cui un ambiente fungeva da cucina/soggiorno mentre l’altro era adibito a camera da letto. Solitamente la cucina era riscaldata dalla stufa economica mentre la camera da letto era generalmente più fredda. Al fine di risparmiare prezioso combustibile, che tra l’altro permetteva di investire i pochi soldi disponibili in generi alimentari, la camera da letto rimaneva chiusa durante il giorno così da evitare di disperdere il calore in una stanza che sarebbe stata utilizzata solo durante la notte.


I miei genitori, classe 1941, hanno per molti anni abitato quelle case che io ho avuto la fortuna di frequentare nelle belle domeniche almeno fino ai miei 20 anni perché, anche se al tempo non abitavano più lì, erano rimaste ancora in contatto con le persone che, insieme a loro, avevano trascorso una vita intera. Questo articolo vuole essere un piccolo scorcio sulla casa di Via Pontaccio al civico 3 che ho chiesto a mia madre di raccontarmi nuovamente in prima persona, così come ha fatto nei 50 anni della mia vita, perché col tempo il ricordo non sbiadisse nella mia memoria e rimanesse qualcosa di scritto non solo per i miei figli ma soprattutto in ricordo di tutte le persone che ho conosciuto durante la mia infanzia e giovinezza in un luogo speciale, ormai sparito. 
Ecco il racconto.

Sono nata a Milano il 27 Settembre 1941, ultima di 4 figli. Dopo aver perso il terzo figlio qualche anno prima della mia nascita, per difficoltà sopraggiunte durante il parto, mamma Serafina e papà Aldo non si aspettavano di certo a 40 anni suonati di dover crescere una figlia specialmente sulla soglia del secondo conflitto mondiale. Ho trascorso i primi 27 anni della mia vita nella casa di Via Pontaccio al civico 3 e in questa casa ho saputo apprezzare gesti di solidarietà e di amore che hanno di gran lunga lenito le difficoltà legate alla povertà di quegli anni segnati anche dalla guerra.
La casa era composta da 3 piani, la portineria era presidiata dalla famiglia Delai formata da 5 persone: il papà che lavorava come autista del proprietario della ditta Campari, la mamma Sofia che si occupava della portineria e pulizia delle scale e i loro 3 figli (una femmina e due maschi) che abitavano in due stanze del primo piano e con i quali giocavo spesso insieme perché praticamente coetanei.
Sempre al primo piano abitava la famiglia Viazzi con la figlia Wilma, gestori della Crota Piemunteisa di Via Pontaccio. Wilma con grossi problemi di scoliosi portava un busto non riuscendo pertanto a muoversi agevolmente noi bambini andavamo spesso a farle visita per rimanere un po’ in compagnia cercando di coinvolgerla in giochi per lei più accessibili. C’era poi la famiglia Rossi composta da mamma, papà e Silvana e la famiglia Zara con due figli. Aldo il maggiore e Umbertino, poco più grande di me, che mi faceva sempre tanti scherzi: mi spaventava ogni volta che scendevo le scale costringendomi a chiedere aiuto per scappare dai suoi dispetti. A seguire la Famiglia Coppelli con 3 figlie tra le quali Giordana che era la mia amica del cuore.
Al secondo piano abitava Emanuela Onesti, il cui papà faceva il barbiere nella via, che purtroppo ricordo esser stata portata via all’età di 9 anni dalla difterite. La famiglia Ottolini con 3 figlie di cui ricordo Gabriella “la rossa” che era una mia compagna di giochi, infine la Famiglia Redaelli che gestiva un negozio di frutta e verdura.
Al terzo piano vicino alle scale la Famiglia Scalice con un figlio, la Famiglia Del Bono con le figlie Franca e Itala quest’ultima compagna di mille avventure insieme a Giordana. L’appartamento successivo abitato dalla la famiglia Parolini con i figli Ugo e Bruno che io chiamavo nelle sere dopo i bombardamenti mostrandogli la luna non completa che credevo fosse stata “rotta” dagli inglesi. Virginia Goffi che viveva con la mamma e una cagnolina di nome Lila, la famiglia Bonini con Nicoletta, la Famiglia Bellan con Nayer e Umberto che mi hanno aiutata nei momenti difficili della mia vita sostenendomi seppur con limitati mezzi ma infinito amore - visto che i miei genitori non avevano sufficienti possibilità - e a cui devo chi sono oggi. Alla fine del ballatoio la Famiglia Pontiggia con Amalia (Nana) ed Eugenia (che io chiamavo Eu o più simpaticamente tic-tac anche se non ne ricordo il motivo).
Infine, vi erano degli appartamenti ricavati nel sottotetto: gli abbaini. In uno di questi appartamenti vivevo con la mamma e papà mentre le mie due sorelle erano sfollate fuori Milano a Inzago dalla nonna. Di fronte la Famiglia Dedè con Mariulin e la mamma Prassede e una serie di gatti semi selvatici che non si lasciavano avvicinare ma soffiavano tutte le volte che cercavo di salire al punto che dovevo chiamare la Mariulin per permettermi di rincasare. Gli ultimi due appartamenti erano abitati da Rita Luè e la famiglia Perazzolo con la figlia Itala.
Come avrete intuito la casa di ringhiera era un brulicare di vite ma soprattutto di bambini. Una volta terminati i compiti ci era permesso di giocare, non avevamo molto ma la fantasia non ci mancava: correvamo a perdifiato per le scale del palazzo giù fino al cortile facendo arrabbiare le persone più anziane che ci riprendevano per l’eccessivo rumore, ma anche se brontolavano sono sicura che ci volessero bene. I giochi principali erano a nascondino, “ti ghe l’et” (ce l’hai), mondo, la lippa e qualche volta a bandiera.
Eugenia tic-tac era per me un punto di riferimento a cui chiedevo con insistenza di raccontarmi le favole mentre alla sera lavava i piatti nel lavandino di sasso. Quella che ricordo in maniera particolare, e che raccontavo sempre anche a mio figlio, è quella del Margherinfrun (l’uccello dalle penne d’oro). Spesso la Eu si dimenticava di segnare nella magra lista della spesa alcuni cibi, e siccome in famiglia l’avrebbero sgridata mi chiamava per chiedermi di scendere al suo posto. Se l’avessi fatto in premio mi avrebbe dato delle croste di formaggio grana che teneva ben celate dentro una borsetta di velluto marrone per non farsi vedere in casa. Io ovviamente mi precipitavo perché oltre ad essere particolarmente golosa delle croste di grana (che ancora oggi gusto morbide nel minestrone) era sicuramente un extra che, a quei tempi, era difficile rifiutare.
Papà Aldo lavorava alla Scala di Milano come comparsa e amava le opere soprattutto quelle dirette dal Maestro Arturo Toscanini. Grazie al suo lavoro aveva possibilità di incontrare, dietro le quinte, le “étoiles” di quell’epoca come per esempio lo stesso Toscanini, Beniamino Gigli, Del Monaco, Toti dal Monte, Margò Fontaine e molti altri di cui aveva parecchie fotografie con dediche che venivano gelosamente custodite nel primo cassetto di un comò e che purtroppo sono andate perse. Papà amava le opere liriche e quando le trasmettevano per radio tutti dovevano rimanere in religioso silenzio per assaporarle pienamente.
Forse la passione del mio papà per la lirica e il suo lavoro alla Scala di Milano mi ha portato per una vita a cercare di realizzare un sogno: quello di diventare uno “Spinazitt” che in dialetto milanese significa “piccolo spinacio” ma nel mio caso si riferisce al nome affettuoso dato alle giovani allieve della Scuola di danza classica della Scala di Milano. Ovviamente era una scuola che la mia famiglia non si poteva permettere pertanto il mio papà, per non darmi un dispiacere e forse trovare un po’ di consolazione per non potermi offrire la frequenza a questa scuola, tutte le volte che lo chiedevo trovava un modo gentile per declinare la mia richiesta. Tra le cose che mi diceva più spesso c’era il fatto che era una scuola molto faticosa e che quindi non era cosa essendo io di costituzione piuttosto gracile.
Non avendo grandi disponibilità economiche anche le cose più banali erano razionate, ad esempio mio papà comperava le sigarette a 10 alla volta e mi mandava nel tabaccaio di Via Brera della “Sciora Titta”, vicino al Bar Jamaica entrambi i locali allora frequentati da pittori e artisti. A me piaceva andare non solo per poter uscire in strada, anche se il tragitto era veramente breve una trentina di passi al massimo, ma per poter rimanere un po’ a guardare ed ascoltare queste persone che parlavano di cose a me sconosciute ma affascinanti. Un giorno mi è capitato di intrattenermi a parlare per pochi minuti con un’artista di nome Anna Prati che, così su due piedi, mi ha fatto un ritratto con la tecnica grafica della sanguigna che mi ha poi regalato e che purtroppo non sono riuscita a trovare più da nessuna parte.
Durante il periodo di Natale, ricordo che a casa papà mi costruiva un bellissimo presepe con la cartapesta arricchito da alcune ochette su uno specchio che rappresentava il lago: era molto bello e suggestivo. Ero molto religiosa e attendevo il momento dell’arrivo di Gesù Bambino con infinita gioia. Faticavo ad addormentarmi ed ero sempre combattuta perché la curiosità di vederlo talvolta superava di gran lunga la consapevolezza che, se fossi rimasta sveglia, non avrei ricevuto le sorprese.
I regali non erano certo, come oggi, elencati in una letterina perché sebbene di desideri ne avessimo avuti molti, sapevamo di non poterli chiedere a Gesù. Se ci ripenso, eravamo in grado di apprezzare con gioia anche solo un paio di calze bianche, una piccola stecca di cioccolato o un torrone, raramente una bambola di pezza ma quasi sempre un paio di mandarini le cui bucce venivano poi messe sulla stufa economica per profumare l’ambiente grazie agli olii in essa contenuti.
Nel periodo di carnevale la signora Aurelia, che era una brava sarta, era solita confezionarmi vestiti da contadinella in carta crespa che sfoggiavo con un certo orgoglio in Piazza del Duomo dove Nayer mi accompagnava per vedere i carri allegorici e le maschere milanesi di Meneghino e Cecca. I coriandoli erano sempre troppo pochi pertanto una volta finiti quelli nel minuscolo sacchetto tanti bambini come me li raccoglievano per strada per continuare quella festa nella speranza che questi momenti di gioia non finissero mai. Alla sera ci recavamo in Galleria Vittorio Emanuele dove, in corrispondenza dell’ottagono, suonava un’orchestra dal vivo per i signori seduti ai tavoli che mangiavano leccornie che noi potevamo solo sognarci. Ricordo che mi soffermavo a guardarli e ogni tanto mi capitava di ballare e qualche turista straniero mi faceva cenno di avvicinarsi compiaciuto e mi offriva una caramella o un biscotto. Capitava molto spesso che il giorno di carnevale piovesse pertanto arrivavo a casa con i vestiti tutti disfatti, in ogni caso per me era comunque una gioia poter andare in maschera anche se solo per brevi momenti per far finta che in fondo la vita non fosse poi così tanto male.
Nel ‘45 la guerra finì e qualche anno più tardi cominciai a frequentare le scuole elementari di Via Palermo. Ricordo che il primo giorno di scuola mi trovai in classe a guardare quegli strani banchi che io non avevo mai visto e non sapendo bene come funzionavano mi sedetti sul banco appoggiando i piedi sulla panchina dove invece avrei dovuto sedermi.
Talvolta andavo a casa di alcune delle mie compagne di scuola che, nonostante non fossero ricche, abitavano in appartamenti sicuramente più confortevoli del mio e avevano parecchi giochi. In verità non molti ma in numero notevolmente superiore ai miei. Nonostante la mia casa fosse comunque decorosa era sicuramente “diversa” dalla loro …. così diversa che avevo vergogna ricambiare l’invito pertanto smisi abbastanza velocemente di vedermi in casa delle mie compagne con estremo mio dispiacere.
Le stagioni erano scandite da rituali e ritrovi in diverse occasioni: nelle domeniche d’estate si mangiava all’aperto e Nayer si prodigava cucinando i “pesitt” su un fornello a carbone, nel pomeriggio si ascoltavano le partite alla radio e si mangiava l’anguria. Nei freddi giorni autunnali ci si radunava a turno nelle varie abitazioni e, seppur nel poco spazio a disposizione, si condividevano le castagne lesse oppure arrosto cucinate sulla stufa economica a legna o carbone e, quando possibile, questa leccornia veniva accompagnata anche da un assaggio di vino Panerone. In inverno Milano era coperta da una spessa coltre di neve, mio papà raccoglieva alcune tazzine di neve dal tetto direttamente dalle finestre degli abbaini e faceva la granita rendendola golosa con l’aggiunta di succo di limone e zucchero oppure, quando era disponibile, lo sciroppo al gusto di tamarindo o menta: io ne andavo matta, ricordo ancora adesso il gusto e i momenti di felicità.
Nei mesi primaverili ed estivi l’oratorio era un punto fisso di ritrovo per noi ragazzi, quando possibile mi veniva dato qualche soldino per comperare le scarpette e le stringhe di liquirizia oppure quella classica in legno, poche semplici cose di cui però ne posso sentire ancora il sapore.
Nelle serate di maggio mi recavo nella vicina chiesa di Piazza San Marco per recitare il rosario e pregare per il mese mariano. Finite le orazioni ci lasciavano un po’ di tempo per sfogarci nel piazzale della chiesa con le mie amiche Luisa Boeri, Fiorella Piccaluga, Carla Maggioni e Augusta di cui non mi ricordo più il cognome. Si giocava oppure semplicemente ci si ritrovava insieme per raccontarci la giornata: questo era sufficiente per ritrovare la gioia dimenticando per un attimo i momenti di povertà e difficoltà. Una volta alla settimana, con 10 lire, ci si poteva permettere un gelato nella classica “parigina”: due ostie di pasta wafer rotonde, quadrate o rettangolari nelle quali veniva inserita una piccola porzione di gelato: che buono!
Nel 1954 la televisione fece capolino in Italia ma non era certamente diffusa a livello di singola famiglia che invece sentiva volentieri la radio. Le trasmissioni più seguite nel nostro palazzo erano le commedie a episodi raccontate come per esempio, “La Cittadella”e “Il Dottor Antonio”.
La radio, quasi sempre accesa, faceva compagnia alle persone che rimanevano a casa come massaie e ai bambini al ritorno da scuola, ad esempio prima di pranzo ricordo che sentivo Spadaro con la canzone “Aprite le finestre” e subito dopo il gazzettino padano con il cinguettio di uccellino che sicuramente molti ricorderanno con nostalgia.
Qualche anno più tardi la televisione poteva essere vista al circolino, locale di ritrovo normalmente per gli uomini che giocavano a carte bevendo un bicchiere, nella serata di giovedì quando andava in onda “Lascia o raddoppia” con Mike Bongiorno. Tuttavia, al terzo piano dello stabile dove abitavo c’era una famiglia con due figli, Gladis e Omar, il cui padre era un dipendente del Bottegone di Corso Garibaldi e disponevano di un apparecchio televisivo funzionante tramite l’inserimento di monete da 100 Lire che venivano poi ritirati dall’azienda che gli aveva fornito a noleggio la TV.
Noi non lo sapevamo e, quando ci invitavano per vedere qualche trasmissione, ogni tanto sentivamo un rumore, che era appunto il cadere della moneta, ma alle nostre domande i padroni di casa – che nonostante avessero disponibilità superiori a molti abitanti del palazzo – si vergognavano a svelarne la causa e sviavano il discorso minimizzando.
Nel 1957 il mio papà è mancato a seguito di una malattia, nel contempo ho trovato un lavoro in Via Podgora nei pressi del Tribunale di Milano come impiegata presso la società OSO S.p.A. La mamma viveva da sola perché le mie sorelle (di 14 e 16 anni più grandi di me) ormai avevano costruito la loro vita: una si era sposata mentre l’altra era andata a vivere con una zia ed avevano le loro abitazioni in Via Pastrengo al quartiere Isola di Milano. Per quanto mi riguarda io vivevo spesso con Nayer e Umberto Bellan che mi hanno cresciuto come una figlia e mi hanno aiutato molto in questi momenti di difficoltà della mia famiglia d’origine. Quando potevano, le mie sorelle mi facevano visita ma lavorando e avendo le loro vite le vedevo sporadicamente. Fortunatamente abitavo ancora nelle case di ringhiera e quando rincasavo mi trovavo sempre in una grande famiglia che parzialmente ha compensato queste mancanze.
Ho conosciuto Claudio e dopo un lungo fidanzamento di 10 anni nell’aprile del 1968 ci siamo sposati, l’anno successivo, ho avuto un unico figlio Marco che con sua moglie Silvia ci hanno regalato 3 bellissimi nipoti. Abbiamo festeggiato quest’anno 50 anni di matrimonio, ringraziando la vita che a voler fare un bilancio ci ha regalato anni di felicità che ci auguriamo continuino ancora per molto tempo.


La casa di Via Pontaccio come vi è stata raccontata non c’è più: una ristrutturazione alla fine degli anni 90 l’ha trasformata in una casa sicuramente più comoda e lussuosa che dalla originaria casa di ringhiera mutua probabilmente solo il ballatoio e il parapetto in ferro.
Mia mamma ha provato più volte a sbirciare all’interno per vedere cosa adesso è diventata e provare a ricordare quello che per lei è stato, purtroppo senza successo. Magari qualcuno che adesso abita in quella casa può raccogliere questa richiesta oppure qualcuno che si è riconosciuto nel racconto può chiamare la redazione se ha voglia di aggiungere qualcosa oppure se ha piacere ritrovarsi e ricordare.
Personalmente ricordo che tra gli anni 70 e 90 mi piaceva guardare la casa dal retro tra due palazzi di Via Brera: mi sembrava la scenografia di un teatro i cui balconi e finestre affacciavano sul cortile, palcoscenico di vita quotidiana delle famiglie che li abitavano. L’entrata della casa dava su Via Pontaccio dove, un portone carraio di legno marrone di oltre 3 metri di altezza, nascondeva un ingresso comune con accesso diretto alle cantine e alle scale che portavano ai piani. Il grande portone integrava una porticina - che permetteva l’ingresso pedonale senza necessità di doverlo aprire ogni volta - così piccola che entrando era necessario abbassarsi in una sorta di inchino per evitare di sbattere la testa.


Mai mi potrò dimenticare mentre salivo le scale fino al 3° piano i profumi delle cucine, ciascuna con un piatto diverso sui fornelli, l’odore del bucato appena lavato, la fragranza di caffè della domenica mattina che insieme coprivano, almeno in parte, l’odore di muffa del vecchio stabile che talvolta aveva il sopravvento. Quello che non ho avuto il piacere di udire sono state le voci dei bambini che giocavano in cortile che al tempo delle mie frequentazioni ormai non abitavano più quelle case, e il brusio delle persone che sui ballatoi chiacchieravano raccontandosi la quotidianità. Insomma, queste case erano un piccolo mondo dietro le strade trafficate di Milano fatto di voci, suoni, rumori, profumi, storie di solidarietà e accoglienza ormai passate, in un cortile all’aria aperta e, appena sopra gli occhi, il cielo.


Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano. (Madre Teresa di Calcutta)

A Nayer e Umberto Bellan

Marco Boldini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.