Era un cortiletto chiuso d'un lato da una casetta bassa, e sugli altri da un muro di poco più alto di una normale statura d'uomo. Sporgevano da dietro il muro i rami di un alberetto grigio e frusto, degno di ospitare il passero solitario di Leopardi. Il vasaio stava seduto in un angolo del cortile il suo piccolo tornio tra le gambe. Più che vecchio, costui era senza età. Era antico. Era come il muro che lo chiudeva dentro il suo quadrato. Era come i rami grigi e frusti dell'albero che si spargevano nel cortile. Era come la terra carica d'anni che avevamo calpestato là fuori. Era come le tombe istoriate della vita dei morti, nelle quali eravamo scesi dianzi. La sua faccia era una zolla di terra asciugata da una lunghissima serie di soli rinnovati e medesimi. Nelle sue mani a corteccia potevano nidificare le formiche. Il suo collo era un fascio di tubi arrossati dalla riggine, che scendevano a tuffarsi nella svasatura della camicia. I suoi gesti regolari e lenti, che immutabilmente egli ripeteva da secoli, non turbavano né rompevano tanto meno l'immobilità. Nulla d'inatteso in lui, di "non fatto già". Non sguardo, non voce, non sorriso che spezzassero o interrompessero la monotona continuità del tempo. Guardava noi, ed era come se ci avesse conosciuti da sempre; parlava con noi, ed era come se avesse tante altre volte parlato con noi, e in questa vita, e in molte vite anteriori. Il nostro arrivo, la nostra presenza, le nostre domande non lo fecero minimamente derogare dal ritmo della sua esistenza secolare e arborea. Il suo vivere era un moto perpetuo che nessuno poteva dire quando fosse cominciato, né se e quandosi dovesse arrestare. Il suo piede premeva con movimento di palpito il pedale del tornio. Le sue mani contenevano come dentro una carezza antichissima la roteante massa d'argilla, la premevano leggerissimamente ora con le palme, ora con il polpastrello del pollice; e l'argilla a poco a poco viveva e si formava sotto quella carezza, s'impinguiva ai fianchi, si restringeva al collo e al piede, arrotondava la bocca come un piccolo mortaio. E l'opera di quel vasaio, il lavoro di quell'artigiano fu per noi la vivente testimonianza di come nacque l'antichissima e misteriosa civiltà degli Etruschi, come si formarono quei vasi che avevamo visti al museo Vitelleschi, come si edificarono quelle tombe che perpetuavano la vita al di là dalla morte; come si continua tuttavia questa civiltà e si continuerà ancora.
Stemmo a guardare il lavoro del vasaio come si guardare scorrere un fiume, come si guardano le onde del mare correre appresso all'altra e stendersi sula rena, come si guardano sbocciare le rose di fumo su dal cratere del Vesuvio e sfaldarsi nel cielo. E nel guardare il lavoro del vecchio, dell'antico, dell'eterno vasaio, chiara mi divenne l'essenza dell'opera artigiana, la virtù della cosa fatta a mano; la cosa che conserva un po' dell'incerto, del caduco, dell'imperfetto della sbagliato della natura umana; la cosa che serba il senso di questa nostra condizione mortale, che è la nostra immortalità.
quindi, certamente, per pubblicare questo brano, l'ho copiato, riscritto parola per parola, e l'ho fatto con gusto, moltissimo gusto, assaporando il piacere dello scrivere e di fare anche un po' mie queste parole. scrivere mi piace. Ma d'altronde, che senso ha la vita se non la passi scrivendo? scrive Alessandro Piperno su La lettura.
è Alberto Savinio che scrive, Ascolto il tuo cuore, città, libro pubblicato nel 1944.
ho girato intorno a questo libro per molto tempo e mi sono poi decisa a leggerlo, da poco.
leggo piano, molto piano, è un libro impegnativo, per me.
il titolo mi piace moltissimo, è un'invocazione di appartenenza, appassionata, viscerale, romantica.
richiama il cuore e non molti pensano di associare Milano al cuore, eppure...
Alberto Savinio. Le navire perdu.
So che certi atteggiamenti della mia mente, certi miei gusti, certe mie preferenze derivano dalla forma, dal colore, dall'odore di certi miei giocattoli..il nostro universo vero, l'universo nel quale noi viviamo, che ci circonda, che ci tocca, ci stringe da ogni lato, è l'universo fabbricato dagli artigiani.
Alberto Savinio, scrittore e pittore, era greco, greco di Atene, dove nacque nel 1891, fratello di Giorgio de Chirico; e romano per costume e stile di vita, a Roma morì nel 1952, ma nel profondo dell'animo amò Milano di complesso amore, e come Stendhal prima di lui, se ne riconobbe cittadino, e a Milano dedicò un intero libro, per la verità non solo centrato su Milano, un voluminoso ed enciclopedico libro.
il libro è difficile, non ha trama e in uno stesso capitolo mi perdo tra richiami e citazioni. qualcuno scrisse che Savinio "chiacchiera, ma non sembra avere argomento fermo nella mente, discorre, trascorre, ciancia, allude, gli viene in mente che, si dimentica, cita, ricorda, inventa, affabula, sussurra, bofonchia, talora flauteggia, talora dà sull'arrochito, eccolo che borbotta ma mai lo udrete alzare la voce, ammonire, accusare, vilipendere".
ma ci sono dei passi, questo è solo uno tra decine, che meritano molta attenzione, con una scrittura eccelsa, densa, antica e insuperata, oggi impensabile, ironica o addirittura sarcastica.
il richiamo alla manualità come principio essenziale del saper fare e pensare mi è sembrato originale e autentico, solo gli uomini senza mani, gli uomini che non sanno fare i pacchi trapassano nello spiritualismo: questo nimbo, questa morte in mezzo alla vita.
Un solo modo possiede l'uomo di operare utilmente: questo modo manulae che mette l'uomo in condizione di competere con il demiurgo, che fa dell'uomo stesso un demiurgo. Questo modo espansivo, questo modo centrifugo, questo modo radiante. Qui sta il jistero delle cose, il mistero del mondo, il mistero dell'universo: nel mozzo della ruota; non fuori del mondo, come credono le teste molli, gli uomini "senza mani". Anche le idee, le immaginazioni poetiche "nascono dalla mani" e debbono serbare il loro carattere manuale. Altrimenti non valgono.
fonte: nuovateoria.blogspot.it
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