Manfredonia: la copertina del 45 giri
https://www.youtube.com/watch?v=3C5fVNlWXrk
https://www.youtube.com/watch?v=0F3AKtEiCxM
di Piero Laporta
Lucio Dalla fu legato a padre Pio e al Gargano. Un legame limpido e per un certo tempo duro come un diamante, di cui alla fine rimane solo la luce.
L’artista ha d’altronde peculiari complessità che, unite a quelle altrettanto sfaccettate del frate, ne fanno una gemma, le cui facce si sottraggono a un’osservazione complessiva, persino di quanti hanno condiviso pezzi importanti di vita con Lucio. Uno di questi è certamente Michele Bottalico, marittimo di Manfredonia.
«Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?»
Michele vorrebbe udire ancora queste semplici domande dalla voce del suo amico Lucio, pronunciate in perfetto dialetto di Mambredònje, Manfredonia. Lucio vernacolava come fosse nato nei vicoli del porto garganico e in una certa misura era proprio così.
«Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?»
Michele vorrebbe udire ancora queste semplici domande dalla voce del suo amico Lucio, pronunciate in perfetto dialetto di Mambredònje, Manfredonia. Lucio vernacolava come fosse nato nei vicoli del porto garganico e in una certa misura era proprio così.
«Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?» le prime parole di Lucio ogni volta che telefona a Michele o quando s’incontrano dopo un po’ di tempo.
Michele parla un po’ in italiano e molto in dialetto di Mambredònje, con accento forte e di tanto intanto italianizzato.
Che cosa hai perso con Lucio? Ammutolisce mentre scorre la moviola di trent’anni di amicizia, lavoro, avventure, fratellanza.
«Ho perso più che un fratello» Suo fratello Matteo annuisce, seduto accanto a lui, per niente offeso dalla posposizione, condivisa persino. E Michele racconta.
Era per mare con l’Olimpia, trasportando materiali per la residenza di Lucio alle Tremiti, cercando di chiamare i fratelli a Manfredonia ma il contatto falliva. Ne era lacerato perché la madre era ricoverata in gravi condizioni nell’ospedale di padre Pio, a san Giovanni Rotondo. Angosciato chiamò Lucio alle Tremiti con la radio di bordo: «Per favore fatti dire come sta» invocò.
Lucio attese Michele sul limitare del porticciolo di San Domino, a bordo del suo velocissimo motoscafo d’altura già in moto: «Dai, salta su, ti porto a Manfredonia in un attimo. Oppure faccio venire l’elicottero da Foggia e quando atterri trovi un’auto che ti porta a casa in venti minuti».
Michele declinò l’una e l’altra offerta. La tristezza di Lucio gli aveva detto prima ancora che parlasse che la fretta oramai era superflua. S’aggrappò al fatalismo dell’uomo di mare; però il ricordo di Lucio, lì ad aspettarlo, prodigo d’aiuto e consolatorio, lo commuove ancora.
Siamo nel salotto di casa di Matteo, a poche decine di metri dal mare, lungo la riviera dell’«Acqua di Cristo», la sorgente fra gli scogli, dove Lucio dirigeva sovente la sua passeggiata preferita, dall’incrocio fra viale Miramare e via dell’Arcangelo, pochi passi dal Castello e dal chiosco di Tommasino, gelataio leggendario, accanto all’arena Impero, dove Lucio bambino gustava i film gratis dal balcone di casa.
Se Michele sognasse Lucio nel chiedergli «Cumpe’, chiamami al telefono», egli non esiterebbe un istante, comporrebbe il numero e non si stupirebbe affatto d’udirne la voce: «Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?».
Michele parla un po’ in italiano e molto in dialetto di Mambredònje, con accento forte e di tanto intanto italianizzato.
Che cosa hai perso con Lucio? Ammutolisce mentre scorre la moviola di trent’anni di amicizia, lavoro, avventure, fratellanza.
«Ho perso più che un fratello» Suo fratello Matteo annuisce, seduto accanto a lui, per niente offeso dalla posposizione, condivisa persino. E Michele racconta.
Era per mare con l’Olimpia, trasportando materiali per la residenza di Lucio alle Tremiti, cercando di chiamare i fratelli a Manfredonia ma il contatto falliva. Ne era lacerato perché la madre era ricoverata in gravi condizioni nell’ospedale di padre Pio, a san Giovanni Rotondo. Angosciato chiamò Lucio alle Tremiti con la radio di bordo: «Per favore fatti dire come sta» invocò.
Lucio attese Michele sul limitare del porticciolo di San Domino, a bordo del suo velocissimo motoscafo d’altura già in moto: «Dai, salta su, ti porto a Manfredonia in un attimo. Oppure faccio venire l’elicottero da Foggia e quando atterri trovi un’auto che ti porta a casa in venti minuti».
Michele declinò l’una e l’altra offerta. La tristezza di Lucio gli aveva detto prima ancora che parlasse che la fretta oramai era superflua. S’aggrappò al fatalismo dell’uomo di mare; però il ricordo di Lucio, lì ad aspettarlo, prodigo d’aiuto e consolatorio, lo commuove ancora.
Siamo nel salotto di casa di Matteo, a poche decine di metri dal mare, lungo la riviera dell’«Acqua di Cristo», la sorgente fra gli scogli, dove Lucio dirigeva sovente la sua passeggiata preferita, dall’incrocio fra viale Miramare e via dell’Arcangelo, pochi passi dal Castello e dal chiosco di Tommasino, gelataio leggendario, accanto all’arena Impero, dove Lucio bambino gustava i film gratis dal balcone di casa.
Se Michele sognasse Lucio nel chiedergli «Cumpe’, chiamami al telefono», egli non esiterebbe un istante, comporrebbe il numero e non si stupirebbe affatto d’udirne la voce: «Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?».
«Lucio è speciale» Michele ne parla coniugando il tempo presente.
«È una persona davvero speciale. Prima d’un concerto alle Tremiti, diluviava e il mare in tempesta impediva l’arrivo delle barche e degli spettatori dalla terraferma. Lucio che facciamo? Chiesi in ansia, dimenticando che altre volte, nella stessa situazione, aveva risolto allo stesso modo».
In quale modo? Chiedo, ma Michele ha già cominciato a rispondere «Non preoccuparti» rispose Lucio «facciamo una preghiera a padre Pio, vedrai che ci aiuterà.»
Lo aveva fatto altre volte, ricorda Michele. Lucio si raccolse in una breve e intensa preghiera. Pochi minuti dopo il cielo tornò azzurro, il sole splendeva di nuovo e il mare era calmo. Almeno tre volte Michele ha assistito a episodi analoghi. Succedeva e poi non ne parlavamo più. «Per Lucio fare così era semplice e naturale».
Aveva 23 anni quando incontrò Lucio per la prima volta alle isole Tremiti, arrivandovi con la sua nave che trasportava il necessario per la vita nelle isole; era l’estate del 1982.
Riconobbe Lucio sulla banchina del porticciolo di San Domino. Sapeva che vi dimorava.
Michele non è timido e l’occasione fu ghiotta. Scambiarono qualche battuta e il cantante, com’era usuale, non si sottrasse.
«Chiunque lo interpelli per strada per parlargli o per un autografo trova Lucio disponibile» Michele lo ripete più volte «Se gli rappresentano un problema di povertà o di malattia, allora lo fa suo concretamente» conclude.
«Un giorno eravamo per strada insieme a De Gregori. Questo s’era camuffato sotto un giaccone col cappuccio e gli occhiali; fu ignorato dalla gente. Lucio invece lo riconobbero subito e lo circondarono. Non si sottraeva mai; battute, saluti, fotografie, si immergeva nella folla con la stessa beatitudine che gli dava il mare. L’altro stava in disparte, guardandolo un po’ sorpreso ma forse anche con una punta di invidia: Lucio era felice».
Lucio, che faccio li allontano? Chiese Michele una delle prime volte. «No, no, devo essere grato a questa gente.»
Duello in dialetto
Michele incontrò Lucio la prima volta alle Tremiti, nel porticciolo di San Domino, e vi fece un’indimenticabile pessima figura; lo ricorda con molto divertimento.
Colpito dalla bassa statura di Lucio, forse in qualche modo deluso che il suo aspetto fosse di gran lunga più modesto della sua fama, si lasciò andare con la sfrontatezza di un giovane uomo di mare, a tentare il colpo basso alla celebrità. Quella sera si sarebbe vantato con gli amici e ne avrebbero riso: lui, Michele Bottalico, il marinaio, aveva preso in giro Lucio Dalla, il celebre cantante.
Confidò di conoscere il dialetto ben più del cantante e partì all’attacco: «Madò! Quant si’ brutte!» Madonna, quanto sei brutto.
Lucio, senza esitazione smise la cadenza bolognese, restituì il colpo come fosse un pescatore di Mambredònje, nato a via Maddalena, sul porto: «Jü? A verè tu quant se’ brutte!» Io? Dovresti vederti, quanto sei brutto. Accento perfetto e sfoderò un bel sorriso canagliesco, come avesse fatto filotto da dodici al biliardo.
Volevo nascondermi, ricorda Michele, volevo diventare invisibile mentre Lucio ghignava divertito e lo incalzò: «Guagliò! Vini qua, vì vì vì…» Ragazzo, vieni qui, vieni vieni vieni, col braccio teso e quattro dita, unite su e giù, gestualità tipica da pescatore.
«Ma tu sì de Mambredònje?»
«Sì, sì » Michele era oramai catturato «So’ de Mambredònje…»
«Bravo, allora la prossima volta che vieni devi portarmi gli scavetatjille, due, tre chili di scaldatelli. Però mi raccomando solo quelli da via della Croce, da Nella, solo quelli di Nella. Ogni volta che vieni purteme le scavetatjille. Me’ capìte?».
Gli scaldatelli, taralli di varie forme e dimensioni a seconda delle varie contrade garganiche, sono composti solo di acqua, farina e un po’ d’olio. Talune varianti lussuose annoverano il vino. Di zucchero e lievito neppure l’ombra. La semplicità della ricetta esige maestria di chi li confeziona e assoluta genuinità delle materie prime affinché il risultato finale sia di gran sapore, friabile ma non fragile, deliziosamente gustoso e fragante.
Come faceva quell’accidente di polentone bolognese a sapere che gli scaldatelli di Nella sono i migliori del Gargano e quindi del mondo?
Lucio, incurante del suo sbigottimento, gli dette il numero di telefono, stabilendo un contatto che non si sciolse più, affidando al giovane marinaio incarichi mano a mano più importanti, fino a farne autista, braccio destro e comandante della sua barca; l’amico infine che lo seguiva ovunque.
Colpito dalla bassa statura di Lucio, forse in qualche modo deluso che il suo aspetto fosse di gran lunga più modesto della sua fama, si lasciò andare con la sfrontatezza di un giovane uomo di mare, a tentare il colpo basso alla celebrità. Quella sera si sarebbe vantato con gli amici e ne avrebbero riso: lui, Michele Bottalico, il marinaio, aveva preso in giro Lucio Dalla, il celebre cantante.
Confidò di conoscere il dialetto ben più del cantante e partì all’attacco: «Madò! Quant si’ brutte!» Madonna, quanto sei brutto.
Lucio, senza esitazione smise la cadenza bolognese, restituì il colpo come fosse un pescatore di Mambredònje, nato a via Maddalena, sul porto: «Jü? A verè tu quant se’ brutte!» Io? Dovresti vederti, quanto sei brutto. Accento perfetto e sfoderò un bel sorriso canagliesco, come avesse fatto filotto da dodici al biliardo.
Volevo nascondermi, ricorda Michele, volevo diventare invisibile mentre Lucio ghignava divertito e lo incalzò: «Guagliò! Vini qua, vì vì vì…» Ragazzo, vieni qui, vieni vieni vieni, col braccio teso e quattro dita, unite su e giù, gestualità tipica da pescatore.
«Ma tu sì de Mambredònje?»
«Sì, sì » Michele era oramai catturato «So’ de Mambredònje…»
«Bravo, allora la prossima volta che vieni devi portarmi gli scavetatjille, due, tre chili di scaldatelli. Però mi raccomando solo quelli da via della Croce, da Nella, solo quelli di Nella. Ogni volta che vieni purteme le scavetatjille. Me’ capìte?».
Gli scaldatelli, taralli di varie forme e dimensioni a seconda delle varie contrade garganiche, sono composti solo di acqua, farina e un po’ d’olio. Talune varianti lussuose annoverano il vino. Di zucchero e lievito neppure l’ombra. La semplicità della ricetta esige maestria di chi li confeziona e assoluta genuinità delle materie prime affinché il risultato finale sia di gran sapore, friabile ma non fragile, deliziosamente gustoso e fragante.
Come faceva quell’accidente di polentone bolognese a sapere che gli scaldatelli di Nella sono i migliori del Gargano e quindi del mondo?
Lucio, incurante del suo sbigottimento, gli dette il numero di telefono, stabilendo un contatto che non si sciolse più, affidando al giovane marinaio incarichi mano a mano più importanti, fino a farne autista, braccio destro e comandante della sua barca; l’amico infine che lo seguiva ovunque.
Zingarando sul Gargano, con un punto fermo
«Michele, mi porti in giro? Dai, prendi la jeep».
Come sempre, quando lo spettacolo finiva, spenta l’ultima luce, dissoltosi l’ultimo accordo, saliva la smania di cercare nella notte per sopportare i tumulti interiori.
Andarono prima ad Apricena, cenarono, da lì scesero a Manfredonia per poi salire a San Giovanni Rotondo, a notte tarda, per fare il solito giro intorno al convento.
Padre Pio aveva ancora un rapporto speciale con Lucio – Michele ebbe modo di scoprirlo – un rapporto vivo e attuale, nonostante i lunghi anni trascorsi dalla morte del frate.
Le zingarate sul Gargano erano apparentemente senza meta; sempre comprendevano un passaggio notturno al convento di padre Pio.
Mentre l’auto andava l’umore di Lucio mutava sovente. Michele intuiva quando il passeggero aveva bisogno di parlare, quando di silenzio.
Cercavano il mare e il cielo, la terra e la velocità: «Come la volta da Termoli a San Severo, in venti minuti, duecentoquaranta all’ora, che neanche Nuvolari» Michele ha lo sguardo lontano.
In una sera così, Lucio lo sorprese: «Io ho un unico punto fermo, Gesù Cristo».
I concerti li portavano in ogni dove e ovunque Michele aveva una missione prioritaria: cercare la chiesa dove Lucio potesse confessarsi, ascoltare la Santa Messa e ricevere l’Eucarestia.
«Io sono cattolico» Lucio lo ripeteva ogni volta che poteva e ne dava prova, come nel 1994, quando nato Paolo, il primogenito di Michele, Lucio si propose come padrino.
Michele avrebbe scoperto negli anni successivi che Lucio fu padrino d’innumerevoli bambini, anche fra gli zingari dei campi bolognesi. Un bambino portato al battistero per Lucio fu gioia cercata e ripetuta.
«Io sono cattolico, te lo battezzo io, te lo battezzo io» Lucio lo ripeté a Michele sin da quando seppe che Chiara era incinta. Lucio era così: negli appuntamenti cruciali della vita si metteva in prima, seconda o ultima fila, come la sua sensibilità gli suggeriva.
«Quando morì mio padre, presumevo che non lo sapesse» ricorda Michele, mentre Matteo annuisce commosso «Senz’aspettarcelo vedemmo la sua auto unirsi al corteo funebre» che a Manfredonia usa far transitare davanti alla casa del defunto, per un ultimo saluto «Mentre andavamo dalla chiesa della Croce verso casa, forse a causa del traffico, alcuni amici di Manfredonia si persero, distaccandosi dal corteo, Lucio invece lo seguì con disinvoltura, come fosse nelle strade del suo paese».
I cortei delle auto, funebri o festosi, sono tuttora ricorrenti nel traffico di Manfredonia, la cui intensità spesso non ha nulla da invidiare a quello d’una metropoli.
Un corteo di gran lunga più festoso si formò quando battezzarono, Paolo, il sospirato primogenito di Michele e Chiara, atteso ostinatamente per sedici anni. Era tutto pronto per la cerimonia nella chiesa di Santa Maria Regina, a Siponto, il quartiere balneare a sud di Manfredonia, fra pinete ed eucalipti.
Come sempre, quando lo spettacolo finiva, spenta l’ultima luce, dissoltosi l’ultimo accordo, saliva la smania di cercare nella notte per sopportare i tumulti interiori.
Andarono prima ad Apricena, cenarono, da lì scesero a Manfredonia per poi salire a San Giovanni Rotondo, a notte tarda, per fare il solito giro intorno al convento.
Padre Pio aveva ancora un rapporto speciale con Lucio – Michele ebbe modo di scoprirlo – un rapporto vivo e attuale, nonostante i lunghi anni trascorsi dalla morte del frate.
Le zingarate sul Gargano erano apparentemente senza meta; sempre comprendevano un passaggio notturno al convento di padre Pio.
Mentre l’auto andava l’umore di Lucio mutava sovente. Michele intuiva quando il passeggero aveva bisogno di parlare, quando di silenzio.
Cercavano il mare e il cielo, la terra e la velocità: «Come la volta da Termoli a San Severo, in venti minuti, duecentoquaranta all’ora, che neanche Nuvolari» Michele ha lo sguardo lontano.
In una sera così, Lucio lo sorprese: «Io ho un unico punto fermo, Gesù Cristo».
I concerti li portavano in ogni dove e ovunque Michele aveva una missione prioritaria: cercare la chiesa dove Lucio potesse confessarsi, ascoltare la Santa Messa e ricevere l’Eucarestia.
«Io sono cattolico» Lucio lo ripeteva ogni volta che poteva e ne dava prova, come nel 1994, quando nato Paolo, il primogenito di Michele, Lucio si propose come padrino.
Michele avrebbe scoperto negli anni successivi che Lucio fu padrino d’innumerevoli bambini, anche fra gli zingari dei campi bolognesi. Un bambino portato al battistero per Lucio fu gioia cercata e ripetuta.
«Io sono cattolico, te lo battezzo io, te lo battezzo io» Lucio lo ripeté a Michele sin da quando seppe che Chiara era incinta. Lucio era così: negli appuntamenti cruciali della vita si metteva in prima, seconda o ultima fila, come la sua sensibilità gli suggeriva.
«Quando morì mio padre, presumevo che non lo sapesse» ricorda Michele, mentre Matteo annuisce commosso «Senz’aspettarcelo vedemmo la sua auto unirsi al corteo funebre» che a Manfredonia usa far transitare davanti alla casa del defunto, per un ultimo saluto «Mentre andavamo dalla chiesa della Croce verso casa, forse a causa del traffico, alcuni amici di Manfredonia si persero, distaccandosi dal corteo, Lucio invece lo seguì con disinvoltura, come fosse nelle strade del suo paese».
I cortei delle auto, funebri o festosi, sono tuttora ricorrenti nel traffico di Manfredonia, la cui intensità spesso non ha nulla da invidiare a quello d’una metropoli.
Un corteo di gran lunga più festoso si formò quando battezzarono, Paolo, il sospirato primogenito di Michele e Chiara, atteso ostinatamente per sedici anni. Era tutto pronto per la cerimonia nella chiesa di Santa Maria Regina, a Siponto, il quartiere balneare a sud di Manfredonia, fra pinete ed eucalipti.
Lucio fa piangere il parroco
Monsignor Valentino Vailati, arcivescovo di Manfredonia, s’era detto volentieri disponibile per il rito. Il prelato però ebbe un serio problema all’ultimo momento e dovette rinunciare.
«Nooo, assolutamente non è possibile» rispose don Mario Carmone parroco della chiesa della Croce e zio di Chiara, quando Michele propose allo zio di celebrare in luogo del vescovo «Impossibile, il battesimo è sacro! Il padrino non può farlo un teatrante».
Ma com’era possibile? Il vescovo non obiettava e invece don Mario, per giunta zio della madre del battezzando, non voleva Lucio come padrino. D’altronde don Mario era davvero un buon prete, bisognava comprenderlo e, proprio per questo, rifiutava che il padrino di Paolo fosse un cantante, addirittura Lucio Dalla: «Impossibile, il padrino deve essere un cattolico convinto e praticante!»
Michele ha un carattere un po’ sanguigno e avrebbe volentieri mandato don Mario a quel paese. Questo avrebbe però amareggiato Chiara, l’avrebbe costretto ad annullare la cerimonia e rimandare delusi i numerosi invitati, mutando la festa in funerale. Si fece dunque animo per convincere don Mario.
«Secondo voi, il vescovo non aveva accertato le qualità del padrino prima di accettare di battezzare Paolo?» chiese a don Mario e, mentre lo zio esitava, aggiunse «Che cosa direbbe monsignore della presa di posizione d’un suo parroco, dal momento che lui, l’arcivescovo, non obiettò nulla?»
Don Mario, anche grazie all’intervento di Chiara, dopo molte insistenze si rassegnò obtorto collo, un po’ perché spinto dai legami familiari, soprattutto perché l’assenso iniziale dell’arcivescovo non gli lasciava molte vie di fuga.
Iniziato il rito, don Mario dovette ricredersi ben presto, osservando quanto fossero puntuali e pieni della sua Fede i gesti di Lucio e le sue parole in risposta alle invocazioni del celebrante; si sarebbe detto, non conoscendolo, che Lucio fosse un sacrista per professione. Tutti i presenti ne erano stupiti, tranne Michele. Don Mario, a sua volta, era più sorpreso di tutti, notando di sottecchi la solenne compostezza e la profonda partecipazione al rito del suo celebre chierichetto, con quanta mistica gioia s’accostò all’Eucarestia.
Dopo l’Ite missa est, gli invitati si strinsero festosi al neocatecumeno e al suo celebre padrino, non si sa quale dei due più bersagliato dai flash, mentre Michele, al settimo cielo, si recò in sacrestia per ringraziare don Mario.
Grande la sorpresa quando scoprì il coriaceo parroco, ancora coi paramenti sacri, singhiozzante a calde lacrime: «In tanti anni di sacerdozio non ho visto mai nessuno servire e seguire la Santa Messa con la partecipazione e la fede di Lucio Dalla».
S’abbracciarono lacrimando e fu uno dei giorni più felici per don Mario e per Michele; sebbene non avesse singhiozzato come don Mario, era altrettanto commosso ma non sorpreso.
Michele sapeva bene che l’uomo che serviva la Santa Messa era tutt’altro, del tutto differente e staccato dall’uomo di spettacolo e dal Lucio che conoscevano gli amici. Il gesto rimaneva semplice ed essenziale, eppure ergeva una solennità che non lasciava dubbi circa la profonda e umile partecipazione nel servire per fare memoria del sacrificio di Cristo.
Nelle ricordo, con le parole semplici di Michele, s’avverte che nel servire la Santa Messa, Lucio frapponeva fra sé e il mondo rimanente una sorta di iconostasi, laddove un attimo prima era stato felicemente e sinceramente immerso fra la gente. Quando si rivolgeva a Dio, tutto il resto era in second’ordine.
«Nooo, assolutamente non è possibile» rispose don Mario Carmone parroco della chiesa della Croce e zio di Chiara, quando Michele propose allo zio di celebrare in luogo del vescovo «Impossibile, il battesimo è sacro! Il padrino non può farlo un teatrante».
Ma com’era possibile? Il vescovo non obiettava e invece don Mario, per giunta zio della madre del battezzando, non voleva Lucio come padrino. D’altronde don Mario era davvero un buon prete, bisognava comprenderlo e, proprio per questo, rifiutava che il padrino di Paolo fosse un cantante, addirittura Lucio Dalla: «Impossibile, il padrino deve essere un cattolico convinto e praticante!»
Michele ha un carattere un po’ sanguigno e avrebbe volentieri mandato don Mario a quel paese. Questo avrebbe però amareggiato Chiara, l’avrebbe costretto ad annullare la cerimonia e rimandare delusi i numerosi invitati, mutando la festa in funerale. Si fece dunque animo per convincere don Mario.
«Secondo voi, il vescovo non aveva accertato le qualità del padrino prima di accettare di battezzare Paolo?» chiese a don Mario e, mentre lo zio esitava, aggiunse «Che cosa direbbe monsignore della presa di posizione d’un suo parroco, dal momento che lui, l’arcivescovo, non obiettò nulla?»
Don Mario, anche grazie all’intervento di Chiara, dopo molte insistenze si rassegnò obtorto collo, un po’ perché spinto dai legami familiari, soprattutto perché l’assenso iniziale dell’arcivescovo non gli lasciava molte vie di fuga.
Iniziato il rito, don Mario dovette ricredersi ben presto, osservando quanto fossero puntuali e pieni della sua Fede i gesti di Lucio e le sue parole in risposta alle invocazioni del celebrante; si sarebbe detto, non conoscendolo, che Lucio fosse un sacrista per professione. Tutti i presenti ne erano stupiti, tranne Michele. Don Mario, a sua volta, era più sorpreso di tutti, notando di sottecchi la solenne compostezza e la profonda partecipazione al rito del suo celebre chierichetto, con quanta mistica gioia s’accostò all’Eucarestia.
Dopo l’Ite missa est, gli invitati si strinsero festosi al neocatecumeno e al suo celebre padrino, non si sa quale dei due più bersagliato dai flash, mentre Michele, al settimo cielo, si recò in sacrestia per ringraziare don Mario.
Grande la sorpresa quando scoprì il coriaceo parroco, ancora coi paramenti sacri, singhiozzante a calde lacrime: «In tanti anni di sacerdozio non ho visto mai nessuno servire e seguire la Santa Messa con la partecipazione e la fede di Lucio Dalla».
S’abbracciarono lacrimando e fu uno dei giorni più felici per don Mario e per Michele; sebbene non avesse singhiozzato come don Mario, era altrettanto commosso ma non sorpreso.
Michele sapeva bene che l’uomo che serviva la Santa Messa era tutt’altro, del tutto differente e staccato dall’uomo di spettacolo e dal Lucio che conoscevano gli amici. Il gesto rimaneva semplice ed essenziale, eppure ergeva una solennità che non lasciava dubbi circa la profonda e umile partecipazione nel servire per fare memoria del sacrificio di Cristo.
Nelle ricordo, con le parole semplici di Michele, s’avverte che nel servire la Santa Messa, Lucio frapponeva fra sé e il mondo rimanente una sorta di iconostasi, laddove un attimo prima era stato felicemente e sinceramente immerso fra la gente. Quando si rivolgeva a Dio, tutto il resto era in second’ordine.
Lucio e padre Pio
La radice della fede vissuta da Lucio fu chiara a Michele fin da quando il cantante gli raccontò d’aver servito numerose volte la Santa Messa a padre Pio, iniziando in tenera età e proseguendo sino a quando aveva potuto.
Il buon frate era certamente santo, ma la pazienza gli sfuggiva e non mancò di rampognare e persino far volare qualche scappellotto, più leggero di quanto avrebbe voluto a causa delle stimmate, quando quel chierichetto birbante dava le prime avvisaglie del suo estro musicale, proprio nel sacro istante dell’Elevazione, suonando il campanello in maniera inappropriata.
La voce del frate, mentre Lucio cresceva, si fece più severa e da un certo momento in avanti, sebbene il giovane non mancasse di presentarsi al confessionale, padre Pio tuttavia smise di concedergli l’assoluzione. I peccati si erano fatti pesanti.
Di solito, quando padre Pio reputava un penitente indegno dell’assoluzione, aggiungeva per buona misura parole brusche, cacciando il reprobo in malo modo, talvolta non consentendogli neppure d’accostarsi all’inginocchiatoio tarlato, usando a piene mani una severità che a taluni spiacque e a tantissimi giovò.
Non fu così per Lucio. Egli andava a confessarsi da padre Pio, il quale lo ascoltava, gli dava consigli e ammonimenti con la consueta severità, infine lo congedava negandogli l’assoluzione, tuttavia quietamente, senz’asprezze. Quel comportamento di padre Pio era inconsueto; Lucio lo sapeva e ne era disorientato, ricavandone un’inquietudine che lo interrogò a lungo, sino a pochi mesi prima della scomparsa di padre Pio.
Era l’inizio dell’estate del 1968. La madre telefonò a Lucio chiedendogli di raggiungerla per andare insieme da padre Pio che, a detta della donna, stava molto male.
Il buon frate era certamente santo, ma la pazienza gli sfuggiva e non mancò di rampognare e persino far volare qualche scappellotto, più leggero di quanto avrebbe voluto a causa delle stimmate, quando quel chierichetto birbante dava le prime avvisaglie del suo estro musicale, proprio nel sacro istante dell’Elevazione, suonando il campanello in maniera inappropriata.
La voce del frate, mentre Lucio cresceva, si fece più severa e da un certo momento in avanti, sebbene il giovane non mancasse di presentarsi al confessionale, padre Pio tuttavia smise di concedergli l’assoluzione. I peccati si erano fatti pesanti.
Di solito, quando padre Pio reputava un penitente indegno dell’assoluzione, aggiungeva per buona misura parole brusche, cacciando il reprobo in malo modo, talvolta non consentendogli neppure d’accostarsi all’inginocchiatoio tarlato, usando a piene mani una severità che a taluni spiacque e a tantissimi giovò.
Non fu così per Lucio. Egli andava a confessarsi da padre Pio, il quale lo ascoltava, gli dava consigli e ammonimenti con la consueta severità, infine lo congedava negandogli l’assoluzione, tuttavia quietamente, senz’asprezze. Quel comportamento di padre Pio era inconsueto; Lucio lo sapeva e ne era disorientato, ricavandone un’inquietudine che lo interrogò a lungo, sino a pochi mesi prima della scomparsa di padre Pio.
Era l’inizio dell’estate del 1968. La madre telefonò a Lucio chiedendogli di raggiungerla per andare insieme da padre Pio che, a detta della donna, stava molto male.
Lucio suppose che accampasse il pretesto della salute pericolante del frate per convincerlo a interrompere la lunga assenza dalle sua braccia, causata anche dagli impegni del giovane e non ancora pienamente affermato cantautore.
In piena notte partì da Bologna alla volta di Manfredonia, dove dimorava mamma Jole; da lì salirono a San Giovanni Rotondo, quando essa gli confermò i timori per la salute del frate che egli non vedeva da molto tempo.
Il suo legame col frate, dalla prima volta che lo aveva incontrato nel giardino del convento, quando aveva sette anni, s’era fatto mano a mano più forte, mentre Lucio intuiva che egli era una scintilla di Dio, la cui forza tuttavia gli rimase paradossalmente ignota finché fu assiduo presso di lui. Non di meno lo ascoltava. Quando il frate lo redarguì per le sue ambizioni di attore, ingiungendogli: «Tu devi cantare. Hai capito? Tu devi cantare!» Lucio non ubbidì subito ma infine accantonò i sogni hollywoodiani, germogliati sullo schermo del cinema arena Impero.
Aveva partecipato ad alcuni film a Cinecittà; dopo qualche tempo dall’intimazione di padre Pio finì per concentrarsi solo sulla musica. Ora stavano arrivando i primi contratti importanti. Non poteva ancora dire d’avere sfondato. Era pieno di dubbi; riguardavano la sua carriera di cantante e, ancora più profondamente, le sue intime convinzioni, la sua fede, la sua combattuta fede e il suo stesso io, com’è naturale in un giovane di 26 anni.
Quel mattino andò ancora una volta a confessarsi da padre Pio, paventando che anche questa volta il tribunale della Penitenza non avrebbe concesso la sentenza assolutoria e non di meno per lui era un grande sollievo accostarsi al frate per confidarglisi.
Non immaginava che sarebbe stata l’ultima volta, sebbene il frate fosse visibilmente provato e sofferente; gli occhi chiusi, la voce molto debole mentre risparmiava ogni briciola delle residue energie.
Lucio s’inginocchiò e il confessore non fece mostra di riconoscere il suo discolo chierichetto. Era passato tanto tempo dall’ultima volta e il frate non dette neppure i medesimi segni di paterna contrarietà, gli ammonimenti e i dolci rimproveri come nelle confessioni precedenti. Lo si sarebbe detto indifferente all’identità del penitente.
«Non m’ha riconosciuto» pensò Lucio e decise d’approfittarne per pulire a fondo la coscienza.
«Me’ fatte na’ scarécota» scaricai tutto, confidò anni dopo a Michele. Visto che padre Pio pareva quieto e seguitava a ignorare l’identità del penitente, Lucio ne volle profittare per confessare tutti i peccati, questa volta senza troppe angosce, proprio tutti, insomma «na’ scarécota».
Si compiacque per la sua trovata quando, senza alcun rimprovero di sorta per le sue innumerevoli colpe, inaspettata giunse l’assoluzione, come non accadeva da moltissimi anni, almeno dall’adolescenza.
Nonostante il sollievo della remissione dei peccati, Lucio avvertì tuttavia una certa delusione, come avesse perduto qualcosa, come se padre Pio non fosse più quello che egli aveva conosciuto, come ci accadrebbe davanti a un vecchio genitore che non ci riconosce più a causa della memoria svanita. Non osava pensare che il frate fosse divenuto solo l’ombra di quello conosciuto da bambino. Si levò dall’inginocchiatoio col pensiero echeggiante: «Non m’ha riconosciuto, non m’ha riconosciuto» allontanandosi angosciato.
Non aveva completato tre passi e il frate lo inchiodò:«T’aggije canusciute… t’aggije canusciute…» la voce tornò per un momento quella antica, la montagna che parlava scuotendoti.
Lucio non ebbe forza di girarsi; avvertì una scossa; guadagnò in fretta il piazzale della chiesa mentre i dubbi d’un momento prima si scioglievano. Fu catturato e commosso dallo spettacolo del golfo, visto dal sagrato, di qua la montagna e sopra il cielo azzurro, lo stesso cielo che un attimo prima gli aveva parlato con quella voce che perforò il suo cuore. La sua fede non vacillò più.
fonte:
http://www.pierolaporta.it/lucio-dalla-e-padre-pio/#more-10010
In piena notte partì da Bologna alla volta di Manfredonia, dove dimorava mamma Jole; da lì salirono a San Giovanni Rotondo, quando essa gli confermò i timori per la salute del frate che egli non vedeva da molto tempo.
Il suo legame col frate, dalla prima volta che lo aveva incontrato nel giardino del convento, quando aveva sette anni, s’era fatto mano a mano più forte, mentre Lucio intuiva che egli era una scintilla di Dio, la cui forza tuttavia gli rimase paradossalmente ignota finché fu assiduo presso di lui. Non di meno lo ascoltava. Quando il frate lo redarguì per le sue ambizioni di attore, ingiungendogli: «Tu devi cantare. Hai capito? Tu devi cantare!» Lucio non ubbidì subito ma infine accantonò i sogni hollywoodiani, germogliati sullo schermo del cinema arena Impero.
Aveva partecipato ad alcuni film a Cinecittà; dopo qualche tempo dall’intimazione di padre Pio finì per concentrarsi solo sulla musica. Ora stavano arrivando i primi contratti importanti. Non poteva ancora dire d’avere sfondato. Era pieno di dubbi; riguardavano la sua carriera di cantante e, ancora più profondamente, le sue intime convinzioni, la sua fede, la sua combattuta fede e il suo stesso io, com’è naturale in un giovane di 26 anni.
Quel mattino andò ancora una volta a confessarsi da padre Pio, paventando che anche questa volta il tribunale della Penitenza non avrebbe concesso la sentenza assolutoria e non di meno per lui era un grande sollievo accostarsi al frate per confidarglisi.
Non immaginava che sarebbe stata l’ultima volta, sebbene il frate fosse visibilmente provato e sofferente; gli occhi chiusi, la voce molto debole mentre risparmiava ogni briciola delle residue energie.
Lucio s’inginocchiò e il confessore non fece mostra di riconoscere il suo discolo chierichetto. Era passato tanto tempo dall’ultima volta e il frate non dette neppure i medesimi segni di paterna contrarietà, gli ammonimenti e i dolci rimproveri come nelle confessioni precedenti. Lo si sarebbe detto indifferente all’identità del penitente.
«Non m’ha riconosciuto» pensò Lucio e decise d’approfittarne per pulire a fondo la coscienza.
«Me’ fatte na’ scarécota» scaricai tutto, confidò anni dopo a Michele. Visto che padre Pio pareva quieto e seguitava a ignorare l’identità del penitente, Lucio ne volle profittare per confessare tutti i peccati, questa volta senza troppe angosce, proprio tutti, insomma «na’ scarécota».
Si compiacque per la sua trovata quando, senza alcun rimprovero di sorta per le sue innumerevoli colpe, inaspettata giunse l’assoluzione, come non accadeva da moltissimi anni, almeno dall’adolescenza.
Nonostante il sollievo della remissione dei peccati, Lucio avvertì tuttavia una certa delusione, come avesse perduto qualcosa, come se padre Pio non fosse più quello che egli aveva conosciuto, come ci accadrebbe davanti a un vecchio genitore che non ci riconosce più a causa della memoria svanita. Non osava pensare che il frate fosse divenuto solo l’ombra di quello conosciuto da bambino. Si levò dall’inginocchiatoio col pensiero echeggiante: «Non m’ha riconosciuto, non m’ha riconosciuto» allontanandosi angosciato.
Non aveva completato tre passi e il frate lo inchiodò:«T’aggije canusciute… t’aggije canusciute…» la voce tornò per un momento quella antica, la montagna che parlava scuotendoti.
Lucio non ebbe forza di girarsi; avvertì una scossa; guadagnò in fretta il piazzale della chiesa mentre i dubbi d’un momento prima si scioglievano. Fu catturato e commosso dallo spettacolo del golfo, visto dal sagrato, di qua la montagna e sopra il cielo azzurro, lo stesso cielo che un attimo prima gli aveva parlato con quella voce che perforò il suo cuore. La sua fede non vacillò più.
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http://www.pierolaporta.it/lucio-dalla-e-padre-pio/#more-10010
fonte: sulatestagiannilannes.blogspot.it
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