domenica 10 dicembre 2017

dove il sacro rompe i confini

Sento un’aura simile, un carisma nel dolce cantilenare del Padre Nostro nella lingua di Cristo sull’Eufrate, nell’emergere dell’armonia delle quinte dalla tempesta di voci degli hassidim di Rabbi Nachman in Galilea, nei vocalizzi ipnotici e nei sospiri profondi dei sufi chishti di Kabul, nelle preghiere dello shabbat ad Antiochia.



All’inizio documentavo piccole e grandi religioni all’ombra di guerre antiche e recenti, e sulle loro ceneri. Poi, a un certo punto sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele. Forse questo può fare il fotografo, raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che gli sembra giusto, o forse solo possibile, sognando quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo.




























Da molti anni – scrive Bulaj – viaggio lungo i confini dei monoteismi, in oasi d’incontro assediate da fanatismi armati, nelle patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Asili delle fedi, come il Bosforo, sul quale le donne armene e turche si addormentano insieme accanto al sepolcro di un santo bizantino, praticando l’incubatio, di cui si scriveva già prima di Erodoto, anestetizzando con il sonno la memoria dello sterminio che le divide. Come i monasteri nel deserto egiziano, attaccati dai fanatici. Come il Kosovo, dove i musulmani venerano lo sfortunato santo dei serbi re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Come Damasco, dove cristiani, musulmani, sciiti e sunniti pregano fianco a fianco nella moschea degli Omayyadi, presso il catafalco di Giovanni Battista e sotto al minareto di Cristo. Come il monastero Deir Mar Musa, le cui pietre sono state posate nuovamente da cristiani e musulmani, perché qui hanno pregato insieme per un millennio, nella stessa Siria.







ho cercato di sentirla parlare, allo Spazio Forma, ma, al solito, il tutto era organizzato male, nella noncuranza più offensiva.
ho carpito stralci di parole, ho visto le foto in punta di piedi, indietro di venti metri, la più piccola tra una folla di esclusi. 
questa fotografa mi piace, mi piace sentirla parlare, perché sa parlare.
un fotografo deve sapere quello che fa. e deve saperlo bene, e deve saperlo spiegare.
questa è la differenza.

fonte: http://nuovateoria.blogspot.it/

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