di Francesco Mercadante
Da ricerche scientifiche ormai piuttosto diffuse apprendiamo che al mondo esistono circa seimila lingue. L’inglese e il cinese mandarino vantano il più alto numero di parlanti: oltre un miliardo. Di qua dai metodi – principalmente quello genealogico e quello tipologico – con i quali gli studiosi le hanno classificate, le cifre in questione sono talmente impegnative che non possiamo fare a meno di chiederci come siano state raggiunte. Tirare fuori la storia del colonialismo o quella della territorialità, che sicuramente hanno agevolato la divulgazione, è un atto pressoché inconcludente, ma anche scorretto e, a mio avviso, ingeneroso. È vero che d'ingiustizie è piena la cronaca di qualsiasi disciplina, ma, se possiamo rimediare, perché non farlo?
Per esempio, si è sempre sentito dire che i Fenici hanno inventato la scrittura e noi non vogliamo portar via loro la gloria, tuttavia sarebbe onesto assegnare un po' di merito ai popoli dell'antico Egitto e dell'antica Mesopotamia, che, già nel 3000 a.C., si davano un gran daffare attorno alla comunicazione scritta. Nel tempo, i veri esperti, cioè quelli che hanno saputo trasformare l'alfabeto in uno strumento del sapere, se dobbiamo essere sinceri, sono stati i greci.
Questa introduzione non sia intesa come un frammento di storia della lingua! Essa è, semmai, la premessa all'approfondimento di alcune caratteristiche grammaticali - e non - che distinguono le lingue del mondo.
Nel corposo saggio di linguistica Le lingue e il Linguaggio (2002), Graffi e Scalise sostengono qualcosa che ai più può sembrare scandalosa: inglese e cinese mandarino hanno delle caratteristiche in comune; sono, in pratica, delle lingue isolanti. Definiamo isolante quella lingua in cui la coniugazione del verbo non rispetta delle desinenze. In inglese, per esempio, diremo I start, you start, he/she/it starts, we start, you start, they start. In pratica, fatta eccezione per la terza persona, cui aggiungiamo la –s, il verbo resta invariato. In cinese, invece, la frase Io ti penso diventa Io pensare tu, mentre Tu mi pensi diventa Tu pensare Io. A ben vedere, sembra che questo fenomeno abbia permesso alla lingua inglese di occupare spazi amplissimi, facilitando il compito dei parlanti.
Sulla base delle classifiche stilate, si ritiene che siano circa settanta milioni coloro che parlano la lingua italiana, la quale conserva una morfologia complessa e composita.
Adesso, avvalendoci di questi presupposti, proviamoci ad esaminare in che modo viene trattata la struttura della nostra lingua all'interno del più vissuto tra i luoghi del mondo: il web! È uno sforzo che va fatto soprattutto perché il Patriarca di Semiopoli, Umberto Eco, ricevendo l'ennesima laureahonoris causa presso l'Università di Torino, ha dichiarato, non a torto, che il web ha dato diritto di parola agli imbecilli. Nonostante l'eccesso e l'impeto del santone, le ragioni, per così dire, ci sono e sono buone.
In precedenza, abbiamo detto di alcune figure inquietanti e che si nascondono tra i veri blogger, spacciandosi per professionisti, quando sono solamente delle proiezioni dell'insicurezza umana. In questo capitolo, tentiamo di individuare alcuni elementi prettamente grammaticali che potrebbero fare infuriare nonno Umberto.
Cominciamo dall'uso del tu pragmatico fatto da molti blogger, i quali, rivolgendosi al lettore, sono soliti scrivere così: Oggi, caro lettore, voglio dirti che (…). Questa pratica è molto in voga e, in parte, ha un valore funzionale. Il ricorso al pronome confidenziale potrebbe indurci a pensare che l'autore sfrutti la funzione fatica del linguaggio, quella in base alla quale il canale di comunicazione viene tenuto sotto controllo per mezzo di un richiamo: Tu, lettore, seguimi! Se così fosse, allora sarebbe tutto in regola. Però, gli antichi e saggi maestri del giornalismo, che furono protagonisti di grandi cambiamenti del sistema di comunicazione, insegnavano ai propri allievi a non usare mai il pronome personale io in un articolo, così da offrire al lettore un resoconto obiettivo. Figuriamoci il tu! Solamente i grandi editorialisti potevano permettersi di scrivere in prima persona. Non possiamo trascurare che esiste anche una vera e propria educazione letteraria, in nome della quale un autore, specie se non accreditato, non può e non deve porsi su piani d'importanza. Il giudizio spetta ai lettori e, nel tempo, alla comunità scientifica. Di conseguenza, l'uso di questo tu è sconsigliabile. Non è un errore, ma qualifica troppo velocemente il ruolo di chi scrive come quello di uno che ne sa tanto da potere sempre dire l'ultima parola. Si nota, in questo caso, come un elemento distintivo delle lingue storiche diventi causa di discordia. Gl'inglesi, molto probabilmente, non si porrebbero alcun problema simile, vista la loro impostazione pronominale. Ma noi siamo neolatini.
Lungo il sentiero dell'educazione letteraria, incontriamo un altro grande fenomeno: quello del come fare a (…). In questo caso, che non ha alcunché di grammaticale, ma che alla grammatica è strettamente legato, il professorone ha non solo ragione da vendere ma anche il diritto di sputare fuoco. La quantità di coloro che sono in grado di dire ad altri come fare a diventare scrittori, come fare a diventare blogger o come fare a rinascere ricchi e potenti è, a dir poco, incalcolabile. Cosa si può dire, se non che queste pagine di saggezza, di solito, sono le prime a riportare le virgole tra il soggetto e il predicato verbale? Soggetto e predicato verbale esistono con certezza da almeno tremila anni. Perché dovremmo celebrarne il funerale proprio adesso e soprattutto per colpa di chi si definisce capace di dare consigli sulla scrittura? Farebbero bene, costoro, a viaggiare nel tempo anzitutto per alleggerire la rete e, in secondo luogo, per ricominciare dalla scrittura ideografica, che fece la propria comparsa cinquemila fa.
A questo punto, all'ombra di Mastro Umberto, mi chiedo perché nessuno faccia più ricorso al punto e virgola. La domanda appartiene alla retorica. Non se ne fa un uso adeguato sia perché i classici della letteratura sono poco letti sia perché il punto e virgola rientra nella variazione di stile della coordinazione complessa: si guardò attorno stizzito; aveva paura; il tempo non era stato un suo alleato. In questi tre segmenti, la pausa adottata è quella del punto e virgola ed è necessaria e inevitabile: passato remoto, imperfetto e trapassato prossimo si susseguono in un unico costrutto narrativo. Si badi che l'iracondo Umberto, con le 40 regole per scrivere e parlare bene, intelligentemente riadattate al copywriting da Arianna Rossi, scrive: <>! Io non avrei messo i due punti prima di anche se e lo ritengo un errore, ma Ubi maior, minor cessat.
http://errorieparole.blogspot.it/2015/06/se-anche-umberto-eco-sbaglia.html
fonte: alfredodecclesia.blogspot.it
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