giovedì 20 marzo 2014

1960: la rivolta di Genova




Parole di Sandro Pertini: « Libertà, giustizia sociale, amor di patria. Noi siamo decisi a difendere la Resistenza. Lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei morti e per l’avvenire dei vivi, lo compiremo fino in fondo. Costi quel che costi».

ITALIA 1960: LA RIVOLTA DI GENOVA. CONTRO IL GOVERNO TAMBRONI, CONTRO IL CONGRESSO DEL MSI NELLA CITTA’, GENOVA INSORGE. Wanda Valli e Filippo Ceccarelli ricordano e commentano gli eventi di quei giorni - a cura di Federico La Sala


I protagonisti saranno i giovani, i ragazzi con le "magliette a strisce", operai, portuali, moltissimi studenti dell’università.

lunedì 14 giugno 2010.[...] La macchia è ancora lì, rossastra, a due passi dal palazzo della Regione, in piazza De Ferrari, cuore di Genova. Hanno provato a ripulirla nel tempo, più e più volte, ma senza riuscirci. Quasi che la storia volesse lasciare un suo segno. La macchia è quel che rimane di una camionetta della Celere di Padova rovesciata e incendiata dai manifestanti, il 30 giugno del 1960. Il giorno in cui Genova brucia, si ribella, si rivolta contro il Msi, fresco alleato del governo Tambroni, che vuole tenere nella città medaglia d’oro della Resistenza il suo congresso il 2 luglio. E vuole che a presiederlo sia Carlo Emanuele Basile, l’uomo delle torture alla Casa dello studente, l’uomo che nel 1944 fece deportare milleseicento operai delle fabbriche e del porto [...]


-  Genova ’60
-  La lunga estate della rivolta

di Wanda Valli (la Repubblica, 13.06.2010)

Cinquant’anni fa la città si ribella al congresso del Msi. Ex partigiani, camalli, studenti si infiammano alle parole di Pertini: "Difendere la Resistenza, costi quel che costi". Il 30 giugno la Celere di Tambroni viene travolta dai "ragazzi con le magliette a strisce". È in quelle giornate che si disegnerà il futuro dell’Italia Tra aperture alla sinistra e tentazioni autoritarie
La macchia è ancora lì, rossastra, a due passi dal palazzo della Regione, in piazza De Ferrari, cuore di Genova. Hanno provato a ripulirla nel tempo, più e più volte, ma senza riuscirci. Quasi che la storia volesse lasciare un suo segno. La macchia è quel che rimane di una camionetta della Celere di Padova rovesciata e incendiata dai manifestanti, il 30 giugno del 1960. Il giorno in cui Genova brucia, si ribella, si rivolta contro il Msi, fresco alleato del governo Tambroni, che vuole tenere nella città medaglia d’oro della Resistenza il suo congresso il 2 luglio. E vuole che a presiederlo sia Carlo Emanuele Basile, l’uomo delle torture alla Casa dello studente, l’uomo che nel 1944 fece deportare milleseicento operai delle fabbriche e del porto.
Genova non ha dimenticato. È una calda giornata d’estate, il 30 giugno 1960, c’è maccaia, quel tempo umido con le nubi che velano il sole. «Scimmia di luce e di follia» la definirà molti anni dopo Paolo Conte, poeta della canzone. La città vive una calma apparente. Ma ci sono già stati cortei e scontri con la polizia: il 25 è il giorno della prima manifestazione, il 28 giugno Sandro Pertini, con il discorso del bricchettu (del fiammifero) dà il via all’incendio finale.
Tutto è incominciato quasi un mese prima, il 2 giugno, festa della Repubblica. Gli ex partigiani si incontrano a Pannesi, sulle alture sopra Genova, lo stesso posto da dove sono partiti per andare a combattere in montagna. Giorgio Gimelli, ex partigiano, nel 1960 è presidente provinciale dell’Anpi. È lui a parlare con Umberto Terracini, amico di Gramsci, compagno di prigionia di Pertini a Ponza, poi deputato eletto in Liguria per il Pci. Terracini è stato il presidente dell’Assemblea costituente, è sua la firma, nel dicembre del 1947, sotto il testo della Costituzione.
Quel giorno, a Pannesi, Terracini di fronte a tremila persone lancia la mobilitazione. Il resto dell’Italia ignora quanto sta per accadere, il governo minaccia di mandare l’esercito e spera che tutto finisca così. Il tam tam, invece, avvolge la città. A tenere i contatti tra Roma e Genova, sono la Cgil attraverso la Camera del lavoro, e soprattutto l’Anpi, l’associazione dei partigiani.
I protagonisti saranno i giovani, i ragazzi con le "magliette a strisce", operai, portuali, moltissimi studenti dell’università. Paride Batini, leader dei portuali scomparso un anno fa, nel giugno del 1960 ha venticinque anni, è uno di quelli con la maglietta a strisce: «Le portavamo tutti, perché costavano poco» spiegò l’unica volta in cui ruppe il silenzio su quei giorni.
Raccontò, Batini, che il 30 giugno ’60 fu la rivolta dei giovani: «Il miracolo economico lo stavano costruendo sulla nostra pelle, noi volevamo giocarci il futuro». In prefettura tentano una mediazione. Fulvio Cerofolini, ex sindaco socialista di Genova, poi deputato, ora è presidente provinciale dell’Anpi: «Il prefetto propose di spostare il congresso del Msi a Nervi e a noi di manifestare al Righi, sulle alture, una specie di anticipazione della teoria degli opposti estremismi». Che non passa.
Per il 30 giugno la Camera del lavoro prevede uno sciopero di sole due ore, ma due giorni prima, il 28, sono la passione e la foga oratoria di Sandro Pertini di fronte a ventimila persone a scaldare gli animi. Il futuro presidente della Repubblica ricorda gli ideali che hanno unito l’Italia: «Libertà, giustizia sociale, amor di patria. Noi siamo decisi a difendere la Resistenza. Lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei morti e per l’avvenire dei vivi, lo compiremo fino in fondo. Costi quel che costi». Così andrà.
Il 30, quei pochi delegati del Msi che si presentano negli alberghi vengono respinti, i tassisti li lasciano nei posti più impensati, sui tavoli dei ristoranti ci sono volantini antifascisti. Il corteo parte un po’ in anticipo. Raccoglie, via via che attraversa la città, una folla di centomila persone. In piazza della Vittoria arriva l’ordine di scioglimento. Molti ritornano in piazza De Ferrari, ma c’è anche chi non si muove da lì.
Il nucleo di polizia della Celere di Padova è schierato con le jeep e prova a mandar via la gente, a partire da chi si è arrampicato sulla fontana al centro della piazza. Uno di questi è Giordano Bruschi, allora aveva trentacinque anni, era segretario dei marittimi della Cgil: «Dopo il primo carosello, io con molti altri, finisco nell’acqua, mentre le camionette vengono posteggiate sotto i portici», là dove oggi c’è la macchia. Le cariche si susseguono, si fugge lungo i vicoli, e lì la polizia si ritrova impotente.
Bruschi: «La gente tirava vasi, acqua calda e olio dalle finestre», i poliziotti risalgono in piazza De Ferrari, proprio mentre almeno in cinquemila, soprattutto portuali e operai, vanno all’assalto delle jeep. Vengono sollevate di peso dai camalli, gli scaricatori del porto, e rovesciate. Il comandante della Celere finisce nella fontana, lo salvano i portuali e i partigiani, lo portano in un bar, a prendere un caffè.
Quando lo scontro sembra diventare sanguinoso, Giorgio Gimelli va in Questura a parlare con il commissario Costa. Insieme, il partigiano e il commissario, corrono in via XX Settembre dove la gente ha eretto barricate. Lì c’è anche Raimondo Ricci. Avvocato, oggi presidente nazionale Anpi, ricorda: «Le prime cariche, la gente che lanciava tavolini e seggiole. C’erano i lacrimogeni, ci coprivamo con i fazzoletti». Alla fine si riesce a convincere tutti ad andare a casa. In prefettura si tratta. Il centro della città resta presidiato. All’una di notte, il segretario della Cgil, Pigna, annuncia: «Il congresso del Msi è stato annullato». Genova ha vinto ancora.

Leoni in piazza volpi a Palazzo
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 13.06.2010)

Fu questo dei moti di Genova e del luglio ’60, «a mio parere - come scrisse Aldo Moro nel suo memoriale dal carcere delle Br - il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni intervenuto a quell’epoca». Tale il clima, dopo i tre morti di Melissa, Palermo, Catania e i cinque di Reggio Emilia; tanto angosciosi i boatos dopo la tregua proposta a sorpresa dal presidente del Senato Merzagora e il simultaneo sventolio di dossier tra potenti democristiani, specie da parte dello stesso presidente del Consiglio Tambroni, che per qualche giorno l’allora segretario della Dc preferì dormire fuori casa.
Giulio Andreotti, del resto, che rispetto a Moro aveva meno ragioni di temere, più che l’aria di golpe si è poi divertito a descrivere la scena «da film americano» dei ministri della sinistra Dc che acrobaticamente cercavano di consegnare le loro lettere di dimissioni nelle mani di Tambroni, il quale a sua volta ingaggiò i più ingegnosi esercizi fisici per non accoglierle. Perché come spesso accade in Italia c’era il dramma, la rabbia e la paura, ma anche da ridere: così una sera, durante una riunione a piazza del Gesù, quando dalla strada risuonò un improvviso rumore di cavalli al galoppo, un anonimo notabile diede voce al comune sentimento: «Non saranno mica venuti ad arrestarci?».
E insomma: insorta Genova, e manganellati dalla Celere parecchi deputati comunisti a Porta San Paolo, lo scudo crociato non smetteva di traccheggiare di fronte alla scelta del centrosinistra, Tambroni lasciava maliziosamente capire di sapere tutto di tutti («Li conosco uno per uno e al momento giusto li metto a posto») e il presidente della Repubblica Gronchi, terrorizzato dal primigenio complotto comunista, con tale grottesca insistenza pretese un aumento della vigilanza da indicare i requisiti degli agenti di Ps da disporre a tutela della sua persona: «Di alta statura, complessione atletica e rotti - recitava la formula - a tutti gli sport».
Di queste strambe e turbinose manovre, di questo carosello che arrivò a lambire anche la Santa Sede e la Cei, che non mancarono di mettere in campo dispute pure di ordine dottrinale, fece alla fine tesoro l’altro cavallo di razza della Dc: Amintore Fanfani, il grande sconfitto di due anni prima, in tale frangente chiamato a una delle sue consuete, repentine e impetuose resurrezioni.
In realtà già prima della fatidica estate genovese, «il Rieccolo», come di lì a poco l’avrebbe designato Indro Montanelli, aveva cominciato in gran segreto a tessere la sua trama per aprire le porte al Psi con l’ovvia collaborazione di La Malfa e Saragat. Il dato rimarchevole, e se si vuole pure significativo degli usi e costumi della Prima Repubblica è che l’imminente governo Fanfani - poi detto «delle convergenze democratiche» o secondo la più metafisica lectio morotea «delle convergenze parallele» - venne comunque prefigurato in un pranzo tenutosi in una remota trattoria dell’Acqua Acetosa, "Da Giggetto il Pescatore"; dove quella piovosa domenica, insieme agli illustri cospiratori erano capitati almeno un paio di giornalisti, oltre all’incolpevole figliola del presidente Tambroni, che poi era la vittima designata di quella conviviale congiura.
Seguirne con gli occhi di oggi le logiche politiche e le tatticissime sottigliezze tattiche è praticamente impossibile, se non vano. Con ragionevole semplificazione, a mezzo secolo di distanza, è abbastanza evidente che a partire dalla sollevazione antifascista di Genova si giocò in Italia una partita di leoni e di volpi, un passaggio che combinava ruggiti di piazza e tagliole di palazzo.
Di quel luglio anche sanguinoso scrissero a caldo Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini, Antonio Delfini vi dedicò una poesia (Genova è in rivolta, Torino ascolta), mentre il giovane Fausto Amodei compose una canzone destinata a diventare celebre, Morti di Reggio Emilia. Ma nel cuore del potere e nel suo immaginario quella mezza insurrezione, proprio in quanto favorì l’affermarsi del centrosinistra, rimase inscritta anche come un potenziale pericolo: di qui probabilmente la redazione del controverso Piano Solo da parte dell’Arma dei carabinieri.
Dotatosi di un suo quasi personale servizio segreto, ma a sua volta spiato dal Sifar che riferiva a Moro, Tambroni non aveva né le intenzioni né la stoffa per portare alle estreme conseguenze l’avventura autoritaria. Allo stesso modo l’allora leader del Msi, Arturo Michelini, mancava di statura per inserirsi in quel gioco rischioso. La stessa storiografia di destra (a cominciare dal saggio di Adalberto Baldoni, Due volte Genova, Vallecchi, 2004) appare piuttosto tiepida, se non dubbiosa, rispetto all’ipotesi che se la sommossa di Genova non avesse impedito quel congresso, il Msi avrebbe anticipato il processo di costituzionalizzazione del neofascismo compiuto da Gianfranco Fini con An tra il 1993 e il 1995.
Vero è che la storia non si fa con i se. Fra gli angosciosi presentimenti di Moro, gli arguti ricordi andreottiani e la rapinosa abilità di Fanfani ce n’è abbastanza perché Genova resti nella memoria collettiva, con la sua energia anche gloriosa, ma anche, come succede, con le sue ambiguità.

fonte: www.lavocedifiore.org


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