martedì 24 maggio 2016

Fanelli: il maratoneta del Sud




di Gianni Lannes

Aveva la corsa nel cuore: era un puledro indomabile. Ecco una leggenda ignota dello sport italiano, sepolta nell’oblio del profondo mezzogiorno d’Italia. Correva a piedi nudi nel secolo scorso: olimpionico a Los Angeles nel 1932. Un campione puro, di livello internazionale, ma sconosciuto perché inviso al regime fascista. Questa è la storia di un uomo libero, che non ha mai abbassato la testa, che non si è mai rassegnato alla dittatura.



Nel 1932 vinse la maratona di Torino. Nel 1934, dopo essersi aggiudicato il titolo nazionale di maratona rifiutò di stringere la mano al dittatore Mussolini, e fu imprigionato. Aveva talento naturale, ma era povero, proveniva dal basso, da una famiglia di contadini, per giunta comunisti. Si spense nel 1989, dimenticato dalla sua terra natia. Ora se chiedi in giro, tutti ignorano il suo nome. Certo, in un remoto passato, in loco si sono limitati ad intitolargli un campo sportivo, e nulla più. Insomma, poco e niente.

Era nato ad Orta Nova, in Puglia, il 14 settembre 1907: un paese agricolo dove aveva lavorato da bambino sotto schiavitù padronale, Peppino Di Vittorio, e dove alcuni giovani ortesi (Luigi Benedetto, Paolo Coletta, Giuseppe Norscia), militari che dopo l’8 settembre nona derirono al nazifascismo e alla stregua di altri 710 mila commilitoni, furono deportati dai nazisti e morirono nei lager di Germania. Oggi è un borgo sotto il tallone della mafiosità organizzata, dove addirittura il podestà in carica, dopo aver cacciato i migranti, vuole offuscare piazza Nenni con "piazza delle foibe". Una cittadina in evidente agonia, dove nella biblioteca comunale, per volontà di un ras locale ormai in declino politicamente avanzato, fa bella mostra l’opera omnia del duce. Ma questa è un’altra storia torbida in un territorio omertoso, dove solo la Caritas animata da don Giacomo Cirulli, aiuta i "poveri" e gli "ultimi, dove la gente comune (soprattutto i giovani e le donne) muore di cancro un giorno si e l'altro pure, senza distinzioni d'età e di classe sociale, a causa dell'inquinamento provocato dalle attività ecomafiose impunite (interramento di rifiuti industriali del nord). 
Ai suoi tempi il compagno Fanelli non aveva allenatori, volava a piedi scalzi sulla nuda terra, quando la fame era nera. Michele era un fuscello di energia, ma soprattutto di resistenza: 166 centimetri d’altezza per 56 chilogrammi di peso. Il fascismo all’epoca aveva bisogno di questo rude campione naturale senza trucchi e senza inganni, per l’avventura a cinque cerchi al di là dell’Oceano. Il viaggio per raggiungere gli Stati Uniti d’America era davvero una magica avventura. Gli azzurri (non c’erano donne in gara) solcarono in nave l’oceano Atlantico per due settimane e passa. Nel libro ormai introvabile di Ugo Frigerio (scovato casualmente alla biblioteca provinciale di Foggia, ormai in fase di dismissione dalla Regione dell'illuminato Emiliano dopo la legge Delrio), intitolato Marciando nel nome d’Italia, a pagina 222, si legge: «Sono cento-otto gli azzurri che il giorno due luglio s’imbarcano a Napoli sul transatlantico “Conte Biancamano”… la notizia del tempo impiegato dal maratoneta Wright a vincere nei campionati inglesi valse a elettrizzare il nostro Fanelli, il quale, già persuaso da un grande spirito di combattività, alla nuova del successo riportato da Wright non sapeva più qual mezzo escogitare per mantenere in piena efficienza i suoi muscoli».

Dopo una breve sosta a New York, gli atleti in treno attraversarono il continente nordamericano per giungere la California. Gara epica, quella della maratona. La maglietta era ovviamente, azzurra, ma calzava le scarpette fatte a mano da Nicola il calzolaio di Orta Nova. Trentadue gli iscritti in rappresentanza di 18 Paesi, 27 gli atleti in gara. Alla partenza l’argentino Juan Carlos Zabala, 20 anni, si piazzò fulmineamente al comando. Occorreva macinare due giri e mezzo dello stadio prima di uscire sul percorso. Michele Fanelli aveva 25 primavere e non ci stava. Per lui era una specie di affronto. Al secondo giro di pista era primo, a fare l’andatura tra gli applausi del pubblico festante. I maratoneti lasciarono così il Memorial Coliseum. E le immagini che sono giunte ai giorni nostri regalano manciate di emozioni tricolori, nonostante il bianco e nero. Dal resoconto sportivo della gara al primo controllo Fanelli aveva 100 metri di ritardo sui primi due atleti. Al secondo controllo i metri di distacco divennero 200, ma l’Ortese era comunque in testa al gruppo dei nove inseguitori. Al traguardo arrivò 13°, nel tempo di 2 ore 49 minuti e 9 secondi. Oro e record per l’argentino Zabala (2h31’36”).   

Michele Fanelli partì in testa, ma non dosò le energie. In Italia criticarono la sua strategia di corsa. Sul quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno del 9 agosto 1932 (pagina 4), era scritto: «Nella maratona l’Italia aveva in gara Roccati e il pugliese Fanelli. Roccati si è ritirato al 30esimo chilometro mentre Fanelli, malgrado la sua combattività, non ha potuto che classificarsi 13, pur registrando un ottimo tempo». Il filmati dell’epoca attestano che dopo una partenza strepitosa, fu costretto ad accontentarsi di un piazzamento più che modesto per un atleta del suo valore. Così, testardo, Michele preparò la rivincita dimostrando a tutti che Los Angeles era stato un incidente di percorso. Due mesi dopo, infatti, ad ottobre del 1932, c’era un altro appuntamento con la storia. Si disputava l’edizione numero 13 della maratona internazionale di Torino, la più antica d’Italia, valida anche per l’assegnazione dello scudetto tricolore. Erano presenti allora tutti i rivali delle Olimpiadi, tranne l’argentino Zabala (il vincitore). Fanelli non era tra i favoriti. Questa volta non partì in testa. Rimontò posizione dopo posizione. Al chilometro 32andò in scena l’apoteosi narrata dalla cronaca del tempo: «Il piccolo Fanelli raggiunge l’ultimo avversario con una serie di lunghi balzi elastici e leggeri, lo supera e procede indisturbato verso la vittoria. Corre in mutandine, già stanco, forse esausto, sorretto soltanto dalla volontà di non essere secondo. Il piccolo atleta appare dal sottopassaggio del Velodromo e un po’ barcollando, mentre un grave e autorevole signore gli si mette al fianco, correndo con lui, incitandolo nell’ultimo giro, correndo anche lui affannato e raggiante».

Fanelli vinse con il tempo di 2h31’36”. Ma rimase sempre una testa calda. Rifiutò la M che il Duce in persona consegnava di persona ai campioni italiani. Nel 1934 vinse il titolo italiano di maratona. A Roma conquistò i primati nazionali delle 20 miglia (1h55’31”) e delle 2 ore (km 33,370). Poco dopo, stabilì il record mondiale delle 25 miglia, ossia dei 40 chilometri (2h26’10”). Per 4 lustri il bracciante di Orta Nova divenne il protagonista delle corse italiane. Nel 1941 arrivò la miglior prestazione personale sulla maratona con 2h33’30”. Nel 1942, nella lista dei tempi, era accreditato della 13ª prestazione al mondo (2h46’32”). Tornò ad Orta Nova il 6 maggio del 1942. Allora l'atletica leggera non faceva guadagnare quattrini.

Finita la guerra l’amministrazione comunale di Foggia, non quella ortese, si ricordò delle sue imprese sportive. Diventò per qualche anno custode dello stadio di calcio Zaccheria. Poi Fanelli il 10 febbraio 1954, sfamare i suoi cari, emigrò a Torino con la famiglia e la valigia di cartone, accompagnato da sua moglie Antonia Pennella, sposata nel 1930, e dai suoi figli. Chiuse gli occhi il 31 dicembre 1989.

post scriptum

di Lino Di Gianni

Mio nonno, si chiamava Michele
Mio nonno, era figlio
di contadini molto poveri
Mio nonno, correva
Mio nonno, era comunista

Correva scalzo, chilometri
e chilometri, attorno
Alla campagna di Orta Nova,
in provincia di Foggia

Correva con le scarpette
fatte a mano dal calzolaio
del paese, alle maratone
alle Olimpiadi di Los Angeles
del 1932

Quando c’era il passaggio del duce
nelle vicinanze, per precauzione
lo mettevano in galera, come testa calda

In gioventù andò in America,
e sua moglie lo fece tornare, dopo due anni
dicendogli che la figlia prediletta, mia mamma,
era gravemente malata

In vecchiaia, andava ancora a piedi
alla fabbrica, 16 chilometri ad andare
16 a tornare

E’ morto con un buco nel piede, mal curato
aveva consumato le suole correndo
da uomo libero
Per le strade del mondo, senza soldi
senza trucchi di medicine,
con le scarpette fatte a mano
dal calzolaio del paese
La sua città natale gli ha dedicato
lo stadio del paese, a Orta Nova
Commosso io, nipote, ringrazio

 riferimenti:

X Olympiade Committe, Track and Field Athletics — Men, in Official Report of the Olympic Games, Los Angeles, 1933, pp. 377-460;





fonte: https://sulatestagiannilannes.blogspot.it

la bicicletta verde



Wadjda è un film del 2012 scritto e diretto da Haifaa Al-Mansour.

Trama

Arabia Saudita. Wadjda, una bambina molto sveglia, spigliata e talvolta irriverente nei confronti del conformismo religioso, ama divertirsi usando di nascosto la bicicletta del suo amico Abdullah. I due decidono di sfidarsi tra loro, ma c'è un problema: Wadjda non ha una bicicletta. Un giorno sulla strada per la scuola vede una bicicletta verde, nuova, ancora avvolta nel cellophane, trasportata sul tetto di una macchina. La segue fino ad arrivare nei pressi di un emporio in cui sarà messa in vendita; è allora che si pone l'obiettivo di comprarla. Chiede al proprietario, donandogli una compilation di canzoni su musicassetta a suggello della richiesta, di tenergliela da parte finché non avrà raccolto gli 800 riyal necessari per acquistarla.

Da quel giorno non perde occasione per mettere da parte piccole somme, vendendo braccialetti da lei stessa intrecciati e facendo piccoli favori alle compagne di scuola. Sua madre, così come i professori, trova sconveniente che Wadjda acquisti la bicicletta, ma ha altro di cui preoccuparsi. Lei è infatti sterile sin da quando nacque Wadjda, e suo marito le ha reso nota l'intenzione di sposarsi con una seconda moglie per poter dare finalmente alla luce un figlio maschio. La donna tenta quindi, mostrandosi disponibile e sensuale, di dissuadere il marito.

Nel frattempo, la scuola frequentata da Wadjda annuncia la gara annuale di conoscenza del Corano, il cui vincitore si aggiudicherà 1000 riyal. La bambina non si lascia sfuggire l'occasione e, lungi da qualunque motivazione spirituale, intraprende dure sessioni di studio con l'obiettivo di ottenere il denaro col quale comprare la bicicletta. La sua determinazione fa sì che, non senza grande impegno da parte sua, Wadjda raggiunga il primo posto al concorso. Al momento dei ringraziamenti, la preside le chiede a quale spesa destinerà i soldi, e la bambina confessa ingenuamente di voler comprare una bicicletta. L'intero pubblico è indignato dalle sue parole e la preside le nega di ottenere il premio, devolvendo in beneficenza alla causa palestinese i 1000 riyal.

Wadjda si è dovuta sottomettere alla chiusa mentalità del suo Paese, e sua madre ha fallito nel tentativo di rimanere l'unica donna dell'uomo che ama. Ma il finale del film mostra un barlume di speranza: la sera del matrimonio, Wadjda riceve in regalo da sua madre la bicicletta verde cui aspirava, che nel contesto assurge a simbolo di ribellione. Le donne devono quindi sostenersi e collaborare per ottenere la giusta considerazione all'interno di una società fondamentalmente classista e maschilista.

fonte: Wikipedia

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domenica 22 maggio 2016

Prince



DOCUMENTARIO

io veggo

io veggo laggiù lampeggiare officine diaboliche chiomate di boa fumiferi, io veggo un silurificio che ti fabbrica il siluro del futuro

l'ultima foto con Boccioni in versione dandy, elegante e in posa, è stata la giusta chiusura di un bel percorso espositivo.
sarà l'uomo in posa o quello dell'autoritratto a rappresentarlo meglio? l'uno appartiene all'immagine e all'apparenza,  il secondo interpreta l'anima, dice altro oltre l'immagine.
la sigaretta in mano con le gambe accavallate, quell'aria mondana, non la ritrovo nell'autoritratto, quello sfregio bianco, quella specie di cicatrice sul volto, sono segni, solchi, turbamenti.


è stato interessante scoprire la progressione dello studio e della passione di Boccioni per la pittura e per l'immagine grazie alla raccolta dei suoi diari e dei suoi disegni preparatori, il suo atlante, un album di raccolta di lavori, personali e non, riferimenti culturali, quadri e artisti di suo interesse.


la prima parte della sua produzione proveniva dai classici e dalla contemporaneità, impressionismo e divisionismo, simbolismo, gli piaceva Previati, anche Segantini.












l'incontro con il futurismo è stato fulminante, un cambiamento repentino del suo stile si è imposto alla sua pittura. "i pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti, Noi porremo lo spettatore al centro del quadro". abbandonata "la schifosa mangiatoia che è il passato", non più "minati dalla carie ataviche del passato", ecco il Futurismo "silurificio che ti fabbrica il siluro del futuro", "un omaggio d'onde d'Elettricità, di Cavalli di Velocità" (inno a Marinetti, Cangiullo).
Evviva!!!

negli ultimi quadri, poco prima di morire, giovane, per una caduta da cavallo, vede il ritorno a un'immagine più figurativa, all'attenzione per i dettagli, alla lezione di Cezanne, un altro mutamento lo aspettava.

 
Sintesi plastica di figura seduta (Silvia), 1915.

poi il nulla, poi la morte, 34 anni, 1916.
c'è la madre, sempre la madre, sua modella sopra ogni altra, quale legame, quale simbiosi, quale ossessione,ritratta in ogni fase artistica della sua vita, una costante immutabile, ma dove c'è l'arte a cura del male, possiamo solo essere grati all'uomo di essere complesso e alla ricerca di una risposta alla propria domanda. e quel che raccolgo è che la domanda di Boccioni era ancora aperta, non aveva trovato una risposta, una collocazione, un termine. il futurismo non aveva concluso il suo percorso, altro lo aspettava, altro cercava, altro indagava. altro avrebbe voluto dipingere per placare quel suo mistero interiore.

UMBERTO BOCCIONI (1882-1916): GENIO E MEMORIA

Palazzo Reale, Milano
dal 23.03.2016 al 10.07.2016
fonte: https://nuovateoria.blogspot.it

lunedì 16 maggio 2016

il volo del pellicano, i Rosacroce sono ancora tra noi?

Vuoi vedere che gli antichi la sapevano molto più lunga di noi, riguardo ai misteri dell’universo? «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia», fa dire Shakespeare in “Amleto”. Già, Shakespeare: un inglese ben strano, così addentro alle cose italiane da ambientare alla perfezione, nel Belpaese, i suoi maggiori capolavori, da “Romeo e Giulietta” al “Mercante di Venezia”. Ci sfugge qualcosa, sull’identità del “vero” Shakespeare? Proprio l’Italia del Rinascimento, infatti, fu la culla di grandi artisti che utilizzarono letteratura e pittura per veicolare messaggi segreti attraverso codici cifrati. Un antico sapere, risalente alla notte dei tempi. Tutto comincia migliaia di anni prima con un certo Melchisedek, il biblico “re di giustizia” che ha la facoltà di autorizzare Abramo ad esercitare il potere terreno sul suo popolo. Secondo Mauro Biglino, Melchisedek era un Elohim, come lo stesso Yahwè; per l’interpretazione esoterico-simbolica, invece, era una personalità “a diretto contatto col divino”, emblema vivente della perduta regalità, fondata su una speciale conoscenza gelosamente custodita, nei millenni, dalla cosiddetta Radix Davidis, la Stirpe di Giuda il cui destino è prefigurato nella pagina della Genesi su cui, ancora oggi, giurano i presidenti degli Stati Uniti.
Dall’evangelico Giuseppe d’Arimatea fino al genio visionario di Salvador Dalì, passando per Alarico il re dei Goti, Dante Alighieri e Giordano Bruno, Bach e Cartesio, Leonardo e Giorgione: una “confraternita del sapere”, che si sarebbe poi chiamata Giorgione– anche – Rosacroce, nome col quale, all’inizio del ‘600, firmò un manifesto che chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni. Melchisedek è anche il nome dell’editore che oggi pubblica “Il volo del pellicano”, l’originalissimo romanzo che Gianfranco Carpeoro, ex avvocato e giornalista, già “sovrano gran maestro” della massoneria indipendente di rito scozzese nonché appassionato studioso di linguaggi simbolici, ha dedicato al mistero dei Rosacroce. La tesi: molti simboli rappresentano la porta di un mondo che ci sfugge, al quale abbiamo accesso soltanto nella dimensione del sogno, che però – ha sostenuto l’autore in una recente presentazione milanese – al nostro risveglio non possiamo ricordare, perché ci manca il linguaggio adatto, dal momento che il sogno è il reame degli archetipi, dove “parla” il mondo preesistente, da cui proveniamo.
L’archetipo rivive proprio nel simbolo, un’astrazione concepita per veicolare un messaggio e trasportarlo, intatto, attraverso i secoli. Frastornati dal pensiero magico-manipolatorio del potere (religione, economiapolitica), in realtà siamo circondati da simboli che ci “parlano”, se solo li sapessimo “leggere”. E’ quello che scopre Giulio Cortesi, il protagonista del romanzo che già nel titolo richiama il pellicano, uccello-simbolo della militanza rosacrociana, raffigurato anche in una delle ultime apparizioni pubbliche di una rockstar come Freddy Mercury, leader dei Queen. Il libro di Carpeoro è un avvincente thriller “alchemico-esoterico” che si svolge su due livelli, due binari separati che corrono parallelamente verso la verità di un mondo che è davanti ai nostri occhi, se solo ce ne accorgessimo. Vi inciampa, letteralmente, il grafico quarantenne Cortesi, disoccupato e con la passione per la cucina: sospettato di omicidio, si trova per caso coinvolto in un’insolita ricerca. «Un’avventura intellettuale tra antichi simboli e opere d’arte, che lo porterà a scoprire i segreti dei Rosacroce, gli iniziati alla fratellanza, attraverso i personaggi storici che, nei secoli, hanno costruito il destino della Stirpe di David», scrive lo stesso Carpeoro sul suo sito.
Punto di partenza, l’opera di Giorgione: quale segreto si nasconde dietro la vera identità del grande pittore, la sua breve esistenza e le sue opere misteriose? E poi Giordano Bruno: cosa lo spinge a Wittenberg qualche anno prima della sua morte? E quale incontro, ad Ulm, cambierà la vita del filosofo e matematico Cartesio? E ancora: perché il protestante Silesio andò a Padova, prima di convertirsi al cattolicesimo? E cosa lo collega alle terzine del Pellegrino Cherubico e ai quadri di Giorgione? Lo stesso pittore è stranamente collegato anche al principe Sangro di Sansevero (a proposito: chi fu veramente Cagliostro?). E poi: che mistero si cela dietro la storia della famiglia Bach? E dove finirono le spoglie di Mozart? Gli enigmi si prolungano fino al ‘900, intrecciando indizi che coinvolgono il musicista Eric Satie, il “vate” Gabriele D’Annunzio, il francese Jean Coucteau e lo stesso Dalì, ultimo “Ormùs” (gran maestro) della segretissima confraternita, che prima di morire trasmise un fondamentale segreto: a chi? Tessere di un mosaico, verso il quale Cortesi viene guidato da svariate figure, tra cui un paio di professori torinesi, che lo spingono alla scoperta delle opere di Giordano Bruno e fra’ Luca Pacioli, il precettore di Leonardo, e poi Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, lo stesso Cagliostro.
Giulio Cortesi fa amicizia con altri due personaggi singolari: l’anziano architetto Quinto Ammonio Solfo, membro di una loggia massonica e raffinato intellettuale, e fra’ Tommasino di Chiaravalle, al secolo Tommaso Sale, un anziano mistico. «Entrambi – racconta Carpeoro – daranno a Giulio utilissime indicazioni sulla pista da seguire per addentrarsi nei misteri dei Rosa+Croce». Altri indizi gli vengono forniti in sogno da Cecilia, la fanciulla amata dal Giorgione, morta di peste a Venezia nel 1511. «A questo punto il protagonista ha varcato la soglia di un mondo che non conosceva, è proiettato in una dimensione spirituale che lo porta a una comprensione diversa e più profonda della realtà». Chiarito l’arcano dell’omicidio, Giulio proseguirà nelle sue ricerche e arriverà alla conclusione che anche Giorgione aveva appartenuto alla fratellanza dei Rosacroce. Studiando le opere di iniziati e maestri, «emergerà la verità sulla stirpe di David e sulla discendenza della famiglia in cui nacque Cristo». Giulio Cortesi scoprirà che la confraternita fondata dall’apostolo Giacomo (e da Giuseppe d’Arimatea) ha lo scopo di «conservare e diffondere il Sang Real, la stirpe di David, dalla tribù di Giuda, e accogliere anche tutti gli eletti, uomini e donne d’ogni censo e razza, che pur non avendo legami di sangue con la stirpe reale, sono stati e saranno iniziati per tramandare di maestro in maestro l’antica conoscenza».
«Tutti gli interrogativi posti potrebbero trovare una risposta tra le righe del romanzo», scrive Carpeoro. «Ricomponendo le tesserine del mosaico si potrebbe trovare l’origine biblica dei Rosa+Croce della nostra bandiera tricolore o, analogamente, degli Stati Uniti d’America». Alcune risposte, però, «sono scritte con l’inchiostro simpatico», e quindi «solo il calore della grande passione per il simbolismo le farà magicamente apparire». E il finale è a sorpresa: sarà la persona più insospettabile a portare Giulio a conoscere una nobildonna austriaca, astrologa e seguace di Rudolf Steiner, che passerà le consegne della confraternita. «L’incontro con l’anziana astrologa condurrà Giulio a conoscere il nome degli ultimi due maestri Rosa+Croce ancora in vita, e lo lascerà con un interrogativo: ci sarà in futuro ancora qualcuno che possa divenire un maestro?». Ovvero, a tramandare la “segreta conoscenza” custodita nei millenni, le cui prime tracce risalgono alla comparsa di Melchisedek nel racconto biblico?
(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il volo del pellicano”, Melchisedek editore, 512 pagine, 26 euro – 22,10 su Macrolibrarsi. Su Border Nights web radio, la presentazione all’abbazia di Chiaravalle a Milano).

fonte: www.libreidee.org

le ricamatrici



è un film del 2004 diretto da Éléonore Faucher, presentato alla Settimana Internazionale della Critica del 57º Festival di Cannes.

Trama

Claire ha diciassette anni e quando scopre di essere incinta di cinque mesi, decide di partorire in gran segreto, convinta di dare suo figlio in adozione. Trova rifugio dalla signora Melikian, una ricamatrice che lavora per l'alta moda. Giorno per giorno, man mano che la pancia di Claire cresce, fra le due donne si instaura un rapporto madre-figlia.

fonte: Wikipedia

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domenica 17 aprile 2016

l'inutile retorica del "tutto va a gonfie vele": l'Italia è al capolinea

Quanto ci vuole a dire una sciocchezza? A quanto pare molto poco. Quanto ci vuole ad evidenziare che era una sciocchezza? Poco più di molto poco. Problema: le sciocchezze richiedono brevi catene di ragionamento, mentre invece la dimostrazione che fosse una sciocchezza richiede lunghe catene di ragionamento. La maggior parte delle persone non riesce a seguire le lunghe catene di ragionamento. Questo vuol dire che colui che ha intenzione di dimostrare che qualcuno abbia detto una sciocchezza, sarà ulteriormente messo in difficoltà da una scarsa attenzione dimostrata dal pubblico. Di conseguenza molto spesso colui che dice una sciocchezza riesce a farla franca. Peggio, la sua sciocchezza diventa la base per costruire una nuove serie di tesi altrettanto sciocche. Alla fine, fortunatamente, il mucchio di sciocchezze crolla sotto il proprio peso, ma coloro che c'hanno creduto, nel frattempo, debbono fare i conti con la propria ingenuità e con quanto hanno perso.

Inutile dire che in Italia abbiamo chi le spara grosse. Il "nostro" presidente del consiglio riesce a farla franca con la sua retorica perché si basa sulle sciocchezze e su brevi catene di ragionamento. Ottiene l'attenzione. Gioca sul fatto che l'elettore medio non si prenderà la briga di controllare e vagliare quanto detto. Molto spesso neanche i media mainstream lo fanno. Quindi tocca farlo alla stampa indipendente. Per il momento, infatti, il "nostro" presidente del consiglio ha potuto tranquillamente seppellire l'etere sotto una caterva di proposizioni inesatte e fantasiose, perché la BCE sta guardando le spalle ai malati d'Europa. Nello specifico, ha scatenato nei mercati una gigantesca offerta d'acquisto per il pattume obbligazionario statale, la quale ha indotto investitori istituzionali e non ad accaparrare titoli di stato facendo front-running al "whatever it takes" di Draghi.

Questa mossa ha abbattuto i rendimenti delle obbligazioni statali, permettendo agli stati europei, e soprattutto all'Italia, di prendere una boccata d'aria dalla grave crisi iniziata con la Grecia nel 2010. Ovviamente questa strategia è totalmente artificiale e non ha assolutamente niente a che fare con mercati liberi e onesti. Sebbene Draghi continui a chiedere che gli stati "facciano le riforme", non accade nulla di tutto ciò perché l'unica cosa che il QE comporta, è un maggiore azzardo morale, una determinazione dei prezzi falsificata e un rischio mal prezzato. Di conseguenza il "nostro" presidente del consiglio sta facendo la voce grossa a livello europeo affinché venga approvato un deficit maggiore per l'Italia, solo in virtù della manna monetaria alimentata da Draghi.

Infatti se non fosse per l'effetto temporaneo del QE, l'Italia avrebbe dovuto operare una vera spending review e non avrebbe potuto scatenare la rapacità del fisco. Non solo, ma avrebbe soprattutto dovuto contenere il proprio deficit affinché gli investitori esteri comprassero il suo debito. Nessuno avrebbe potuto incolpare i bond vigilantes di un presunto complotto, perché le evidenze sarebbero state sotto gli occhi di tutti. Infatti di fronte ad una levata di scudi come quella riportata da questo articolo di Bloomberg, dove i vari funzionari pubblici italiani si sentono oltraggiati dalle richieste tedesche, quale credibilità avrebbe potuto avere a livello finanziario un paese che si rifiuta di constatare la fragilità dei propri conti pubblici? Per non parlare dei bilanci colabrodo delle grandi banche commerciali. Gli addetti ai lavori continuano a spacciare la favoletta dei CDS come metodo per tenere d'occhio le performance e la solidità di una banca. Nel caso di Unicredit e MPS, ad esempio, notiamo che nell'ultimo anno l'andamento dei CDS è stato pressoché piatto, sono schiazzati in alto all'inizio dell'anno e poi sono ritornati alla media degli ultimi 12 mesi non appena lo zio Mario ha sparato il nuovo bazooka.

Cosa vuol dire? Vuol dire che i fondamentali di mercato sono disconnessi dalla realtà. Vuol dire che affidarsi ai CDS per "prevedere" un presunto malanno in realtà bancarie come quelle citate, equivale a chiudere il cancello della fattoria una volta che gli animali sono scappati. Fare affidamento su questi strumenti per cercare di prevedere i malanni economici significa bendarsi gli occhi e affidarsi agli azzardi dei casinò. Gli addetti del settore non comprendono questo fatto perché si limitano a guardare i grafici sui monitor senza avere uno straccio di teoria a supporto. Anzi, li basterebbe leggere qualche articoletto sul web nei confronti di Monte dei Paschi e Unicredit per farsi un'idea dell'immensa cantonata che prendono quando consigliano ai propri clienti di fidarsi d'istituti bancari come quelli citati. Addirittura ritengono che siano tra i più solidi! Stiamo parlando, ad esempio, di una realtà come quella di Unicredit che si accinge a licenziare circa 10,000 dipendenti secondo un recente articolo di Bloomberg.

A questo bisogna aggiungere la politica della NIRP che continua a scatenare una fame di rendimenti decenti tra le realtà finanziarie e bancarie, per le quali un bilancio in pareggio equivale ad un bilancio in perdita. I margini di profitto negli ambienti azionari e obbligazionari verranno utlteriormente limati, costituendo un mal prezzamento incendiario del rischio e del debito.


Visto che il canale della trasmissione della politica monetaria alla gente comune e alle piccole/medie imprese è rotto, il denaro di nuova creazione continuerà ad essere riciclato nel casinò azionario fino a quando i rendimenti diventeranno così minuscoli da essere insignificanti. Allora tutto il pattume tradato a livelli sotto lo zero, visto che ormai ci sono in circolazione circa $7,000 miliardi in bond sovrani con rendimenti negativi, esploderà in faccia a tutti coloro che hanno gozzovigliato con la manna monetaria delle banche centrali. Nel frattempo ulteriori risorse economiche verranno risucchiate da quelle attività che beneficiano della manna monetaria, rendendo il percorso di deleveraging di Main Street ancor più doloroso. E questo rappresenta un doppio smacco per le attività aiutate artificialmente dalla manna monetaria delle banche centrali, perché oltre a veder erosi i margini di profitti nelle bische clandestine, dovranno fare i conti con un ambiente economico distorto che impedisce una corretta allocazione delle risorse economiche verso quelle attività economicamente sostenibili. Questo significa fallimenti e bancarotte, che a loro volta si ripercuoteranno sui bilanci bancari. Questo vuol dire sofferenze sui bilanci bancari in continua ascesa.


I robo-trader, gli imbonitori sell-side nel casinò e gli addetti ai lavori nel settore bancario inebriati dalla retorica keynesiana, non vedono arrivare nulla di tutto ciò. Per ben due volte in questo secolo non l'hanno visto arrivare.

Quindi, no, non esiste alcun "mega-complotto" contro l'Italia da parte della Germania, ma solo l'ingenua e sterile speranza (ovviamente per ragioni economiche legate fondamentalmente ai saldi Target2) di quest'ultima di voler cambiare un paese prossimo alla bancarotta ufficiale. E quando parlo di "bancarotta del paese" non sto esagerando. Come definireste un paese che continua a prendere in prestito denaro e a spenderlo in progetti improduttivi? Nonostante tutte le chiacchiere sulla fantomatica riduzione della spesa pubblica, quest'ultima continua a rimanere a livelli da record a circa €830 miliardi. Non solo, a questo dobbiamo aggiungerci l'assurda pressione fiscale italiana reale che si attesta ormai al 70%. Insomma, gli italiani lavorano praticamente per lo stato. Dov'è la creatività? Dov'è l'innovazione? Si pensa di uscire da una stagnazione secolare costruendo cattedrali nel deserto come il ponte sullo stretto? Se la storia è una guida, Hoover ci provò con la sua diga e fallì. Invece la retorica delle sciocchezze ancora attecchisce tra gli elettori. La loro pigrizia nel voler seguire lunghe catene di ragionamento li costerà caro: sia in termini pecuniari sia in termini di libertà e privacy.

Voglio dire, vi basta considerare quanto sia diventata ingerente la burocrazia. Pensate alla follia delle ingiunzioni di pagamento, dove il malcapitato di turno deve prima pagare e poi dimostrare la veridicità di quanto affermato dallo stato. Pensate a quanto ci vuole ad aprire un'attività. Ma la vera propaganda nel nostro paese non tanto sono le proiezioni stimate del PIL utilizzate dal governo per costruire castelli in aria, che poi si schiantano a terra quando escono i numeri reali. Infatti bisogna ricordare ai lettori disattenti che i numeri dell'Istat vengono rivisti costantemente una volta usciti. Se poi la politica sfrutta i dati grezzi per mostrare all'elettorato il presunto successo del suo governo, non bisogna gridare allo scandalo una volta uscite le rettifiche. La balla esisteva già da prima, utilizzando cifre temporanee come base per la gestione dei conti pubblici. Questa è pura e semplice cialtronaggine. Non c'è bisogno di soffermarsi più di tanto sul tira e molla con i dati Istat, i quali vengono segnalati dal "nostro" presidente del consiglio qualora positivi o vengono soprasseduti qualora negativi.

Gente, il vero inganno è la cosiddetta caccia all'evasore. La scusa principe per aizzare i contribuenti gli uni contro gli altri, sviando l'attenzione dalla rapacità dello stato. Infatti non si stanno affatto "recuperando" fondi dall'evasione fiscale, poiché con gli strumenti repressivi in mano allo stato ci sono poche vie di fuga, è il costante aumento della pressione fiscale, delle contribuzioni e la costante riduzione delle detrazioni che ha permesso allo stato italiano d'incamerare più risorse dalla popolazione. E che cosa ha fatto? Ha speso di più.

La giustificazione dell'evasore, quindi, serve al "nostro" presidente del consiglio e ai suoi sicofanti per continuare a tenere una mano ben ferma nel portafoglio degli italiani e un piede ben saldo sulla loro testa. E questa è solo una metà dell'intera storia. Infatti la metà più interessante la ritroviamo nelle chiacchiere sul lavoro. La ripresa economica di cui vanno blaterando i media mainstream e i politici è solo nei numeri, non nella realtà. Soprattutto in un'economia in cui il lavoro è stato tagliato e sminuzzato e poi diviso tra impiegati in call center, fattorini, camerieri, montatori di palcoscenici, ecc. Questi lavori non offrono affatto retribuzioni da capofamiglia, quelle che permettono agli individui di comprare casa e costruire una famiglia.

Infatti se guardiamo i dati riguardanti l'impiego a temo indeterminato, noteremo un trend nettamente al di sotto della propaganda del "nostro" presidente del consiglio, il quale si sta pavoneggiando nei suoi comizi a botte di striscioni pro-Jobs Act. No, i politici non sono affatto in grado di creare posti di lavoro. Non hanno gli strumenti adatti nelle loro mani per fare impresa. Non sono in grado d'effettuare un calcolo economico in accordo con le forze di mercato.