sabato 30 marzo 2013

lessico dei tempi feroci



I politici della Prima Repubblica. Erano incomprensibili. Il linguaggio era fatto apposta per non essere compreso. Se non da loro. Al loro interno. Messaggi cifrati. Obliqui. Paralleli. I cittadini, d'altronde, non se ne occupavano troppo. I discorsi politici e dei politici: non li interessavano. Tuttavia, la società non era estranea al contesto politico. "Con-testo", appunto. Un "testo" condiviso. Perché la politica è rappresentanza e rappresentazione. I "rappresentanti" riflettono la società e la società vi si riflette. Almeno in parte. E il linguaggio ne era lo specchio. Così, le persone parlavano in modo "educato". In pubblico. Le parolacce non erano ammesse. Quando scappavano, il responsabile veniva guardato con un sorriso tirato, di riprovazione. Sui giornali e sui media, poi, guai. Quel "Cazzo!", pronunciato sapientemente da Zavattini, nel 1976, fece rumore. Anzi, fragore. Mentre quando Benigni in tv, ospite della Carrà, recitò tutti i sinonimi della "passerottina" (dalla chitarrina alla vulva...), sollevò grandi risate, ma molto meno clamore. Era il 1991. Il muro di Berlino era caduto. E stava travolgendo anche il sistema politico italiano. Seppellendo, insieme alla Prima Repubblica, una civiltà formalista e un po' ipocrita. Dove il distacco tra società e politica era riprodotto dall'impossibilità di comprendere quel che avveniva "in alto". I politici non erano apprezzati né, tanto meno, stimati. Anche prima di Tangentopoli. Venivano considerati disonesti. Inattendibili. Disinteressati ai problemi della "gente comune". Eppure non ci si faceva troppo caso. Tutti votavano sempre. Allo stesso modo.

Certo, negli anni Settanta i movimenti sociali portarono in piazza slogan violenti. Ma si trattava di metodi di lotta. Il linguaggio era usato come strumento "politico". Non "antipolitico". Perché, comunque, la "politica" e la "classe politica" contavano. Il loro "potere" era riconosciuto.

Oggi, anzi, da almeno vent'anni: la scena è cambiata. I politici sono impopolari come prima, più di prima. Ma nessuno si fa scrupolo a dirlo. Neppure i politici. I quali si fanno schifo e se lo dichiarano reciprocamente. Non c'è nessuno, d'altronde, che sia disposto ad ammetterlo. Di essere un politico. Neppure i dirigenti di partito, i parlamentari, i senatori. Tutti im-politici. Il vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici: si è rotto. Certamente, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio. L'alto e il basso. Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli "eletti" fingono di essere come il "popolo". Per imitare il "volgo" cercano di essere "volgari". E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio.

Fra i rappresentanti e i rappresentati, è un gioco di specchi infinito. Così l'esibizione di chi "ce l'ha duro" si alterna al grido di "Forza gnocca". Mentre si sviluppano relazioni internazionali tra "Cavalieri arrapati" e "Culone inchiavabili". Di recente, infine, nelle piazze, nei palazzi e sui media echeggiano i "vaffanculo", ripetuti all'infinito. Da chi rifiuta di dialogare con i "morti-che-parlano-e-camminano". Con i "padri puttanieri della Patria". Che sono già morti. E, comunque, "devono morire". Il più presto possibile. Per cambiare davvero il Paese.
È il clima del tempo. Il linguaggio del tempo. (Ben riassunto nel Dizionario della Seconda Repubblica, scritto da Lorenzo Pregliasco e di prossima pubblicazione per gli Editori Riuniti). Contamina tutto e tutti. Anche gli artisti più gentili. Perfino lui, l'Artista a cui mi rivolgevo nei momenti più concitati. Quando vivevo "strani giorni". Mi rassicurava, sussurrando: "avrò cura di te". Anche lui, divenuto "politico", descrive il Parlamento come un luogo affollato di "troie disposte a tutto".

E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D'altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti.

Perché mai, allora, io - proprio io - dovrei essere l'ultimo "coglione" rimasto in circolazione? L'unico a trattare tutti, ma proprio tutti, con rispetto? Anche coloro che non rispetto?

Così mi arrendo. Al clima e al linguaggio del tempo. E, per chiudere, rilancio un elegante adagio raccolto al Bar da Braun: "Andate tutti a-fare-inculo. Voi e la vostra politica del cazzo".

Appunto a margine.
Ho svolto il filo del discorso sul rapporto - degenerato - fra linguaggio, politica e società cercando di essere coerente. Fino in fondo. Eppure, questo linguaggio mi dà fastidio. Scrivere così, a maggior ragione, mi dà (e io mi do) fastidio. Non lo farò mai più.
 E se le parole servono a "rappresentare" la realtà, se il linguaggio è rappresentanza, io, oggi, non mi sento rappresentato. In questa "Repubblica a parole" (o meglio: "a parolacce"), mi dichiaro prigioniero politico. In questi tempi cattivi, sempre più feroci, mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

fonte: www.repubblica.it

venerdì 29 marzo 2013

Inps al collasso. Addio pensioni



Una azienda con un patrimonio di 41 miliardi che nel giro di un paio d'anni ne avesse persi così tanti da farlo scendere a soli 15, verrebbe considerata sana oppure oppure desterebbe se non altro l'interesse di andarne a capire il motivo? E ancora di più: nel caso in cui questa "azienda" fosse di importanza fondamentale non solo per i suoi azionisti ma per l'intero Paese del quale fa parte, sarebbe il caso, a livello informativo, di dare risalto alla notizia e di farla entrare nel dibattito pubblico?
Le risposte sono scontate, ma le domande servono a introdurre l'argomento. Perché lo Stato del quale parliamo è l'Italia, e l'"azienda" con questi conti disastrati si chiama Inps.
L'istituto di previdenza, infatti, aveva a inizio 2011 un patrimonio di 41 miliardi, come detto, il quale si è ridotto a soli 15 in 24 mesi. Ma è a livello tendenziale che le cose peggiorano e destano ancora più preoccupazione.
Ci sono due elementi importanti da tenere in considerazione più un terzo che è addirittura determinante.
Inpdap profondo rosso
Il primo, motivo principale di questo calo del patrimonio, è relativo alla fusione recente di Inpdap e Inps, cioè il fatto che il sistema pensionistico del settore pubblico sia stato fatto confluire all'interno di quello del settore privato (operazione datata appunto 2012). La fusione di questi due enti era stata prevista trionfalmente, comunicando che, per via dei tagli alle spese che tale operazione avrebbe comportato si sarebbero risparmiate alcune centinaia di milioni di euro. Cosa puntualmente ancora non verificata, visto che sia la prevista gestione unica degli immobili dei due enti sia la razionalizzazione del personale è ancora di là dal venire.
Nel frattempo, però, questo matrimonio ha portato in dote al sistema pensionistico del settore privato oltre 10 miliardi di rosso, contribuendo ad affossare ancora di più le riserve originarie dell'Inps conteggiate a fine 2011.
Lo Stato moroso
Il secondo dato allarmante contiene una riflessione interessante, visto che, come si dice, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si prende. Dunque, il grande buco dell'Inpdap - che, ribadiamo, era l'ente pensionistico dei dipendenti del settore pubblico - dipende direttamente da un elemento chiave: le pubbliche amministrazioni, da tempo e in modo diffuso, non stanno pagando del tutto i contributi pensionistici dovuti dei propri dipendenti. Si tratta di una somma stimata in circa 30 miliardi, che grava ovviamente sul bilancio già fortemente compromesso dello Stato ma che, attenzione, non è ancora stato messo agli atti, visto che proprio mediante la fusione con l'Inps è stato, per il momento, occultato.
Ora, già il fatto che le amministrazioni pubbliche non stiano versando tutti i contributi dei dipendenti, cioè che lo Stato sia moroso verso se stesso e i suoi dipendenti, è cosa che dovrebbe chiarire da sola la situazione generale. Ma che ora - ed eccoci alla riflessione poco ortodossa accennata poc'anzi - vi sia stata questa misura di accorpamento tra Inpdap e Inps fa venire più di qualche dubbio. È come se - meglio: è - lo Stato avesse scelto di prendere un proprio ente in forte deficit (nel quale da una parte doveva far confluire alcune proprie spese, cioè i contributi dei dipendenti, e dall'altra far uscire altre spese, cioè l'erogazione delle pensioni) e lo avesse inserito, come un cavallo di troia malefico, nell'altro ente (l'Inps) in cui sono i privati a far confluire i propri contributi per unire il tutto in un calderone, prossimo al collasso, sul quale far gravare un fallimento complessivo. Tra un po', in altre parole, siccome l'Inps, con il patrimonio così drasticamente intaccato e con i conti tendenziali in rosso, non potrà più erogare le pensioni, si prenderà atto della cosa dimenticandosi che buona parte di questo scenario catastrofico dipende proprio dai mancati versamenti del settore pubblico.
Baby boomers all'incasso (forse)
Il terzo elemento, anche in questo caso assente dal dibattito e dalle analisi attuali, risiede nella constatazione che proprio in questi anni, e per il prossimo quinquennio, c'è una enorme fetta del Paese a dover andare in pensione. Si tratta della generazione dei baby boomers. Di quelli, per intenderci, che negli anni Settanta tentarono la "rivoluzione" più celebrata che concreta. E che, "una volta al potere", al posto delle rivoluzioni si sono invece premurati di mettere al riparo i propri meri interessi. Oggi, in età pensionistica, appunto, sono in procinto di passare all'incasso. Se questa massa di persone fosse messa in grado di andare dritta in pensione così come giustamente previsto, l'Inps crollerebbe in modo definitivo nel giro di qualche anno appena. Ribadiamo, infatti, che già a fine 2013 il bilancio complessivo dell'Inps è atteso a poco oltre 15 miliardi. Dai 41 di fine 2011.
Non solo: tutte le operazioni relative al sistema pensionistico degli ultimi anni a questo punto possono - e devono - essere interpretate alla luce dei dati che ora stanno venendo fuori, ma che evidentemente già anni addietro erano ben presenti all'interno degli ambienti politici. Nel luglio del 2010, sul Mensile, pubblicammo questo articolo: "In Pensione a 100 anni". Oggi bisogna aggiornarlo. Il tentativo neanche troppo velato, almeno per chi voglia accorgersene, è quello di evitare proprio che persone possano andare in pensione. Il che si applica facendole lavorare il più a lungo possibile, spostando sempre in là la data in cui sarà possibile andare in pensione. Con questo si otterrà il risultato di aver fatto lavorare tutta la vita le persone, facendogli versare montagne di contributi, sino al punto in cui avranno davanti ancora pochissimi anni, una volta andate in pensione, per avere indietro dallo Stato solo una piccola parte di quanto versato. Sempre che non muoiano prima sulla scrivania del proprio posto di lavoro.
I giovani sono completamente fuori
Parallelamente, il fatto che così tante persone non possano lasciare il posto di lavoro sino di fatto alla vecchiaia comporta anche l'assoluta mancanza di turnover, e dunque pochissimo accesso dei giovani al mondo del lavoro. Come stiamo puntualmente verificando. Questi, già penalizzati dalle riforme Fornero sul lavoro che hanno aumentato le già elevate sperequazioni precedenti, tra contratti da fame a 500 euro al mese e senza alcuna possibilità di accedere a un posto di lavoro degno di questo nome, in ogni caso, ora e domani, non saranno comunque in grado di versare contributi in quantità bastante a pagare le pensioni di chi, via via, in ritardo e alla fine, comunque (per ora: almeno secondo le norme attuali) in pensione poco alla volta ci sta andando. 
Il tutto, naturalmente, contribuisce a peggiorare il quadro già disastroso dell'Inps.
Dobbiamo a questo punto necessariamente correggerci. A destare preoccupazione sono le cose incerte. Mentre qui si può tranquillamente parlare di una certezza: l'Inps sta finendo nel buco nero statale e dunque le pensioni non potranno essere più erogate a breve. Molto a breve, a meno di stravolgimenti sistemici (uscita dall'Euro e ripresa della sovranità monetaria, ad esempio) che per ora comunque non sono all'orizzonte. Il che apre scenari non preoccupanti, ma terrorizzanti. Nel silenzio generale di chi sa ma non vuole far sapere.
Valerio Lo Monaco
fonte: www.ilribelle.com

giovedì 21 marzo 2013

ciao Pietro


MORTO A 60 ANNI IL VELOCISTA AZZURRO, PER ANNI HA DETENUTO IL RECORD DEL MONDO

Addio a Pietro Mennea, il re dei 200

Da tempo lottava contro un male incurabile

Pietro Mennea primo al traguardo nella finale olimpica di Mosca '80Pietro Mennea primo al traguardo nella finale olimpica di Mosca '80
È morto in una clinica di Roma, all'età di 60 anni, Pietro Mennea, ex velocista azzurro, campione olimpico a Mosca 1980 e per 17 anni detentore del record del mondo dei 200 metri. Da tempo lottava contro un male incurabile.
LA CAMERA ARDENTE - Appresa la notizia della morte del campione, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, è rientrato precipitosamente da Milano, dove si trovava per impegni di lavoro. Il numero 1 dello sport italiano ha disposto l'allestimento della camera ardente per giovedì pomeriggio, nella sede del Coni, a Roma. Mennea è stato primatista del mondo dei 200 metri dal 1979 al 1996, con il 19''72 fatto segnare durante le Universiadi a Città del Messico. In una recente intervista al Corriere del Mezzogiorno aveva tracciato un bilancio sulla sua vita.
fonte: www.corriere.it

lunedì 18 marzo 2013

sabato 16 marzo 2013

Favia: il metodo Casaleggio come quello di Berlusconi



Fino a qualche mese fa Parma lo accoglieva con gli applausi e l’entusiasmo con cui aveva salutato la vittoria del sindaco Federico Pizzarotti. Ora invece ad ascoltare Giovanni Favia c’è solo una ventina di persone. Non sono però solo i cittadini ad avere voltato le spalle all’ex esponente delMovimento 5 stelle, a fianco di Pizzarotti e dei suoi fin dai tempi delle prime battaglie comuni e poi delle campagne elettorali. Il consigliere regionale lo ammette con amarezza: “A parte casi isolati, dopo la mia espulsione, da Parma non ho più sentito nessuno”.
Dalla sua uscita dal Movimento fino ad oggi di cose ne sono successe: la candidatura al fianco diAntonio Ingroia, la sconfitta di Rivoluzione Civile e l’ascesa del Movimento di Grillo a cui il consigliere regionale, che era considerato l’enfant prodige dei Cinque stelle, alla fine non ha potuto partecipare. Dopo il ritorno in Regione, l’ultimo annuncio dopo la scelta, praticamente obbligata, di passare al gruppo misto, è quello delle dimissioni, anche se le tempistiche sono ancora incerte. “Mi dimetterò da consigliere perché i gruppi locali mi hanno voltato le spalle e così è impossibile lavorare sul territorio”.
Del Movimento però Favia continua a parlare, alternando a un’analisi lucida del fenomeno considerazioni sulla propria esperienza personale come ex rappresentante. Nel dialogo con Daniela Gaudenzi organizzato da Liberacittadinanza, il consigliere commenta l’esito delle elezioni e sul futuro del Movimento lancia la sua previsione: “Dopo Parma, prenderanno tutte le città perché arriveranno secondi ai ballottaggi e raccoglieranno i consensi degli elettori. Ci sono le condizioni sociali e politiche a loro favore, l’Italia si sta preparando a una fase in cui saranno i Cinque stelle a governare”.
Un successo che secondo Favia non è casuale, ma calcolato secondo una precisa strategia di marketing messa in piedi da Gianroberto Casaleggio (“che lo fa di lavoro”) e da Beppe Grillo, “il più grande testimonial con cui veicolare messaggi, per creare una perfetta macchina del consenso”. Favia paragona il metodo a quello utilizzato a suo tempo da Silvio Berlusconi: “Berlusconi ha applicato le regole del marketing aziendale alla politica, Casaleggio ha piegato la politica alle regole del marketing virale che si sviluppa grazie alla Rete”.
L’ex Cinque stelle però non usa mezzi termini per definire “i padroni del Movimento, che non accettano critiche”. Se per Favia “la democrazia è la criptonite di Casaleggio”, sulla propria espulsione come caso di linciaggio mediatico, il consigliere non risparmia dure critiche a Grillo: “il caso è stato montato da lui attraverso il suo blog, a Grillo non interessa se una persona come me, che ha lottato per il Movimento, viene schiacciata nella propria dignità. Ha dimostrato di fregarsene dei valori e del rispetto delle persone”. Torna la critica alla mancanza di democrazia interna, dove a dettar legge è la struttura di vertice rappresentata dal binomio Grillo-Casaleggio, ma di dubbi Favia ne solleva anche sul Movimento in sé (“non fa ridere che la sede del primo partito italiano sia un sito con annunci commerciali, in cui si vendono libri”), e perfino sui neoeletti in Parlamento: “sono persone scelte con un sistema di voti non ancora chiaro, sulla base di video caricati su Youtube”.
Nella sua analisi però c’è anche la constatazione che ora i Cinque stelle a Roma stanno creando uno staff che lavorerà a tempo pieno con i parlamentari per portare proposte al Governo. “La strategia ha funzionato, mentre Rivoluzione civile ha fatto una rivoluzione troppo civile ed è stata schiacciata dallo Tsunami tour, anche grazie allo spazio che gli hanno dato i media – conclude – Ho capito che non ce l’avremmo fatta quando ho visto le televisioni seguire in diretta la prima tappa da Firenze”.
fonte: www.ilfattoquotidiano.it

martedì 12 marzo 2013

Sofia


FIRENZE. Sofia, la bambina di tre anni affetta da una gravissima malattia degenerativa, potrà continuare le cure con le cellule staminali, ma in un laboratorio autorizzato dall'Aifa (l'agenzia italiana del farmaco) e non a Brescia dove aveva ricevuto una prima infusione di cellule staminali nel novembre 2012. Lo ha assicurato il ministro della Salute, Renato Balduzzi, al termine di un incontro, durato tre ore, con
i genitori della bambina, i dirigenti del ministero e i massimi esperti di farmaci e cellule staminali. Alla bimba un giudice di Firenze aveva negato la cura compassionevole, l'unica disponibile, a base di cellule staminali mentre in altre città, ha raccontato la madre Caterina Ceccuti ad alcuni quotidiani nelle pagine locali, altri giudici l'hanno accordata ad altri bambini nella condizione di Sofia.
Il caso della piccola Sofia era stato rilanciato ieri da Adriano Celentano sullo stesso quotidiano, e proprio con il Molleggiato Balduzzi apre una piccola polemica, ipotizzando che «forse non era a conoscenza di tutta la vicenda». «La vicenda -ha affermato Balduzzi - non è come l'ha raccontata Celentano. Io ho solo rispettato le regole, la legalità. Non ci sono ostacoli burocratici, ma una costante attenzione da parte del ministero dalla validazione scientifica di certe terapia e di ciò che bisogna fare affinchè un metodo possa diventare una cura standard».
Balduzzi poi ricorda che «non è il ministero a decidere se una terapia deve essere interrotta oppure no: nei mesi scorsi l'Aifa ha effettuato accertamenti e ispezioni, mentre la magistratura ha aperto alcune inchieste sul caso della 'Stamina Foundation'», che è appunto quella il cui protocollo è contestato dal ministero della Salute e dall'Aifa. E i risultati dell'indagini dell'Aifa hanno detto che «il trattamento al quale era sottoposta Sofia era dannoso per la sua salute. Per questo la cura è stata interrotta».
Il ministro però ribadisce che «il caso di Sofia è importante, ha delle peculiarità che dobbiamo valutare con grande attenzione». Tra una settimana, conclude, «ne riparlerò con i genitori della piccola. Intanto la bambina potrà proseguire le cure con le staminali in un laboratorio autorizzato dell'Aifa»
fonte: iltirreno.gelocal.it

Curzio Maltese dice la sua



La democrazia della rete, la regola uno vale uno, la volontà dei cittadini, per Curzio Maltese, che lo scrive su Repubblica,
“sono tutte balle, nuova retorica, in realtà vecchissima, per sdoganare un altro partito padronale all’italiana, dove conta quello che decidono Grillo e Casaleggio, emettendo di tanto in tanto il comunicato numero 56 o 57 ai fedeli”.
La polemica lanciata da Maltese in un articolo provocatorio, quanto giusto, fin dal titolo, “Beppe, permette una domanda?”, rischia di essere dirompente per quella parte di sinistra che avendo riservato a Berlusconi l’empireo del male, non ha più dove collocare altri mali, da Mario Monti, uno dei peggiori capi di Governo dalla fine della monarchia, a Beppe Grillo, che intanto appare sempre più la voce delle idee di Gianroberto Casaleggio. Proprio nella costellazione di Repubblica ci sono vari intellettuali che non solo simpatizzano per Beppe Grillo, ma hanno anche avuto o hanno a che fare con lui.
I dubbi che attorno a Beppe Grillo non sia tutto oro la fede democratica tanto proclamata vengono a Maltese da questa domanda: perché Beppe Grillo
“non consulta la sua base sull’ eventuale alleanza col centrosinistra?”.
Beppe Grillo, così ragiona Curzio Maltese, vuole un referendum on-line per decidere s l’Italia resterà o uscirà dall’ euro dell’Italia e poi non chiede
“alla base degli elettori M5S, con un referendum, se vogliono o non vogliono allearsi per pochi mesi con il Pd allo scopo di approvare in Parlamento qualche urgente riforma, peraltro contenuta nei loro programmi?
dunque, che cosa aspettano? In questi giorni non si parla d’altro che di questo, fra italiani. Quelli che hanno votato Grillo e quelli che hanno votato centrosinistra o centrodestra.
La domanda è una sola: che faranno adesso Grillo e Casaleggio?
Ma perché Grillo? Perché Casaleggio? Non sono i leader, contano come qualsiasi altro, non si sono neppure fatti eleggere.
Il movimento 5 Stelle è nato per tornare a far contare i semplici cittadini, per restituire loro il potere decisionale usurpato dall’orrida partitocrazia.
Quindi, di fronte alla prima importante scelta del movimento, dovrebbe essere naturale ricorrere alla consultazione on-line della base. Così come si è fatto per le parlamentarie. Se si è deciso in questo modo chi doveva andare in Parlamento, non si capisce perché non si debba sottoporre ai cittadini le prime scelte degli eletti.
Ma qual è il mandato? Chi lo stabilisce, Grillo o gli elettori stessi? Come fa Grillo a sapere, senza consultare nessuno, che gli elettori non vogliono l’alleanza col centrosinistra?
Chi scrive ha naturalmente una risposta prevenuta su tutto questo. Grillo e Casaleggio non lanciano la proposta di consultare la base del movimento sull’alleanza col centrosinistra perché, semplicemente, perderebbero. Due elettori del M5S su tre, forse di più, sono favorevoli a un accordo a termine per portare a casa qualche risultato immediato.
Ripeto: Grillo e Casaleggio perderebbero. Quindi la consultazione non si fa, non se ne parla nemmeno.

Come la pensano davvero i fedeli, e magari anche gli eletti, non conta un accidente.
Ma questa è la versione prevenuta di un giornalista mascalzone, servo dei partiti che stranamente ha passato la vita a criticare. Quindi non vale.
Sarebbe più interessante conoscere a questo punto la verità, dai soli detentori di verità autorizzati, i leader, pardon: i portavoce del Movimento.
Qualcuno vuole rispondere a questa banale domanda: perché non vogliono fare un referendum on-line sulla proposta di governo del Pd? La domanda è rivolta a Grillo e Casaleggio, in primis. Che non risponderanno, perché sono troppo furbi per farlo, come lo era Berlusconi.
E questo a Curzio Maltese proprio non va giù. Ma come, Beppe Grillo dice
“Sì al referendum sull’ euro, no al referendum sull’alleanza col centrosinistra. Qual è il problema? Le masse sono mature per scegliere se uscire dall’Europa, ma non abbastanza da decidere se accettare gli otto punti del Pd?”

fonte: www.blog-news.it

venerdì 8 marzo 2013

ricordiamo


RICORDIAMO IL VERO MOTIVO PER CUI SI FESTEGGIA L'8 MARZO

Il pomeriggio del 25 marzo 1911, un incendio che iniziò all'ottavo piano della Shirtwaist Company uccise 146 operai di entrambi i sessi. La maggioranza di essi erano giovani donne italiane o ebree dell’Europa orientale. Poiché la fabbrica occupava gli ultimi tre piani di un palazzo di dieci piani, 62 delle vittime morirono nel tentativo disperato di salvarsi lanciandosi dalle finestre dello stabile non essendoci altra via d'uscita.
I proprietari della fabbrica, Max Blanck e Isaac Harris, che al momento dell'incendio si trovavano al decimo piano e che tenevano chiuse a chiave le operaie per paura che rubassero o facessero troppe pause, si misero in salvo e lasciarono morire le donne. Il processo che seguì li assolse e l’assicurazione pagò loro 445 dollari per ogni operaia morta: il risarcimento alle famiglie fu di 75 dollari.
Migliaia di persone presero parte ai funerali delle operaie.