venerdì 26 febbraio 2016

I Love Radio Rock



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« In onda. Fuori dai confini. Fuori controllo. »

(tag-line del film)

The Boat That Rocked è un film del 2009 scritto e diretto da Richard Curtis.

La pellicola è dedicata al fenomeno delle radio pirata inglesi degli anni sessanta, ispirandosi in particolare alla vicenda di Radio Caroline. Il film è uscito nelle sale del Regno Unito il 1º aprile 2009, mentre in Italia è stato distribuito da Universal Pictures il 12 giugno 2009.

Trama

Regno Unito, 1966. Nonostante il Paese sia nel pieno della Swinging London, BBC Radio trasmette appena tre quarti d'ora di musica leggera al giorno, deludendo le aspettative degli ascoltatori, soprattutto i più giovani, i quali sopperiscono a questa mancanza sintonizzandosi sulle tante radio pirata che trasmettono illegalmente i successi pop e rock del tempo. In questo contesto, l'adolescente Carl viene fatto imbarcare dalla madre Charlotte – apparentemente per punizione – su Radio Rock, una nave ancorata nel mare del Nord e trasformata in una stazione pirata attiva ventiquattr'ore al giorno.

L'emittente è gestita dal suo padrino Quentin, che lo introduce a bordo e lo presenta a tutti i deejay: "Il Conte", l'allegro Simon, "Dottor" Dave, l'affascinante e misterioso "Midnight" Mark e il taciturno "Tessitore dell'Alba" Bob. Sulla nave Carl fa le prime esperienze sessuali con Marianne, la bella nipote di Quentin, partecipa alla vita in mare fatta prevalentemente di svago e divertimento, e intuisce il vero motivo della sua presenza su Radio Rock, ovvero che lì potrebbe esserci il padre che non ha mai conosciuto. Intanto le giornate proseguono, con Quentin che si districa tra problemi legali, visite di fan (soprattutto femminili) e la crescente rivalità fra "Il Conte" e il nuovo collega Gavin, star appena tornata in patria dopo il successo ottenuto oltreoceano.

Nel frattempo il ministro Sir Alistair Dormandy, uomo ottuso e decisamente all'antica, affida al segretario Pirlott l'incarico di ostacolare in tutti i modi le trasmissioni delle stazioni pirata, in particolar modo di Radio Rock, iniziando una vera e propria crociata personale. Sempre alla ricerca di cavilli burocratici a cui appellarsi per far chiudere l'emittente, dapprima i due tentano di bloccarne i finanziamenti da parte degli inserzionisti pubblicitari, e successivamente riescono a ottenere l'attuazione del Marine Broadcasting Offences Act, che dichiara le navi-radio illegali poiché a rischio di occupare le frequenze di soccorso.

Ormai fuorilegge a tutti gli effetti, i membri dell'imbarcazione decidono di sfidare comunque il governo e proseguono imperterriti le trasmissioni, per la gioia dei loro fan. L'unico sistema per continuare a trasmettere senza venire arrestati è però quello di disancorare l'imbarcazione e salpare: questa versa però in pessime condizioni, tali da impedirle di reggere il mare, e presto inizia a imbarcare acqua. Dalle loro frequenze i deejay lanciano un SOS, sperando che qualcuno li salvi da una morte ormai certa. Pirlott vorrebbe rispondere alla richiesta di aiuto, ma Dormandy è irremovibile e lo costringe a desistere. Proprio quando la nave sta per affondare e tutti credono di essere perduti, Simon scorge decine di barche, tutte di fan che hanno ascoltato il loro messaggio e che stanno arrivando a salvarli.

Colonna sonora

Il film può essere considerato una dichiarazione d'amore per la musica rock. Tutta la pellicola infatti è accompagnata da diverse canzoni, principalmente di gruppi musicali anni sessanta, tra i quali figurano anche i Beach Boys, i Kinks e gli Who. Non inclusi nella colonna sonora, ma presenti nel film, sono i brani strumentali Per qualche dollaro in più, La resa dei conti, Vizio di uccidere e Addio colonnello di Ennio Morricone, tratti dalla pellicola Per qualche dollaro in più, e Let's Spend the Night Together e Jumpin' Jack Flash dei Rolling Stones.

Album

La colonna sonora del film, intitolata The Boat That Rocked, è stata pubblicata da Mercury nel 2009.

Tracce

Disco 1

Stay with Me Baby - Duffy - 3:52

All Day and All of the Night - The Kinks - 2:23

Elenore - The Turtles - 2:30

Judy in Disguise (With Glasses) - John Fred and His Playboy Band - 2:52

Dancing in the Street - Martha Reeves and the Vandellas - 2:36

Wouldn't It Be Nice - The Beach Boys - 2:23

Ooo Baby Baby - Smokey Robinson - 2:45

This Guy's in Love with You - Herb Alpert & The Tijuana Brass - 4:01

Crimson and Clover - Tommy James & The Shondells - 5:24

Hi Ho Silver Lining - Jeff Beck - 2:53

I Can See for Miles - The Who - 4:07

With a Girl Like You - The Troggs - 2:07

The Letter - The Box Tops - 1:54

I'm Alive - The Hollies - 2:25

Yesterday Man - Chris Andrews - 2:32

I've Been a Bad Bad Boy - Paul Jones - 2:20

Silence Is Golden - The Tremeloes - 3:09

The End of the World - Skeeter Davis - 2:39

Disco 2

Friday on My Mind - The Easybeats - 2:53

My Generation - The Who - 3:19

I Feel Free - Cream - 2:54

The Wind Cries Mary - Jimi Hendrix - 3:21

A Whiter Shade of Pale - Procol Harum - 4:00

These Arms of Mine - Otis Redding - 2:33

Cleo's Mood - Jr. Walker & The All Stars - 2:42

The Happening - The Supremes - 2:50

She'd Rather Be with Me - The Turtles - 2:21

98.6 - The Bystanders - 3:19

Sunny Afternoon - The Kinks - 3:34

Father and Son - Cat Stevens - 3:42

Nights in White Satin - The Moody Blues - 4:26

You Don't Have to Say You Love Me - Dusty Springfield - 2:49

Stay with Me Baby - Lorraine Ellison - 3:33

Hang On Sloopy - The McCoys - 3:52

This Old Heart of Mine (Is Weak for You) - The Isley Brothers - 2:51

Let's Dance - David Bowie - 4:06

Doppiaggio italiano

Nella versione originale il personaggio interpretato da Jack Davenport si chiama Dominic Twatt, storpiatura del termine "twat" che in lingua inglese indica, volgarmente, la vagina. Nell'impossibilità di rendere in lingua italiana tale calembour, nella versione destinata al pubblico italofono il doppiaggio ha cambiato il cognome in Pirlott, con evidente assonanza al termine dialettale "pirla".

fonte: Wikipedia


Giorgio Napolitano raccontato dal suo ex amico Colajanni


Napoleone Colajanni ex amico ed ex compagno di partito lo descrive così
“… è un uomo vile e un cane da grembo”. Che fosse pure un cane da riporto degli USA e il loro Governatore di fiducia per la colonia Italia non avevamo dubbi; che fosse un personaggio assolutamente privo di coscienza e umanità l’ha dimostrato coinvolgendo l’Italia nel massacro libico; che fosse un bugiardo compulsivo e manipolatore è ovvio a chiunque ascolti i suoi discorsi vani ed ipocriti che trasudano menzogna ad ogni sillaba, soprattutto quando si riempe la bocca con parole come Patria, Libertà, e Costituzione, mentre è il primo a farne strame, considerando che ha appena consegnato, grazie ad un colpo di Stato (eterodiretto naturalmente), il Paese nelle mani dei suoi referenti della massoneria finanziaria planetaria del Bilderberg Group.
Napolitano rappresenta il peggio della nazione elevato al quadrato, è una nullità tronfia e roboante, come uomo è un miserabile vigliacco e codardo, un servo sciocco, senza un briciolo di dignità”.



Questo video non è stato mai trasmesso in Italia ,forse Papa Bergoglio vuole vederlo così continuerà a fare i complimenti a questo grande uomo.





fonte: alfredodecclesia.blogspot.it

martedì 16 febbraio 2016

questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo

Ascolto il tuo cuore, città.
Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo. Mi ossessiona un bisogno costante di conoscenza della sua fisicità, un bisogno di rileggere di nuovo i tratti, le parti nascoste, ma anche i luoghi noti e le sembianze più conosciute. 
così si intitola la mostra su Gabriele Basilico all'UniCredit Pavillion di Milano.
già solo questa scelta mi sembra calzarmi a pennello.
e infatti, così è.
perfetto il titolo, perfetta la mostra, accompagnata anche da alcuni incontri a tema, due sono anche riuscita ad ascoltarli.
Basilico è fulminante. anche se non all'istante. strano, fulminante ma non subito. Basilico l'ho capito osservandolo, piano piano, anche conoscendolo, tramite le letture su di lui, i suoi appunti, le conferenze sul suo modo di lavorare.
ora lo guardo, tramite le sue foto, e comprendo il suo talento, coltivato con un lavoro e uno studio meticolosissimo. fare il fotografo non è mica andare in giro con la canon, santo cielo no, è un lavoro, un lavoro serio, un'applicazione, uno studio, una riflessione, una filosofia. un'attesa.
chissà quanto attendeva Basilico. ore, anche giorni. 
foto senza umani, nemmeno uno,  senza macchine, luce del primo mattino. 
la sua foto è matematica, geometrica, perfetta.

Il compito del fotografo è di lavorare sulla distanza, di prendere le misure, di trovare un equilibrio tra un qui e un là, di riordinare lo spazio, di cercare infine un senso possibile del luogo.

Basilico era un architetto, e si vede, Basilico fotografa lo spazio come dimensione del vivere umano.
Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta e penso che la fotografia sia stata, e continui forse a essere, uno strumento sensibile e particolarmente efficace per registrarlo. Fotografare la città non vuol dire scegliere le migliori architetture e isolarle dal contesto per valorizzare la loro dimensione estetica, compositiva, ma vuol dire per me esattamente il contrario. Cioè mettere sullo stesso piano l’architettura ‘colta’ e l’architettura ‘ordinaria’, costruire un luogo della convivenza, perché la città vera, la città che mi interessa raccontare, contiene questa mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia, anche nella più recente ricomposizione dei ruoli: una visione dello spazio urbano che, con un po’ di retorica, una volta avremmo definito democratica. Coltivo l’illusione e la speranza che la disponibilità a osservare e ad accettare la condizione urbana contemporanea delle nostre città possa essere un buon punto di partenza per immaginare una città e un futuro migliori.

sono straordinarie le sue foto delle città, non diciamo quanto lo siano quelle di MILANO.
la città con le sue cattedrali, intese come punti di sintesi urbana, di monumentalità cittadina, luoghi in cui la città sale in cattedra e parla di sé. cattedrale punto di incontro, città reale, città mentale.
Quello che mi interessa è l’umanità dell’architettura. È un paradosso: fotografo l’architettura, lo spazio, il paesaggio urbano senza le persone, ma penso che le mie fotografie siano profondamente dedicate all’umanità del luogo che è stato costruito da persone che non si vedono.



c'è un'estrazione del luogo dal contesto, c'è solo un luogo, e quel luogo diventa tutto, diventa storia, progetto, costruzione, vite umane, diventa città, luogo sociale, condivisione, centro e periferia. Basilico celebra i luoghi, diventano santuari, e dico tutti i luoghi, assolutamente tutti.

le sue foto le riconosco, ormai, il suo stile, lo leggo.
foto di città, come Beirut,



come le città del nord



Quei luoghi nord Europa, con il mare burrascoso, i cieli profondi, le nubi pesanti, con la pioggia insistente, il vento, il sole e la luce che cambiava continuamente, mi hanno spalancato una porta verso una nuova, grandiosa visione del paesaggio. ... Ho scoperto “la lentezza dello sguardo”. ...C’è un’immagine che racconta perfettamente queste sensazioni e queste percezioni, ed è un paesaggio di Le Tréport che ho fotografato nel 1985. Nella mia esperienza sul campo è stato un passaggio senz’altro importante, direi persino cruciale. Penso che dopo quella ripresa fotografica in quel luogo, in quel momento, molte cose siano cambiate, e in particolare il mio rapporto con il paesaggio. In quella fotografia c’è un processo di sintesi massima, è una fotografia ideale perché rimanda al luogo nella sua interezza e globalità.

ritratti di fabbriche
colte prima della trasformazione, prima che divenissero archeologia industriale.
ritratti che ricordano De Chirico, Sironi, Boccioni, la città con i suoi volti, le sue ossa, la sua struttura, il suo corpo.
attesa, metafisica, condizione permanente dell'abitare.



Per la prima volta ho visto le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso, grazie al quale la visione consueta delle forme diventava improvvisamente inusuale. Ho saputo vedere cosi, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento perpetuo quotidiano, senza le auto in sosta, senza persone, senza suoni e rumori. Ho visto l’architettura riproporsi nella sua essenza, filtrata dalla luce, in modo sorprendentemente scenografico e monumentale.

fotografia. né arte, né  pittura, ma atto di conoscenza, atto come scelta di sguardo.
Gabriele Basilico, la tua città ti ha perduto.

fonte: nuovateoria.blogspot.it

il favoloso mondo di Amélie



Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain è un film scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet ed interpretato da Audrey Tautou e Mathieu Kassovitz. Il film venne distribuito nelle sale cinematografiche francesi il 25 aprile 2001 e arrivò in quelle italiane il 25 gennaio dell'anno successivo.

Trama

A Parigi la giovane Amélie lavora come cameriera in un bar di Montmartre, il "Café des 2 Moulins", e la sua vita trascorre serena tra una visita all'anziano padre vedovo e alcuni piacevoli passatempi (spezzare la crosta della Crème brûlée col cucchiaino, far rimbalzare i sassi sul Canal Saint-Martin, immergere le dita nei legumi, ecc.) che riempiono la sua quotidianità.

Il giorno in cui muore la principessa Diana trova per caso una scatoletta dietro una piastrella di un muro del suo appartamento. Con grande stupore la apre, trovando al suo interno dei piccoli ricordi e giocattoli, e intuisce che molto probabilmente si tratta di una scatoletta nascosta decenni prima da un bambino che abitava nello stesso appartamento.

Amélie cerca di ottenere informazioni dalla portinaia per scoprire a chi fosse appartenuta la scatola, e dopo lunghe ricerche riesce a ottenere il nome che le serve: Dominique Bredoteau. Amélie rintraccia tutti gli abitanti di Parigi con questo nome, ma non riesce a trovare il vecchio possessore della scatoletta; quando decide di rinunciare, interviene in suo soccorso "l'uomo di vetro".

"L'uomo di vetro" è un vicino di casa di Amélie, di professione fa il pittore e deve questo soprannome a una malattia congenita: le sue ossa tendono a frantumarsi con una facilità anormale (la osteogenesi imperfetta); per questo motivo non esce quasi mai di casa e nella sua dimora tutto è imbottito per evitare di sbatterci contro.

Amélie riesce, con uno stratagemma, a riconsegnare la scatoletta al suo originario proprietario senza farsi scoprire. L'uomo ritrova i momenti della sua infanzia, ormai dimenticati da tempo. Entrando casualmente nello stesso bar frequentato da Amélie, le racconta cosa gli è accaduto, ignaro che sia lei l'artefice di ciò, aggiungendo che vorrebbe provare a ricucire i rapporti con la figlia (con cui non parla da anni) e il nipote che non ha mai visto.

Amélie rimane talmente colpita dalla reazione di Bredoteau che decide, dopo una notte insonne, di dedicare il suo tempo a "rimettere a posto le cose" che non vanno nelle vite di chi le sta vicino. Con l'aiuto di un'amica hostess fa credere al padre, che dalla morte della moglie è sempre più chiuso in sé stesso, che il suo amato nano da giardino stia girando il mondo in vacanza; alla portinaia, che ha perso il marito dopo una fuga romantica con l'amante, fa pervenire una lettera - un collage creato utilizzando pezzi di lettere originali - che sembra andata perduta nel passato, dandole così l'illusione che, prima di morire, il marito abbia disperatamente cercato di mettersi in contatto con lei; organizza dei pesanti scherzi a un crudele fruttivendolo che tormenta il suo garzone, facendogli credere di essere impazzito; riesce a far innamorare una sua collega rassegnata a una vita da single, di un geloso e ossessivo frequentatore del bar; diffonde in tutta la città le frasi dell'amico Hipolito, uno scrittore fallito cliente del "Café des 2 Moulins", recitando suoi versi al controllore del treno o scrivendoli sui muri.

Nel frattempo incontra lo sguardo di Nino, un ragazzo che per hobby colleziona fototessere mal riuscite che sono state gettate via, e Amélie se ne innamora. La seconda volta che Amélie vede il giovane raccogliere le foto, lui scatta improvvisamente all'inseguimento di un uomo, perdendo dalla motoretta una borsa con l'album con la collezione delle fototessere. Nel cercare di restituirlo all'amato Nino, Amélie è impegnata a risolvere "il mistero delle fototessere", ovvero l'immagine di un uomo che, sistematicamente e con la stessa espressione vuota, si scatta delle fototessere nelle stazioni dei treni, per poi gettarle via.

È la persona inseguita da Nino quando questi perde il suo album: si rivelerà essere solo un manutentore delle macchine delle foto, che scattava foto di prova. A causa di alcuni malintesi, Amélie, ingelosita, non vuole più essere avvicinata da Nino; sarà un messaggio in videocassetta dell'"Uomo di vetro" a farle prendere la decisione più importante della sua vita: fare del bene anche a se stessa, quindi unirsi a Nino da cui è fatalmente attratta (anche per le affinità che hanno reso in un certo senso "parallele" le complicate infanzie dei due giovani sognatori, come è spiegato dalla voce narrante fuori campo, una sorta di protagonista senza volto di quest'opera cinematografica). Alla fine riuscirà a essere felice: ha aiutato i suoi cari e ha trovato l'amore.

Produzione

Cast

Il regista ha ammesso di aver scritto il film per poter affidare il ruolo di protagonista all'attrice inglese Emily Watson; infatti, nello script originario, Amélie era una ragazza inglese. Ma l'attrice fu in difficoltà a recitare in francese, e Jeunet mise così in dubbio la sua prima scelta. Ma anche la Watson non era convinta delle proprie capacità, e quando Robert Altman le propose di girare Gosford Park accettò di buon grado, lasciando il film di Jeunet. Il regista francese riscrisse la parte per un'attrice francese in modo da non avere problemi simili e, dopo una audizione andata a buon fine, diede il ruolo alla giovane Audrey Tautou.

Riprese

Le scene di interni sono state girate ai Coloneum Studio di Colonia, in Germania, quelle in esterno in Francia, quasi tutte a Parigi. L'unica eccezione è data dalle sequenze ambientate nella casa del padre di Amélie, che furono girate nel piccolo paese di Eaubonne, nel dipartimento di Val-d'Oise, a pochi chilometri dalla capitale francese. Le stazioni ferroviarie parigine presenti nel film sono tre: la Gare de Paris Lyon, la Gare de Paris Est e la Gare de Paris Nord.

Jeunet non volle realizzare in studio il posto in cui lavorava la protagonista. Rimase colpito dal Café des 2 Moulins, e lo scelse come teatro per le riprese, andando personalmente a chiedere il permesso per ambientarvi il film. Il locale in quel periodo aveva una difficile situazione finanziaria, ma dopo l'uscita della pellicola fu preso d'assalto dai residenti e dai fan del film, e si salvò dalla chiusura. Il café esiste tuttora e si trova nel quartiere parigino di Montmartre, al numero 15 di rue Lepic, nel diciottesimo arrondissement, raggiungibile dalla fermata della metropolitana di Abbesses o quella di Blanche. La drogheria di Collignon, che si trova in Rue des Trois Frères, nei pressi del café, ha beneficiato anch'essa del successo riscosso dal film.

Collegamenti con altre opere

Nel film appare anche il quadro di Renoir La colazione dei canottieri

Nel film si trovano, sotto forma di citazione, alcuni omaggi a François Truffaut.

La prima, esplicita, è a Jules e Jim, film visto da Amélie; inoltre la voce narrante presente nella prima parte della pellicola riprende ironicamente quella utilizzata in Jules e Jim.

La seconda è più nascosta: una foto strappata e poi ricomposta segna anche il destino del protagonista de L'amore fugge.

Altre citazioni sono:

Una scena di Ladri di biciclette, quando il protagonista incrocia un gruppo di giovani sacerdoti in uscita dalla stazione.

La strategia che Amélie adotta per incontrare Nino ricalca quella seguita da Roberta Glass (Rosanna Arquette) in Cercasi Susan disperatamente di Susan Seidelman.

Nella scena in cui Amélie guarda la televisione nella sua camera, si può sentire una musica come sottofondo del programma: si tratta della traccia principale della colonna sonora di Platoon: si tratta, nella fattispecie, del celebre Adagio di Barber.

Il proprietario della scatola di giochi e ricordi di bimbo trovata nel muro abitava in Rue Mouffetard, citazione della famosa foto di Henri Cartier-Bresson che ritrae, per l'appunto, un bambino.

Colonna sonora

La colonna sonora è stata composta da Yann Tiersen ed è stata pubblicata su CD ottenendo un grande successo di vendite internazionale. In Canada vinse il disco di platino nel 2005.

J'y Suis Jamais Allé
Les Jours Tristes
La Valse D'Amelie
Comptine d'un autre été: L'Apres Midi
La Noyée
L'Autre Valse D'Amelie
Guilty
A Quai
Le Moulin
Pas Si Simple
La Valse D'Amelie
La Valse Des Vieux Os
La Dispute
Si tu n'étais pas là
Soir De Fête
La Redecouverte
Sur Le Fil
Le Banquet
La Valse D'Amelie
La Valse Des Monstres

fonte: Wikipedia

sabato 13 febbraio 2016

la crisi li uccide abbracciati

Guastalla (Reggio Emilia), 9 febbraio 2016 - Aspettano la morte abbracciati. E la morte arriva con il gas dell’auto, dentro la quale hanno trascorso quella che hanno deciso dovesse essere la loro ultima notte insieme. Ma la vera morte, per loro, era arrivata prima. Con la perdita di speranza nel poter trovare un lavoro, che entrambi cercavano da tempo, e i soldi per pagare l’affitto, le spese e far crescere la figlia di lei, adolescente.

Nel vivere una vita senza dover chiedere ogni volta soldi ai parenti che pure, raccontano, da un anno e mezzo li aiutavano. E poi avevano entrambi qualche problema di salute.

«Scusateci. Vi chiediamo perdono», hanno scritto in un sms a uno dei fratelli di lei. Paolo Galli, 39 anni, originario di Casalmaggiore (Cr), e la compagna Barbara Morellini, di 45 anni, di Guastalla, nel Reggiano – dove abitavano – hanno anche lasciato un biglietto sulla loro macchina, una Matiz grigia come tante storie di persone che cercano di arrivare a fine mese: «Quando ci trovate, avvertite i nostri parenti».

Poi la disperazione li ha uccisi. «Domenica ci avevano detto che sarebbero andati a cena dai genitori di lui, a Casalmaggiore», racconta Gianluca, uno dei fratelli di Barbara. Ma a loro non fanno visita. Invece vanno in campagna: si fermano accanto a un casolare a San Matteo delle Chiaviche, frazione di Viadana, nel Mantovano. La macchina rimane accesa, mentre il viaggio della loro vita si ferma per sempre. Ieri mattina i familiari, non vedendoli ritornare, si allarmano. E vanno dai carabinieri, che avviano le ricerche di localizzione dei cellulari. Quello di lui è spento, ma non quello di lei.

Anche i parenti si muovono, e sono i primi, verso le 11, a vedere l’auto: «Ho trovato Barbara con la testa reclinata sulla spalla di Paolo». Lui, tecnico informatico, aveva lavorato alla Visitel di Viadana fino a due anni fa. «Qui aveva conosciuto Barbara – prosegue Gianluca –. Ma lei, e anche lui, avevano perso il lavoro». Poi alla Tecnogas di Gualtieri, «nel febbraio 2015, per un due mesi: ma la ditta era in crisi e lo ha lasciato a casa». Poi alla Smeg di Guastalla, quest’estate: «Ci lavoro anch’io: era felice. Ma aveva problemi alla schiena e ha resistito solo per due giorni». Qualche giorno fa si era sottoposto a una biopsia: «Forse il risultato era stato preoccupante – confida il fratello – ma non sappiamo altro».

Lei, casalinga, cercava qualche lavoretto per arrotondare. Aveva una salute un po’ malferma, «ma non problemi gravi». Con loro, al terzo piano del condominio di via Solarolo a Guastalla, viveva la figlia 16enne nata dal precedente matrimonio di lei. La madre di Barbara e alcuni fratelli, invece, stanno al primo. «Noi li aiutavamo come potevamo», dice Gianluca affranto. Un anno fa la coppia si era rivolta al sindaco di Guastalla Camilla Verona: «Li avevo indirizzati al Centro per l’impiego, consigliando anche i servizi sociali. Poi non li ho più visti».

di ALESSANDRA CODELUPPI

http://www.ilrestodelcarlino.it/reggio-emilia/coppia-suicida-crisi-1.1718406
http://altrarealta.blogspot.it/


vedi anche

“Migliaia di denunce di cittadini contro governo per istigazione al suicidio” (video)

Istigazione al suicidio è un reato previsto dall’articolo 580 del codice penale.

Milioni di cittadini italiani sono allo stremo, senza lavoro, con debiti, uno stato che non garantisce più nulla e chiede l’impossibile minacciando di sbatterli su un marciapiede con il suo intransigente esattore privato, debole coi forti e forte coi deboli.

http://www.pazzoweb5stelle.it/migliaia-di-denunce-di-cittadini-contro-governo-per-istigazione-al-suicidio-video-fate-girare/

potevano liberare Moro, ma una telefonata fermò il blitz

Il giorno prima di morire, Aldo Moro era a un passo dalla salvezza: le forze speciali del generale Dalla Chiesa stavano per fare irruzione nel covo Br di via Montalcini, sotto controllo da settimane. Ma all’ultimo minuto i militari furono fermati da una telefonata giunta dal Viminale: abbandonare il campo e lasciare il presidente della Dc nelle mani dei suoi killer. E’ la sconvolgente rivelazione che Giovanni Ladu, brigadiere della Guardia di Finanza di stanza a Novara, ha affidato a Ferdinando Imposimato, oggi presidente onorario della Corte di Cassazione, in passato impegnato come magistrato inquirente su alcuni casi tra i più scottanti della storia italiana, compreso il sequestro Moro. Prima di passare il dossier alla Procura di Roma, che ora ha riaperto le indagini, Imposimato ha impiegato quattro anni per verificare le dichiarazioni di Ladu, interrogato nel 2010 anche dal pm romano Pietro Saviotti.
Decisive, a quanto pare, le testimonianze degli ex “gladiatori” sardi Oscar Puddu e Antonino Arconte, l’allora agente del Sismi che tempo fa rivelò di teste di cuoioaver ricevuto da Roma la richiesta di contattare in Libano i palestinesi dell’Olp per favorire la liberazione di Moro, ben 14 giorni prima che lo statista venisse effettivamente rapito. Secondo il brigadiere Ladu, all’epoca semplice militare di leva nei bersaglieri, la prigione romana di Moro, in via Montalcini 8, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane. Non solo: «L’8 maggio del 1978 – scrive  Piero Mannironi su “La Nuova Sardegna” – lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto, e il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento – continua Mannironi – la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer, tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale».
Il giudice Imposimato, ora avvocato, conobbe il super-testimone Giovanni Ladu soltanto nel 2008: «Si presentò nel suo studio all’Eur insieme a due colleghi, autorizzato dal suo comandante». Il brigadiere delle Fiamme Gialle aveva scritto un breve memoriale, nel quale sosteneva di essere stato con altri militari a Roma, in via Montalcini, per sorvegliare l’appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Dc. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l’8 maggio, alla vigilia dell’omicidio di Moro. Perché Ladu ha atteso ben trent’anni anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto – ha detto a Imposimato – ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto, ma oggiFerdinando Imposimatospero che anche altri, tra quelli che parteciparono con me all’operazione, trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro».
Ladu ha raccontato che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna per il servizio militare. Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia, vicino all’Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione: sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo, e Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l’operazione, «era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono.
Il racconto di Ladu è ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, micro-telecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti. Per mimetizzarsi, i giovani militari di leva indossavano tute dell’Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di “Baffo”, poi riconosciuto come Mario Moretti, che entrava e usciva sempre con una valigetta, o della “Miss”, Barbara Balzerani. Vestito da operaio, un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l’impianto delle telecamere all’interno della palazzina dove era detenuto Moro. Invece di premereMoro nelle mani delle Brl’interruttore della luce, il brigadiere sardo si sbagliò e suonò il campanello. Aprì la “Miss” e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell’acqua.
Un racconto agghiacciante nella sua precisione, continua il reporter della “Nuova Sardegna”. Nell’appartamento sopra la prigione di Moro erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito – ricorda – che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anche se erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montata una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un’infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti, nel blitz delle teste di cuoio, le unità speciali antiterrorismo dei carabinieri di Dalla Chiesa.
«L’8 maggio tutto era pronto – dice ancora Ladu – ma accadde l’impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell’irruzione, ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti. Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono. La nostra impressione fu che Moro doveva morire». Ladu ha raccontato di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata giunta dal ministero dell’interno. Mentre smobilitavano, un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni». Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu avrebbe riconosciuto uno degli ufficiali che coordinavano l’operazione: il Antonino Arcontegenerale Gianadelio Maletti, ex capo del controspionaggio del Sid, che i militari in quei giorni avevano soprannominato, per la sua pettinatura, “Brillantina Linetti”.
Imposimato è rimasto inizialmente perplesso e diffidente: il racconto di Ladu sconvolge tutte le esperienze investigative precedenti, ne annulla tutte le certezze e, soprattutto, pone un problema terribile: bloccando il blitz, qualcuno avrebbe quindi decretato la morte di Aldo Moro. «Per quattro anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri», aggiunge Mannironi. «Fino a quando non comparve il “gladiatore” Oscar Puddu». Grazie all’ex agente della “Gladio”, il quadro di quei giorni drammatici del 1978 è parso completarsi, trovando una nuova credibilità. Nel frattempo, lo stesso Imposimato aveva conosciuto altri ex “gladiatori” sardi, Antonino Arconte e Pierfrancesco Cancedda, e ascoltato i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro: «Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro». Arconte, in particolare, ricorda di aver personalmente consegnato, a Beirut, l’ordine di contattare l’Olp per stabilire un contatto con le Br, prima ancora del sequestro Moro. L’uomo a cui all’epoca Arconte consegnò il dispaccio, il colonnello Mario Ferraro, del Sismi, anni dopo fu trovato morto nella suaCarlo Alberto Dalla Chiesaabitazione romana, in circostanze mai chiarite.
«Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica», osserva il giornalista della “Nuova Sardegna”. «Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla». Ma perché il Sismi per una missione così delicata scelse di utilizzare quel manipolo di ragazzi inesperti? «Vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi». Inoltre, non erano soli: secondo Ladu, erano controllati dal generale Musumeci, dai suoi uomini e da 007 che parlavano inglese. Resta da capire chi avrebbe fatto quella telefonata dal Viminale che, secondo questa ricostruzione, avrebbe condannato a morte Aldo Moro. A fermare Musumeci, conclude Mannironi, potevano essere solo Cossiga, ministro dell’interno, o Andreotti, presidente del Consiglio. Secondo Oscar Puddu, il generale Dalla Chiesa insistette per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e Cossiga. «Lo convocarono a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente». Come si sa, Dalla Chiesa fu poi trasferito a Palermo, dove fu ucciso in un agguato organizzato da Cosa Nostra.

fonte: www.libreidee.org