mercoledì 30 settembre 2015

Venezia in scia tra acqua e nuvole


Cremaschi: dopo 44 anni lascio la Cgil, ha tradito i lavoratori

La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi. La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo. Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.
Nei primissimi anni ‘70 del secolo scorso a Bologna come lavoratore studente ho preso con orgoglio la mia prima tessera Cgil. Poi sono stato chiamato a Brescia per cominciare a lavorare a tempo pieno nella Fiom. Nella quale sono rimasto fino al 2012. Giorgio CremaschiHo visto cambiare il mondo, ma se tornassi indietro con la consapevolezza di oggi rifarei tutte le scelte di fondo. Scherzando penso che io ed il mondo siamo pari, io non sono riuscito a cambiarlo come volevo, ma pure lui non ce l’ha fatta con me. Quando ho cominciato a fare il “sindacalista” a tempo pieno questa parola suscitava rispetto. Io la maneggiavo con un po’ di timore. Il sindacalista era una persona giusta e disinteressata che raddrizzava i torti, era il difensore del popolo. Oggi se dici che sei un sindacalista ti vedi una strana espressione intorno, molto simile a quella che viene rivolta ai politici di professione. Sindacalista, eh? Allora sai farti gli affari tuoi…
Questo discredito del sindacato è sicuramente alimentato da una disegno del potere economico e delle sue propaggini politiche ed intellettuali. Ma è anche frutto della burocratizzazione e istituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali. Paradossalmente oggi è proprio il sindacalismo moderato della concertazione, che ho contrastato per quanto ho potuto, ad essere messo sotto accusa. Negli anni ‘80 e ‘90 è stata la mutazione genetica del sindacato più forte d’Europa, la sua scelta di accettare tutti i vincoli e le compatibilità del mercato e del profitto, che ha permesso al potere economico di riorganizzarsi e riprendere a comandare. In cambio le grandi organizzazioni sindacali hanno chiesto compensazioni per se stesse. Questo è stato il grande scambio politico che ha accompagnato trent’anni di politiche liberiste contro il lavoro. I grandi sindacati accettavano la riduzione dei diritti e del salario dei propri rappresentati e in cambio venivano riconosciuti ed istituzionalizzati. Partecipavano ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali, firmavano contratti che costruivano relazioni burocratiche con le imprese, stavano ai tavoli dei governi che tagliavano lo stato sociale, insomma crescevano mentre i lavoratori tornavano indietro su tutto.
Quando il mondo del lavoro è precipitato nella precarietà e nella disoccupazione, quando si è indebolito a sufficienza, ilpotere economico reso più famelico dalla crisi, ha deciso che poteva fare a meno dello scambio della concertazione. Ha dato il via Marchionne e tutti gli altri lo hanno seguito. Quelle concessioni sul ruolo e sul potere della burocrazia, che le stesse imprese ed il potere politico elargivano volentieri in cambio della “responsabilità” sindacale, son state messe sotto accusa. Coloro che più si sono avvantaggiati dei “privilegi” sindacali ora sono i primi a lanciare lo scandalo su di essi. I vecchi compagni da cui ho imparato l’abc del sindacalista mi dicevano: se al padrone dai una mano poi si prende il braccio e tutto il resto. Ma nel mondo moderno certe massime sono considerate anticaglie, e quindi i gruppi dirigenti dei grandi sindacati son rimasti sconvolti e travolti dalla irriconoscenza di un potere a cui avevano fatto così ampie concessioni. Hanno così finito per fare propria la più grande delle falsificazioni sul loro operare. I sindacati hanno difeso troppo gli occupati e abbandonato i giovani ed i precari, Marchionnequesto è passato nei mass media. Mentre al contrario non si sono trasmessi diritti alle nuove generazioni proprio perché si è rinunciato a difendere coloro che quei diritti tutelavano ancora.
I grandi sindacati han subito la catastrofe del precariato non perché troppo rigidi, ma perché troppo subalterni e disponibili verso le controparti. Questa è la realtà rovesciata rispetto all’immagine politica ufficiale, realtà che qualsiasi lavoratrice o lavoratore conosce perfettamente sulla base della proprie amare esperienze. La condizione del lavoro in Italia oggi è intollerabile e dev’essere vissuta come un atto di accusa da ogni sindacalista che creda ancora nella propria funzione. Non è solo lo perdita di salari e diritti, il peggioramento delle condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale che riemerge dal passato di decenni. Sono la paura e la rassegnazione diffuse, il rancore, la rottura di solidarietà elementari, che mettono sotto accusa tutto l’operato sindacale di questi anni. Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello quando passa il padrone. Di chi è la colpa se ora chi lavora deve piegarsi e sottomettersi come e peggio che nell’800? È chiaro che la colpa è del potere economico e di quello politico ad esso corrivo, oggi ben rappresentato da quella figura trasformista e reazionaria che è Matteo Renzi. È chiaro che c’è tutto un sistema culturale e mediatico che educa il lavoro alla rassegnazione e alla subordinazione all’impresa. Ma poi ci son le responsabilità da questo lato del campo, quelle di chi non organizza la contestazione e la resistenza.
Lascio la Cgil perché non vedo nei gruppi dirigenti alcuna volontà di cogliere il disastro in cui è precipitato il mondo del lavoro e le responsabilità sindacali in esso. Vedo una polemica di facciata contro le politiche di austerità e del grande padronato, a cui corrispondono la speranza e l’offerta del ritorno alla vecchia concertazione. E se le dichiarazioni ufficiali, come sempre accade, fanno fuoco e fiamme sui mass media, la pratica reale è di aggiustamento e piccolo cabotaggio, nell’infinita ricerca del minor danno. Il corpo burocratico della Cgil è più rassegnato dei lavoratori posti di fronte ai ricatti del mercato e delle imprese, come può comunicare coraggio se non ne possiede? Certo ci sono tante compagne e compagni che non si arrendono, che fanno il Giuseppe Di Vittorioloro dovere, che rischiano, ma la struttura portante dell’organizzazione va da un’altra parte, è dominata dalla paura di perdere il residuo ruolo istituzionale e quando ci sono occasioni di rovesciare i giochi, volge lo sguardo da un’altra parte.
Quando la Fiom nel 2011 si è opposta a Marchionne, quando Monti ha portato la pensione alla soglia dei 70 anni, quando si è tardivamente ripristinato lo sciopero generale contro il governo, in tutti quei momenti si è vista una forza disposta a non arrendersi. Quei momenti non sono lontani, eppure sembrano distare già decenni perché subito dopo di essi i gruppi dirigenti son tornati al tran tran quotidiano. E temo che lo stesso accada ora nel mondo della scuola ove un grande movimento di lotta non sta ricevendo un adeguato sostegno a continuare. Non si può ripartire se l’obiettivo è sempre solo quello di trovare un accordo che permetta all’organizzazione di sopravvivere. Così alla fine si firma sempre lo stesso accordo in condizioni sempre peggiori. In fondo è una resa continua. Il 10 gennaio 2014 Cgil, Cisl e Uil hanno firmato con la Confindustria un’intesa che scambia il riconoscimento del sindacato con la rinuncia alla lotta quotidiana nei luoghi di lavoro. Una volta che la maggioranza dei sindacati firma un contratto la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare. Se non accetti questa regola non puoi presentarti alle elezioni dei delegati.
Se negli anni ‘50 del secolo scorso la Cgil, in minoranza nelle grandi fabbriche, avesse accettato un sistema simile, non avremmo avuto l’autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori. Che non a caso oggi il governo cancella, sicuro che le grida sindacali non siano vera opposizione. Il movimento operaio nella sua storia ha incontrato spesso dure sconfitte, ma le ha superate solo quando le ha riconosciute come tali e quando ha cambiato la linea politica, la pratica e, a volte, i gruppi dirigenti. Invece nulla oggi viene davvero rimesso in discussione. La Cgil ha sempre avuto una dialettica interna. Tra linee politiche, tra esperienze, tra luoghi di lavoro, territori e centro, tra categorie e confederazione. Dagli anni ‘90 il confronto tra maggioranza e Susanna Camussominoranze si è intrecciato con quello tra la Fiom e la confederazione. In questi confronti e conflitti si aprivano spazi di esperienze ed iniziative controcorrente.
Oggi tutto questo non c’è più. Una normalizzazione profonda percorre tutta l’organizzazione e l’ultimo congresso le ha conferito sanzione formale. Non facciamoci ingannare dalle polemiche televisive e dalle imboscate di qualche voto segreto. Fanno parte di scontri di potere tra cordate di gruppi dirigenti, mentre tutte le decisioni più importanti son state assunte all’unanimità, salvo il voto contrario della piccola minoranza di cui ho fatto parte e di cui non si è mai tenuto alcun conto. Una piccola minoranza che al congresso ha raggiunto successi insperati là dove c’erano le persone in carne ed ossa, ma che nulla ha potuto contro i tanti risultati bulgari per partecipazione e consenso verso i vertici, costruiti a tavolino. Con l’ultimo congresso la struttura dirigente della Cgil ha deciso di ingannare se stessa. La partecipazione bassissima degli iscritti è stata innalzata artificialmente per mascherare una buona salute che non c’è. Ed il resto è venuto di conseguenza. A differenza che nel passato non ci son più problemi nella vita interna della Cgil, tutto è pacificato a parte i puri conflitti di potere. Ma forse anche per questo la Cgil non ha mai contato così poco nella vita sociale e politica del paese.
A questo punto non bastano rinnovamenti di facciata, sono necessarie rotture di fondo con la storia e la pratica degli ultimi trenta anni. Bisogna rompere con un sistema Europa che è infame con i migranti mentre si genuflette di fronte all’euro. I diritti del lavoro sono incompatibili con una moneta unica i cui vincoli, come ha ricordato il ministro delle finanze tedesco, sono tutt’uno con le politiche di austerità. Bisogna rompere con il Pd ed il suo sistema di potere se non se ne vuol venire assorbiti e travolti. Bisogna rompere con le relazioni subalterne con le imprese e ripartire dalla condizione concreta dei lavoratori. Queste rotture non sono facili, ma sono indispensabili per ripartire e sono impossibili nella Cgil di oggi. Certo, fuori dalla Cgil non c’è Renziuna alternativa di massa pronta. Ci sono lotte, movimenti, sindacati conflittuali generosi e onesti, ma spesso distanti se non in contrasto tra loro. Ma questa situazione frantumata per me non giustifica il permanere in un’organizzazione che sento indisponibile anche solo a ragionare su queste rotture.
So bene che la svolta positiva per il mondo del lavoro ci sarà quando tutte le organizzazioni sindacali, anche le più moderate, saranno percorse da un vento nuovo. Ho vissuto da giovane quei momenti. Ma ho anche imparato che nell’Italia di oggi questo cambiamento sarà possibile solo se promosso da una spinta organizzata esterna a Cgil, Cisl e Uil. A costruirla voglio dedicare il mio impegno. Per questo lascio la Cgil da militante del movimento operaio così come ci sono entrato. Saluto con grande affetto le compagne e compagni di tante lotte che non condividono questo mio giudizio finale. Siccome li conosco e stimo, so che ci ritroveremo in tanti percorsi comuni. Saluto anche tutte e tutti gli altri compagni, perché ho fatto mio l’insegnamento di Engels di avere avversari, ma mai nemici personali. Grazie soprattutto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori che hanno insegnato a me, intellettuale piccolo borghese come si diceva una volta, cosa sono le durezze e le grandezze della classe operaia. Spero di poter apprendere ancora.
(Giorgio Cremaschi, “Perché lascio la Cgil”, dall’“Huffington Post” del 15 settembre 2015).

fonte: www.libreidee.org

domenica 27 settembre 2015

Valérie - Diario di una ninfomane



Diario de una Ninfómana è un film del 2008 diretto dal regista Christian Molina. È ispirato al romanzo omonimo di Valérie Tasso, interpretata da Belen Fabra.

Trama

Valérie è una bella e affascinante donna che fin dalla perdita della verginità, ha una vera e propria ossessione per il sesso, fino a quando si innamora di quella che poi si rivelerà la persona sbagliata.

fonte: Wikipedia

FINALE

sabato 26 settembre 2015

Akakor: un regno dimenticato

Nel cuore delle foreste amazzoniche giacciono incredibili città sotterranee. L’inchiesta di Brugger, pagata con la morte, svela antichissime tradizioni degli indios, ultimi eredi di esseri stellari.
L’avventura di Karl Brugger, giornalista tedesco, ha inizio in un bar di Manaus, in Brasile, il 3 marzo 1972.

La lunga permanenza nelle foreste amazzoniche e la profonda conoscenza delle tradizioni indios, gli permettono di entrare in contatto con Tatunca Nara, ultimo capo della misteriosa “tribù degli alleati eletti”, gli Ugha Mongulala. Il racconto che segue, conservato nei libri sacri de La Cronaca di Akakor, noti come Il Libro del Giaguaro, Il Libro dell’Aquila, Il Libro della Formica e Il Libro del Serpente d’acqua, segnò per sempre la suavita.

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Nel 13.000 a.C. brillanti navi dorate scesero nelle giungle lussureggianti del Sudamerica guidate da maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu, sei dita alle mani e ai piedi. Dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni. Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: pietre magiche per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo.

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Con infinito amore donarono agli indios il lume della civiltà e gettarono le basi di un impero vastissimo che comprendeva Akakor, l’imprendibile fortezza di pietra nella vallata sui monti al confine tra Perù e Brasile, Akanis in Messico e Akahim in Venezuela, le grandiose città di Humbaya e Patite in Bolivia, Cadira, Emin sul Grande Fiume e maestosi luoghi sacri: Salazare, Tiahuanaco e Manoa sull’altopiano a sud.

Sotto Akakor, una rete vastissima di tredici città sotterranee, nascoste alla vista degli intrusi, come arterie invisibili percorrono le millenarie foreste brasiliane. La loro pianta riproduce fedelmente Schwerta, la dimora cosmica degli Antichi Padri. Una luce innaturale le illumina all’interno, mentre un ingegnoso complesso di canalizzazioni porta aria e acqua sin nelle sue profondità.

Il potente dominio, che contava sotto di sè trecentosessantadue milioni di individui, durò tremila anni quando nell’Ora Zero, il 10.481 a.C., gli Antichi Padri ripresero la via del cielo con la promessa di ritornare.
L’inizio di un ciclo

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La Terra parve piangere la loro scomparsa e tredici anni dopo un’immane catastrofe si abbattè sul pianeta e sconvolse il suo aspetto, seminando ovunque morte e desolazione. Gli uomini persero la fede negli dèi, degenerando e commettendo azioni crudeli nei millenni a venire.

Seguì un seconda catastrofe. Una stella gigantesca dalla coda rossa impattò la Terra, provocando un immane diluvio. Secondo le parole dei sacerdoti: “Quando la disperazione avesse raggiunto il culmine, i Primi Maestri sarebbero tornati”. E nel 3.166 a.C. ricomparvero le navi d’oro. Lhasa, il “Sublime”, regnò ad Akakor e suo fratello Samon volò sul Nilo per fondare un secondo impero che regolarmente approdava in terra sudamericana a bordo di immense navi. Reperti di varia natura scoperti dagli archeologi confermano la presenza egiziana in Sudamerica, come la “Roccia delle Scritture” che l’antropologo George Hunt Williamson rinvenne sulle Ande nel 1957, istoriata da geroglifici simili a quelli egizi, venerata dai nativi e collegata alla discesa di antenati spaziali che dimoravano nel Gran Paititi.

Il principe di Akakor governò con saggezza riorganizzando l’impero distrutto ed eresse nuove città come Manu, Samoa, Kin, in Bolivia e Machu Picchu in Perù. Trecento anni rimase sulla Terra finchè un giorno si diresse sulla montagna della Luna, sopra le Ande e disparve nel cielo in un fuoco. Partenza che riecheggia moltissimo quella di Quetzalcoatl, la divinità messicana.
Un popolo prezioso

Millenni di guerre contro le tribù nemiche videro Akakor cadere e risorgere più volte, stringendo anche alleanze con stirpi straniere giunte da lontano. Le tradizioni degli Ugha Mongulala parlavano di popolazionibianche come i Goti che visitarono le loro terre. Ancora una volta questo si rivela una conferma notevole alle antiche cronache medievali nelle quali navi vichinghe partite all’esplorazione di mondi lontani, dopo un naufragio, approdarono sulle coste del Sudamerica. Nella sierra di Yvytyruzu, in Paraguay, l’archeologo Jacques de Mahieu ha scoperto un masso pieno di caratteri runici, disegni dei drakkar, le navi nordiche, e di un uomo barbuto con armatura. Le attuali popolazioni di quei territori possiedono la pelle bianca, un torace sviluppato e la barba.

Ma un evento ancor più strano, preconizzato nelle antiche scritture degli Antenati Divini, è l’arrivo ad Akakor di 2.000 soldati tedeschi che aiutarono gli indios ad armarsi contro i barbari bianchi, senza successo, poiché la Germania perse la Seconda Guerra Mondiale. I nativi ricordano lo stemma cucito sulla giacche delle truppe, identico ai covoni di grano in foggia di svastica, che rotolavano dalle colline durante cerimonie sacre nel solstizio d’estate.

Il Fuhrer era ossessionato a tal punto dalle tradizioni esoteriche da abbracciare le idee della società segreta Thule – nome di un vasto territorio che andava dal Mar del Gobi al Polo Nord (vediIl mistero degli Etruschi), abitato dalla civiltà degli Iperborei – e conferirle il carattere di un gruppo operativo incaricato di custodire le conoscenze perdute. L’esistenza di una razza antichissima che viveva in cavità sotterranee stimolò la sua curiosità, spingendolo a inviare numerose spedizioni in tutto il globo per accertare la veridicità dei suoi studi occulti.

Il contingente tedesco partito da Marsiglia verso l’Inghilterra a bordo di un sottomarino era ignaro della vera destinazione e dello scopo della missione: prendere contatto con la “tribù degli alleati eletti”. Un resoconto di viaggio del navigatore greco Pitea di Massalia, nel IV sec a.C., il De Oceano, narra la partenza da Massalia, l’antica Marsiglia, per giungere alla mitica Thule ubicata nei ghiacci remoti nel lontano Nord. Molto probabilmente la città francese custodisce segreti esoterici noti ai nazisti da lungo tempo.

La permanenza dei soldati nella città fece nascere una profonda amicizia con gli indios, che portò all’unione tra i due popoli, i quali ancora oggi vivono in numero di trentamila ad Akakor inferiore, come pure sono abitate le città di Boda e Kish sotto di essa e la poderosa Akahim.
La dimora degli dèi

Il Tempio del Sole di Akakor, vigilato da guardie armate, custodisce mappe segrete vergate dagli Antichi Padri che mostrano il cosmo di millenni prima, con altre lune, un’Isola perduta ad Ovest e una terra nell’Oceano, inghiottite dai flutti nel corso di un’epica battaglia stellare tra due progenie di dèi, le cui conseguenze investirono persino i pianeti Marte e Venere. I documenti raccontano inoltre che i Signori del Cielo portarono l’uomo da un pianeta all’altro fino a giungere sulla Terra.

Il teorico nazista Hoerbiger aveva postulato l’esistenza di varie lune nelle ère perdute della Terra; le mappe si ricollegano, inoltre, alla carta astronomica del 4.000 a.C. appartenuta al compianto ricercatore britannico David Davenport sulle rotte dei vimana verso il nostro pianeta, provenienti da sistemi stellari lontanissimi.

Fedeli ai desideri dei Primi Maestri, i sacerdoti raccolsero tutto il sapere e la storia della tribù eletta in libri custoditi in una sala scolpita nella roccia all’interno delle dimore sotterranee. Nello stesso luogo gli enigmatici disegni dei Padri Divini sono incisi in verde e azzurro su di un materiale sconosciuto. Disegni che né l’acqua né il fuoco riescono a distruggere.

Nei sotterranei giacciono anche armi simili a quelle dei tedeschi appartenute agli Dèi, l’astronave di Lhasa, un cilindro di metallo ignoto che volava senz’ali, e un veicolo anfibio che attraversava le montagne. Tatunca Nara in persona vide una sala rischiarata da una luminosità azzurrina che mostrava in animazione sospesa quattro persone, tra cui una donna, con sei dita alle mani e ai piedi, entro contenitori di cristallo pieni di liquido.
Akakor risorge

Molti si chiedono se la misteriosa città sotterranea non sia solamente frutto di un racconto fantasioso.

Il ricercatore Antonio Filangeri ha verificato le credenziali di Karl Brugger direttamente dal fratello Benno nel corso di un suo viaggio a Monaco negli anni ’50, ottenendo nuove informazioni. Benno rivelò che dopo la morte di Karl, colpito in circostanze misteriose da una pallottola nel 1984, il Consolato Tedesco aveva perquisito l’appartamento di Karl a Rio de Janeiro, confiscando tutta la documentazione relativa alla spedizione di Akakor. In seguito, le casse con gli incartamenti furono oggetto di diversi tentativi di furto. Inspiegabilmente, il console di Rio venne trasferito in Costa d’Avorio con i documenti al seguito. Parte del materiale scomparve poi quando giunse in Germania su richiesta di Benno. Un alone di mistero sembrava aleggiare intorno ad Akakor.

Quando Tatunca Nara avviò delle trattative con alti ufficiali bianchi per fermare lo sterminio indiscriminato degli indios, che prosegue tuttora indisturbato da parte delle autorità, ebbe modo di affidare alcuni scritti degli dèi al vescovo M. Grotti che dopo aver spedito i documenti in Vaticano, perì in un incidente aereo. Coincidenze?

Tatunca Nara è profondamente disgustato dalla civiltà dei barbari bianchi, con le loro feroci contraddizioni, e afferma con orgoglio: “Ma noi siamo uomini liberi del Sole e della Luce. Noi non vogliamo gravare il nostro cuore del peso della loro fede errata e bugiarda”. Con pazienza attende il ritorno degli dèi. O forse gli dèi, nascosti ad Akakor, attendono con pazienza che gli uomini tornino a loro stessi.

***
L’approfondimento

Il Terzo Reich non fu il solo a interessarsi ad Akakor. La ricerca di un’antica civiltà scomparsa, le cui rovine colossali giacciono sepolte sotto le foreste del Sudamerica, è stato il sogno di numerosi avventurieri nel corso delle varie epoche. Già nel 1530 l’ufficiale di Pizzarro, Francisco Orellana, favoleggiava di un reame pieno d’oro tra il Rio delle Amazzoni e il fiume Orinoco. I Gesuiti sono in possesso di antichi scritti di viaggio relativi a un antica popolazione che dimora in una città maestosa nella giungla brasiliana.

Un gruppo di sette uomini, guidato da Hamilton Rice, si spinse nella Sierra Parima, tra il Venezuela e il Brasile nel 1925 alla scoperta di Ma-Noa, la capitale del leggendario El Dorado. Curiosamente il nome ricorda Manu, una delle città costruite da Lhasa.

La documentazione più importante riguardo l’esistenza di scomparse civilizzazioni antecedenti a quelle conosciute proviene del colonnello Percy Harrison Fawcett, cartografo della National Geografic Society. In Sudamerica si dedicò alla consultzione del Manoscritto dei Bandeirantes, della prima metà del 1700, al Museo dell’Indio di Rio, che descriveva l’esplorazione delle foreste amazzoniche da parte di un gruppo di venti uomini e la scoperta di una metropoli di pietra deserta dalle mura gigantesche. Organizzata una spedizione del 1925 in Mato Grosso, si inoltrò con il figlio Jack lungo il Rio Araguaia, entrando in contatto con varie tribù di indios che conservavano nelle loro tradizioni il ricordo di una provenienza stellare. Proprio quando sembrava aver raggiunto le vestigia di remote città illuminate da luci fredde, scomparve misteriosamente in estate nell’alto Rio Xingu.

Nel 1946 è la volta di Leonard Clark, che in un resoconto di viaggio, divenuto poi un libro dal titolo I fiumi scendevano a Oriente (Tea, 2000), narra il ritrovamento di sei delle sette città dell’El Dorado nelle Ande Peruviane. Undici anni dopo Antonio Filangieri stimolato dai racconti del colonnello Fawcett ricalcò lo stesso itinerario e constatato che molti luoghi collimavano, partì per un secondo viaggio, in modo da verificarne le scoperte archeologiche e raccogliere informazioni sulla sua scomparsa, viaggio da cui dovette desistere, come egli stesso riferisce, “per drammatici eventi sopraggiunti”. L’archeologo brasiliano Roldao Pires Brandao individuò una montagna tra il Brasile e il Venezuela, il Pico De La Neblina, nel 1975 e quattro anni dopo, nello stesso posto, tre piramidi di 150 metri accanto a un complesso urbano nascosto dalla foresta.

Ai giorni nostri il ricercatore Marco Zagni, si è assunto il compito di svelare l’esistenza di scomparse civiltà preincaiche, organizzando una spedizione in Perù, nelle zone di Pantiacolla, del fiume Pini Pini e di Pusharo, dove, in base alle testimonianze di una spedizione francese smarritasi nel 1979, esisterebbero indios di due metri, strane formazioni piramidali, fotografate dal satellite LandSat, e i “Soccabones”, fitta rete di cavità sotterranee. Anche gli archeologi sono propensi nel riconoscere che tra il 6.000 e il 4.000 a.C. sia fiorita una “Civiltà Amazzonica” dei “Mogulalas”, formata da numerose città-stato, che si estendeva dal Venezuela alle Ande peruviane. Una conferma esoterica giunge anche dal libro di Leo e Viola Goldman, I Misteri del Tempio (Edizioni Synthesis, 1998), il cammino iniziatico di una donna nella città nascosta di Ibez, all’interno della montagna sacra del Roncador in Mato Grosso, popolata da Maestri divini che, scampati alla distruzione di Atlantide con i vimana, crearono le civiltà incamaya e atzeca.

 di Dino Vitagliano


http://www.acam.it/akakor-un-regno-dimenticato/

fonte: thedayafter2012.blogspot.it

Agarthi

Davide Longoni

Agarthi (detto anche, a seconda delle varie traslitterazioni, Aghartta o Agartha o Agharti, con significato di “L’Inaccessibile”) è un regno leggendario che si troverebbe addirittura all’interno della Terra, descritto nelle opere dello scrittore Willis George Emerson (1856 – 1918): il concetto su cui si basava Emerson era legato alla teoria della Terra Cava ed è un soggetto popolare soprattutto nel campo dell’esoterismo.

Agarthi è uno dei nomi più comuni usati per definire una civiltà nascosta in un punto imprecisato all’interno dell’Asia centrale. Si tratta di un regno mitico descritto fra l’altro anche nel tantra Kalachakra del buddismo tibetano. Secondo la descrizione fornita è un regno separato da una cintura di alte montagne e suddiviso in otto parti che formano come un fiore a otto petali in cui vi sono ben settantasei regni. Kalapa è la capitale di Shambala-Agartha in cui ha sede il palazzo del sacerdote-re e questo regno è situato in India e coincidente col monte Meru o Polo Nord prima dello spostamento dell’asse terrestre, centro del mondo e terra originaria dell’umanità. Sarebbe situata in India nello stato di Orissa o vicino a Benares. Il suo primo capo fu Suchandra, mentre il capo attuale è Anirudda e il prossimo sarà Drag-po Chor Lo Chan o Rudra Chakrin, chiamato anche “il corrucciato con la ruota”. Secondo una profezia, il Mahdi della tradizione islamica, un discendente di Maometto che viene anche definito l’ottavo dopo Adamo, Noé, Abramo, Mosé, Gesù, Mani e Maometto, ingaggerà la guerra mondiale per il dominio planetario e instaurerà un impero mondiale. Così facendo si scontrerà con Shambalà (o Shamballa) e il suo sacerdote-re Rudra Chakrin. Questi lo spazzerà via con l’aiuto delle forze soprannaturali e inizierà così l’Età dell’Oro. Il tantra Kalachakra profetizza in pratica una guerra tra Shambalà e la Mecca e parla del pericolo per il buddismo costituito proprio dall’Islam. Ma la battaglia finale avverrà in Iran tra Kalki e il leader musulmano ...



Dato che è improbabile che esistano ancora siti inesplorati (o peggio regni sotterranei) probabilmente Shambalà non è altri che Sambhal, situata nell’Uttar Pradesh: questo almeno è quello che afferma il Kalki Purana. Il Kulika, o Kalki, che la governa nascerà là e poi si trasferirà a Mathura da dove guiderà una rivoluzione spirituale e un governo mondiale.

La fortuna occidentale di Agarthi nacque con Ossendowsky (autore di “Bestie, uomini e dei”), Alexandre Saint-Yves D’Alveydre (“Missione dell’India”) e Guénon (“Il Re del Mondo”). Il terzo non fece che altro che reinterpretare le idee dei primi due. Il primo era un viaggiatore che riferì dei suoi tragitti in Asia mentre l’altro era un occultista che pretendeva di avere avuto rivelazioni da un “maestro”. Tutto ciò aveva però poco a che fare con la Shambalà tibetana e indù sopra descritta ed è anche la fonte della storia del “regno sotterraneo” estranea ai testi orientali.

Una delle prime fonti del mito dei regni sotterranei è Il Dio fumoso (The Smokey God or A Voyage to the Inner World, 1908), di Willis George Emerson, la pretesa autobiografia di un marinaio norvegese chiamato Olaf Jansen. Emerson racconta di come Jansen abbia navigato all’interno della Terra attraverso un’apertura presso il Polo Nord. Per due anni sarebbe vissuto con gli abitanti di questo regno il cui mondo sarebbe illuminato da un “Sole centrale fumoso”. Il padre sarebbe rimasto ucciso durante il ritorno, mentre il figlio ricoverato come pazzo. Il resoconto sarebbe stato dato dal figlio, che dopo la dimissione dal sanatorio si sarebbe stabilito in California, e che novantenne avrebbe deciso di rendere pubblica la vicenda. Malgrado nel racconto di Emerson non si faccia il nome di Agarthi, esso vi è stato associato in opere successive. Shambalà “la Minore”, una delle colonie di Agarthi, era la sede del governo del regno. Mentre Shambalà consiste in un continente interno, le altre colonie satelliti sono solo degli agglomerati più piccoli situati all’interno della crosta terrestre o dentro le montagne. I cataclismi e le guerre avvenute sulla superficie spinsero il popolo di Agarthi a stabilirsi sottoterra.

Il leggendario paradiso di Shambalà ha varie analogie con altri luoghi mitici, come la Terra Proibita, la Terra delle Acque Candide, la Terra degli Spiriti Raggianti, la Terra del Fuoco Vivente, la Terra degli Dei Viventi, la Terra delle Meraviglie. Gli indù parlano di Aryavartha, terra d’origine dei Veda; i Cinesi di Hsi Tien, il Paradiso Occidentale di Hsi Wang Mu, la Madre Regale dell’Ovest; la setta cristiana russa dei vecchi credenti la chiamava Belovodye e i Kirghizi nominano invece Janaidar.

L’esistenza di Agarthi è stata considerata seriamente da numerosi europei, come, ad esempio solo per citarne alcuni, i seguaci della teosofia di Madame Blavatsky, la veggente fondatrice della Società Teosofica Internazionale, che sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi “Maestri della Fratellanza Bianca”, ovvero i sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra il Tibet e il Nepal, i quali si sarebbero rifugiati in seguito a una spaventosa catastrofe nelle viscere della Terra, dove avrebbero fondato appunto la mitica Agarthi. Dalle dottrine esoteriche della Blavatsky trasse ispirazione, tra gli altri, anche la Società Thule, la società segreta di estrema destra che costituì il nucleo originale del Partito nazista di Hitler, benché non abbiano mai avuto le due organizzazioni né un contatto né un sodalizio reciproco.

Tra gli ipotetici ingressi di Agarthi vi sono: il Deserto del Gobi in Mongolia, il Polo Nord, l’Islanda, il Polo Sud, la piramide di Giza in Egitto, il monte Epomeo sull’isola di Ischia, l’isola Bisentina nel lago di Bolsena e l’Isola di Pasqua.

Se sul grande Atlante terrestre delle terre leggendarie e misteriose, si volessero indicare luoghi definiti dalle varie culture come Terre Sante, rimarrebbe ben poco spazio per la selvaggia urbanizzazione, simbolo della nostra “evoluzione”. Infatti tutti quei luoghi nei quali è stata identificata la Terra Santa per eccellenza sono distribuiti in maniera fitta sul globo. Tra questi possiamo ricordare l’elenco redatto dall’esoterista francese René Guénon nel suo libro “Il Re del Mondo”: Atlantide, il Regno di Prete Gianni, il castello di Camelot, l’isola di Avalon, il Montsalvat dei miti di Re Artù, l’omerica isola di Ogigia, la mitica isola di Thule, il monte Meru, il monte Olimpo, il monte Qafal. Lo spazio per la nostra urbanizzazione, in realtà, nasce dal fatto che solo pochi dei luoghi elencati sono fisicamente rintracciabili, mentre molti restano affidati all’immaginazione e alla ricerca dell’uomo.
La cultura orientale offre il suo contributo a questo elenco puntando il dito verso una regione definita regno di Agarthi e alla sua capitale Shambalà, che troviamo un po’ in tutte le culture asiatiche sotto vari nomi e aspetti, ma il tratto comune a tutti questi miti è l’identificazione dell’Agarthi come del luogo in cui si sia ritirata una primordiale mitica popolazione semidivina. Resta solo da chiedersi il perché di questa fuga. Prima di parlare di ciò però, è bene accennare per ora alla capitale di questo regno, mitica quanto il regno stesso a causa di coloro che vi dimorano: Shambalà “la Minore” o “la Città degli Smeraldi”, sede del Re del Mondo, dei saggi Guru e degli spiriti Pandita.

Il centro del Regno sotterraneo sorge sul principale incrocio delle correnti terrestri, o forse è esso stesso a generare questi fiumi di energia, che percorrono tutto il pianeta e si diffondono in superficie irraggiati dai megaliti. Agharti costituisce il mozzo, immobile e immutabile, della Dharma Chakra, la Ruota della vita e della legge della tradizione basate sul Karma, alla cui rotazione è legato il destino dei mortali. Essa esiste simultaneamente sia sul piano fisico sia sul piano spirituale e solo pochissimi Arhat (gli Illuminati) hanno la possibilità di accedervi.

Per evitare che il male vi penetri, essa è tenuta isolata dal mondo della superficie da vibrazioni che offuscano la mente e rendono invisibili le porte di accesso. Esiste secondo la leggenda solo un popolo che è nato nelle profondità di Agharti e ora vive in superficie: è quello degli Zingari, che furono cacciati dal Regno sotterraneo, di cui conservano la memoria genetica – lo riprova il loro vagabondaggio senza fine, alla ricerca di una patria che non potranno mai rivedere – e certe facoltà magiche, come la capacità di predire il futuro e leggere la mano.

La popolazione dell’Agarthi, ma soprattutto di Shambalà rappresenta il vero mistero. Ossendowski riporta le parole di un Lama mongolo, secondo il quale il Paradesha (in sanscrito Paese supremo, da cui Paradiso) fu fondato dal primo Guru (intermediario del volere divino) intorno all’anno 380.000 a.C., e divenne sotterraneo circa seimila anni fa , nel 3102 a.C., all’inizio del periodo del Kali Yuga della tradizione indù (il termine significa Età Nera e designa il periodo in cui viviamo). Per la già nominata occultista Helena Blavatsky, Agharti (che lei chiama “La loggia bianca”) è sorta sull’isola del Mar del Gobi dove, in tempi remotissimi, erano atterrati i Signori della Fiamma, semidèi provenienti da Venere. Dottrine esoteriche fanno risalire la sua fondazione addirittura a quindici milioni di anni fa e gli abitanti di Agharti proverrebbero dal continente di Gondwana; grazie alla misurazione delle maree effettuata per mezzo del Candelabro delle Ande, essi avevano compreso che una catastrofe stava per abbattersi sulla loro terra e si erano quindi rifugiati in vaste gallerie sotterranee illuminate da una luce particolare che fa germogliare le sementi, portando con sé il loro bagaglio di antichissime conoscenze.

Il sovrano che regna sulla “Città degli Smeraldi” è chiamato dagli abitanti della superficie il Chakravarti ovvero “Il Re del Mondo”, mentre al suo popolo è noto come Brahmatma (colui che ha il potere di parlare con Dio). Egli regna per il periodo di un Manvatara, una delle quattordici ere da cui è composto un ciclo cosmico.

“Vaivaswata, settimo e attuale Re del Mondo, è in comunione spirituale con tutti i Manu che hanno regnato prima di lui, tra cui il primo Brahmatma Swdyambhuva; di tanto in tanto” – racconta Ossendowski – “egli si reca nella Cripta del Tempio dove giace, in un sarcofago di pietra nera, il corpo imbalsamato del suo predecessore, per unire la sua mente a quella dei Manu del passato. La caverna è sempre oscura, ma quando vi penetra il Re del Mondo, le pareti si rigano di strisce di fuoco e dal coperchio del sarcofago si levano lingue di fiamme. Il Guru più anziano sta davanti a lui con il volto e il capo coperti; egli non si toglie mai il cappuccio, perché la sua testa è un cranio nudo in cui di vivo non ci sono che gli occhi e la lingua. Dal sarcofago cominciano a emanare i flussi diafani di una luce appena visibile: sono i pensieri del predecessore del Re ed esprimono le volontà e i comandi di Dio.”

Tale racconto trova piena corrispondenza nelle credenze dei popoli della ceramica a solchi (gli Iperborei greci o anche i Tuata de Danaan dei Celti), sulla reincarnazione dei sovrani e sulla trasmissione delle conoscenze. L’organizzazione della città vede a capo il Brahmatma, il Mahatma (colui che conosce il futuro) e il Mahanga (colui che procura le cause affinché gli avvenimenti si verifichino). Questa triade comanda il clero militarizzato, i templari Confederati dell’Agharti, il cui livello più elevato è il cosiddetto “consiglio circolare” formato da dodici iniziati (dodici come i segni dello zodiaco, come i cavalieri di Re Artù, come gli apostoli di Gesù Cristo…). Di rado il sovrano esce dal suo regno: comparirà davanti a tutti soltanto quando il tempo sarà venuto di condurre tutti gli uomini buoni contro i cattivi (Buddha Maitreya), ma il tempo non è ancora venuto. Gli uomini più cattivi dell’umanità non sono ancora nati. Renè Guenon definisce il Re del Mondo con il termine Manu (legislatore universale, mediatore tra l’uomo e la divinità), un altro attributo con cui si ritrova, in forme diverse, presso tutte le antiche religioni.

Ad Agharti si dice che sia nata la religione unica, primordiale e perfetta della cosiddetta “Età dell’Oro”, in grado – per mezzo di pratiche mistiche – di porre l’uomo in totale comunione con Dio. In tempi remoti i Grandi Iniziati di Agharti vennero in superficie per predicare la loro religione: il Maestro Rama, che gli Indù considerano un avatar (incarnazione) del dio Vishnu, la diffuse dall’India fino al Nord Europa, dando origine alla civiltà Indo-Europea. L’antico legame con Agharti si può riscontrare linguisticamente nel termine “Asghard”, la città di Odino e degli Dèi dei miti germanici. Per questo Adolf Hitler riteneva che i popoli nordici fossero i veri eredi spirituali del Regno Occulto e si fece promotore di spedizioni naziste per ritrovare il leggendario regno che però no trovò mai… ovviamente perché non gli fu permesso. Tutte le grandi religioni attuali traggono le loro origini dalla religione primordiale di Agharti, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo adattamenti della grande tradizione primordiale. Con l’aiuto e gli insegnamenti occulti dei Superiori Sconosciuti, potenti illuminati mescolati agli uomini della superficie, la tradizione originale di Agharti è stata portata avanti dalle Società esoteriche, organizzazioni mistiche composte da ristretti gruppi di iniziati. René Guenon fa tuttavia rilevare che, nel XIV secolo, ha cominciato a generarsi tra Agharti e l’Occidente una rottura che è divenuta definitiva intorno al 1650, quando i rappresentanti della Società esoterica dei RosaCroce lasciarono l’Europa per ritirarsi in Asia.

Il Re del Mondo non è soltanto un capo religioso, ma regge anche i destini materiali del pianeta (l’unità tra il potere spirituale e quello temporale è simboleggiata nella figura del Re-Sacerdote Artù o della doppia figura del Cristo). Il Manu detta il corso della storia secondo un preciso andamento, difficilmente comprensibile e non necessariamente positivo secondo i nostri canoni, in accordo con un ineffabile piano divino.

In “Mission de l’Inde en Europe” (1910), lo scrittore Saint-Yves d’Alveydre sostiene che “il Re del Mondo è il più alto esponente della Sinarchia, una sorta di Governo centrale di uomini di scienza, potentissimo e ramificato, i cui esponenti terreni (il Consiglio Europeo di Stati e il Consiglio Internazionale delle Chiese) ispirano e controllano i grandi moti politici o d’altro genere che segnano l’evoluzione del genere umano. Al sovrano non mancano i mezzi per eseguire la propria missione: quando lo desidera egli può infatti mettersi in comunione con il pensiero di tutti gli uomini che hanno influenza sul destino e la vita dell’umanità: re, zar, khan, capi guerrieri, sacerdoti, scienziati. Egli conosce tutti i loro pensieri e i loro disegni; se questi sono graditi a Dio li asseconda, altrimenti li fa fallire”.

Tuttavia oggi è nata una secolare preoccupazione verso una “cospirazione Agarthi” che gestirebbe “umanamente” molte delle azioni criminali a danno dell’Occidente.

Vero o immaginario che sia, il regno sotterraneo di Agarthi è sempre lì ad aspettare, sepolto chissà dove e pronto a intervenire quando meno ce l’aspettiamo.
www.lazonamorta.it

Di seguito il presunto filmato girato da un cosmonauta russo dalla stazione MIR, 
con l'ingresso del Polo Nord: 

Leggere anche:  L'invasione degli Intraterrestri
La Terra cava
Richard Evelyn Byrd

fonte: crepanelmuro.blogspot.it

giovedì 24 settembre 2015

Frost Nixon - il duello



« L'abuso di potere è l'essenza della tirannia. »

(M. Caldwell Butler)

Frost/Nixon è un film del 2008 diretto da Ron Howard, adattamento cinematografico delle vere interviste a Nixon registrate nel 1977 dal giornalista britannico David Frost e dell'omonimo dramma teatrale scritto da Peter Morgan, che cura anche la sceneggiatura del film.

Il film ha ottenuto cinque candidature agli Oscar 2009, tra cui miglior film, miglior regista e miglior attore protagonista.

Trama

Stati Uniti, 1974: il Presidente degli Stati Uniti, il Repubblicano Richard Nixon, si dimette dalla carica in seguito all'inchiesta relativa al cosiddetto scandalo Watergate. Interessato alla questione, David Frost, un giornalista britannico, decide di offrire un lauto compenso all'ex presidente per un'intervista.

Solo nel 1977 Nixon accetta di farsi intervistare da Frost, per riottenere la fama e la gloria perduta. Per l'uomo politico e per il suo staff l'occasione è quindi straordinaria. Frost ha fama di abile intervistatore ma è considerato più affine al mondo dell'entertainment che non a quello di cui Nixon ha fatto parte.

Il 23 marzo 1977, Frost parte per la California, dove l'ex-presidente si è ritirato a vita privata, sborsando 200 mila dollari e giocandosi l'intera carriera. Per l'intervista sceglie tre stimati colleghi: John Birt, Bob Zelnick e Jim Reston (elemento chiave per inchiodarlo sulla questione Watergate).

Il lungo faccia a faccia fra i due avversari diventa perciò l’occasione per "dare a Nixon il processo che non ha mai avuto"; il tribunale, in questo caso, è costituito da un salotto adibito a studio televisivo, in cui l’occhio freddo e implacabile della telecamera è al tempo stesso giudice e giuria.

All’analisi di un periodo che, con i suoi disastri (il Vietnam, la Cambogia), ha segnato la fine dell’innocenza di un intero paese, si aggiunge così un’acuta riflessione sul mezzo televisivo, nuovo micidiale strumento di indagine della verità. Per Frost, l'avversario è un vero osso duro, dimostrando di tenere testa al giornalista britannico che viene criticato dai suoi collaboratori. Il 28 marzo il duello prosegue, e ancora Nixon ha la meglio. La stessa notte, incalzato da un'inaspettata telefonata ricevuta dallo stesso Nixon, Frost lavora incessantemente per l'ultima intervista, utilizzando l'ultima possibilità per inchiodare il suo avversario.

Il 22 aprile è aperta la sfida per l'intervista riguardo al ruolo del presidente nello scandalo Watergate. Frost riesce questa volta a mettere in difficoltà il presidente, sotto lo sguardo incredulo dei presenti e dei suoi collaboratori. Proprio quando Nixon sembra essere sul punto di ammettere la colpa, l'intervista viene interrotta, sotto ordine di Jack Brennan, collaboratore fidato del presidente. Jack si confida con Nixon, ma questi decide di proseguire l'intervista, ammettendo davanti alla telecamera i suoi errori e il suo tradimento nei confronti del popolo americano. David Frost ha vinto la sua battaglia.

Produzione

Trasposizione cinematografica dell’omonimo dramma teatrale scritto da Peter Morgan (già sceneggiatore di The Queen - La regina) Frost/Nixon racconta evoluzione e concepimento dell’intervista che il presentatore britannico David Frost ha fatto a Richard Nixon nel 1977.

Dopo il successo de Il codice da Vinci, che era valso ad Howard 758,239,851 milioni di dollari in tutto il mondo, l'acquisizione dei diritti del dramma di Morgan venne fatta dopo che il regista ebbe modo di assistere allo spettacolo in un teatro londinese. Oltre alla regia, Howard firma anche la produzione: il film è stato girato tra Los Angeles e San Clemente, in California, con la Immagine Entertainment, fondata da lui stesso con Brian Grazer, in accordo con la Working Title e la Universal. Howard ha battuto sul tempo diversi altri registi che si erano dichiarati interessati al progetto: Martin Scorsese, Mike Nichols, George Clooney, Sam Mendes, e Bennett Miller.[senza fonte]

I protagonisti Michael Sheen e Frank Langella avevano già rappresentato il dramma sui palcoscenici di Londra e New York; accanto a loro Kevin Bacon, Sam Rockwell, Toby Jones e Matthew Macfadyen.

Critiche

Il film di Ron Howard ha ottenuto ottime critiche, soprattutto in Italia, per la regia, il cast ed il montaggio. A livello di recitazione, gli attori sono stati molto apprezzati dal pubblico, soprattutto per l'interpretazione di Frank Langella che delinea con parole, espressioni e movenze un Nixon altezzoso, caparbio e sicuro di sé, ed è capace di dare al film quella tensione, che in molte occasioni manca alle pellicole che raccontano fatti già noti.

Howard ottiene per questo film un'altra nomination all'Oscar, tra cui altre 5 per il cast e tecnico, e un'ottima percentuale di critiche che considerano questo film il migliore della sua carriera. Persino David Frost si è in seguito complimentato con il regista, apprezzando il lavoro e la tenacia degli attori, che hanno reso il duello tra i due protagonisti una vera e propria questione personale: la lotta di Frost per ottenere successo e salvarsi dalla perdita dei suoi beni e il desiderio di Nixon di ricostruire la propria immagine.

fonte: Wikipedia