domenica 29 marzo 2015

la settimana rossa


La settimana rossa fu la conseguenza di un'insurrezione popolare sviluppatasi ad Ancona e propagatasi dalle Marche alla Romagna, alla Toscana e ad altre parti d'Italia, tra il 7 e il 14 giugno 1914, per contestare una serie di riforme introdotte da Giovanni Giolitti. L'insurrezione è rimasta famosa perché i poliziotti aprirono il fuoco sui manifestanti. Ancora oggi gli storici dibattono sulle reali responsabilità dell'accaduto.

I fatti

Il comizio antimilitarista convocato il 7 giugno (anniversario dello Statuto Albertino), per l'abolizione delle "Compagnie di Disciplina nell'Esercito", per protestare contro il militarismo, contro la guerra, e a favore di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due militari di leva. Il primo fu rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale (aveva sparato al suo colonnello prima di partire per la guerra italo-turca), l'altro fu inviato in una Compagnia di Disciplina per le sue idee (era sindacalista-rivoluzionario). Essendo quella del 7 giugno una giornata piovosa, si decise di spostare il comizio alle ore 18 alla "Villa Rossa" sede del partito repubblicano di Ancona. Alla presenza di circa 600 persone, repubblicani, anarchici e socialisti, parlano il segretario della Camera del Lavoro, Pietro Nenni, Pelizza, Errico Malatesta per gli anarchici e Marinelli per i giovani repubblicani. Dalla villa si decise di muovere verso la vicina piazza Roma dove si stava tenendo un concerto della banda militare.

La forza pubblica, volutamente distribuita su due ali in modo da bloccare l'accesso alla piazza e far defluire in fila indiana verso la periferia della città la folla, dopo aver avvisato i manifestanti con ripetuti squilli di tromba, iniziò a picchiare indiscriminatamente, mentre dai tetti e dalle finestre delle case furono lanciati pietre e mattoni. Alcuni colpi di pistola vennero esplosi: secondo i dimostranti da una guardia di pubblica sicurezza, mentre i carabinieri sostenevano che fossero partiti dalla folla. A seguito di questo, i carabinieri aprirono il fuoco: spararono circa 70 colpi. Tre dimostranti furono uccisi: Antonio Casaccia, di 24 anni, e Nello Budini, di 17 anni, entrambi repubblicani, morirono all'ospedale, mentre l'anarchico Attilio Gianbrignoni, di 22 anni, morì sul colpo. Vi furono anche cinque feriti tra la folla e diciassette tra i carabinieri.

Un'ondata di indignazione si sparse subito per tutta la città, mentre le forze di polizia si tenevano cautamente distanti.

Il Comitato Centrale del Sindacato dei Ferrovieri era riunito ad Ancona e su proposta di Errico Malatesta dichiarò lo sciopero di categoria, che per motivi organizzativi iniziò il 9 giugno, in concomitanza dei funerali dei manifestanti che tuttavia si svolsero in maniera abbastanza tranquilla, e in alcune regioni solo il 10.

In Romagna, dove il movimento repubblicano e quello anarchico erano una componente fondamentale delle sinistre, la rivolta assunse un carattere decisamente rivoluzionario: chiese e i palazzi del potere vengono assaltati e incendiati, un generale viene fatto prigioniero, in alcune piazze viene eretto l’albero della libertà, ripreso direttamente dalla rivoluzione francese. I dimostranti bloccano le linee ferroviarie, tagliano i fili telefonici e telegrafici e abbattono i pali per impedire lo spostamento delle truppe e le comunicazioni e quindi l’organizzazione della repressione. Interrotta la distribuzione dei giornali, le false notizie circa il successo della rivoluzione aumentano ancora di più l’entusiasmo degli insorti. Il 12 giugno, l’anarchico Errico Malatesta, tra i principali protagonisti della rivolta di Ancona, scrive su «Volontà»:

« Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme; in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari: il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazioni e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto »

I moti dalle Marche e dalla Romagna, si propagarono in Toscana ed in altre parti d'Italia. Lo sciopero generale durò un paio di giorni, la successiva mobilitazione dell'esercito convinse il sindacato ad abbandonare la lotta. Il moto rivoluzionario andò esaurendosi dopo che, per una settimana, aveva tenuto in scacco intere zone del paese.

« Furono sette giorni di febbre durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l'urto che saliva dal basso... Per la prima volta forse in Italia colla adesione dei ferrovieri allo sciopero, tutta la vita della nazione era paralizzata. »

Alla fine dello stesso mese, il 28 giugno 1914, l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo sposterà l’attenzione italiana sulle dinamiche europee che porteranno alla prima guerra mondiale, contrapponendo interventisti e neutralisti, fino all’ingresso in guerra nel maggio 1915.

La settimana rossa, in particolare nelle zone dell’anconetano e del ravennate, lascerà una traccia profonda nell’immaginario popolare come un momento in cui il proletariato aveva unitariamente dato prova della propria combattività, arrivando a sfiorare per un fugace attimo l’ebbrezza della rivoluzione sociale.

Pietro Nenni, qualche tempo dopo, disse che a volere l'eccidio a tutti i costi era stata la polizia di Ancona, che lo aveva provocato e premeditato in combutta con le forze reazionarie.

La rivolta fallì a causa della mancanza di unità: non c'erano organizzazioni in grado d'incanalare le forze e dare loro un programma.

fonte: Wikipedia

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