venerdì 29 agosto 2014

Sergio Spazzali



UNA LETTERA DALL'ESILIO

di Sergio Spazzali

Cari amici di "Liberation" e del "Manifesto"

mi tocca di avvertirvi che anche solo leggendo, ed ancor più pubblicando, queste poche righe correte il rischio di finire incatenati in galera. Se vi sembra più logico, smettete dunque subito e bruciate la lettera. Per il caso contrario, a vostro rischio e pericolo, continuo a scrivere.

La ragione della pericolosità, per voi e per chiunque altro, di entrare in contatto con me, direttamente o indirettamente, è che io sono ricercato da tutte le polizie del mondo in virtù di una serie di mandati di cattura internazionali emessi da non so più quali procure generali della indecorosa Repubblica Italiana (non molto tempo fa un cittadino svizzero condannato in Italia con me nello stesso processo - condannato in contumacia - e che certamente si sarà dimenticato dello sventurato avvenimento, è stato arrestato a Bombay, dove faceva dell'innocente turismo, dalla polizia indiana ed estradato in Italia), e ciò a una decina di anni, perché - con una sorpresa per me immutata nel tempo (e che ritengo non muterà mai) io sono considerato un terribile criminale. C'è stato un tempo in cui ho considerato questo fatto un onorevole conclusione di una modesta e non eclatante carriera di avvocato - impiegato - insegnante, nonché di marito - padre di famiglia - all'occasione amante, non particolarmente brillante. Il fatto è che ho avuto molto tempo per riflettere: un paio di anni in galera e molti, ormai molti anni di esilio.

Ebbene mi compete di spiegarvi, molto brevemente, la ragione per cui io godo di questa alta considerazione presso le polizie di tutto il mondo (ciò vale non solo per me, ma per molti altri nelle mie condizioni). Una volta la polizia di un paese in cui mi trovavo mi ha letteralmente "deportato", solo per qualche giorno in verità, insieme ad un manipolo di altri bravi giovani, in un paesino isolato sotto sorveglianza di un numero di poliziotti due o tre volte superiori al numero dei "deportati", nel timore, così si diceva, che organizzassimo un attentato a Reagan che era in quei giorni in visita da quelle parti. Poco dopo un mio vago conoscente, per ragioni ignote è stato espulso dallo stesso paese nel Burundi dove gli alti Tutsi esercitano la dittatura sui piccoli Hutu (e si tratta solo di alcuni esempi).

In breve: a quanto pare quello di impedirmi (a me come a molti altri) di prender parte, seppure nei ruoli non certo eccelsi che mi hanno consentito e mi consentono le mie qualità e capacità, alla lotta di classe del nostro paese ha costituito un obiettivo degno dell'attenzione di numerosi magistrati e poliziotti (il che, in un certo senso, dovrebbe tornarmi ad onore), anche a costo di montare "palle" di ogni genere, di una verosimiglianza men che minima.

Io sono stato condannato (e sono ricercato) perché accusato (a torto) di aver tentato di trasportare sulle mie spalle in Italia dalla Svizzera dell'esplosivo, per ragioni che nessuno ha mai saputo spiegare, esplosivo che in ogni caso in Italia non è mai arrivato. Inoltre sono stato condannato (e sono ricercato) perché accusato (a torto) di aver cercato di convincere un perfetto imbecille a diventare non gladiatore, ma brigatista rosso (cosa che in ogni caso il demente non ha mai neppure tentato di fare, neanche alla lontana. Infine sono stato condannato (e sono ricercato) perché accusato (a torto) di avere informato dei brigatisti rossi e non dei gladiatori, a che cosa corrispondessero le chiavi "trovate" in tasca ad un arrestato non gladiatore. (In realtà chiavi mai trovate, come nessuno si è mai preoccupato di stabilire che cosa avrebbero dovuto aprire. Ovvio, d'altronde, perché le chiavi in questione non sono neppure mei esistite).

Ma le prove, cari amici, le prove! Tutte dichiarazioni dei coimputati confessi dei più gravi reati, ma pentitissimi come agnellini, e, pertanto, oggi liberi come l'aria e coccolati dalle polizie di tutto il mondo. Io sono qui a scrivere lettere dal mio eterno e precario esilio.

Non molto tempo fa, i miei difensori hanno tentato di fare revisionare il "processo delle chiavi", sulla base di una dichiarazione del loro presunto detentore, secondo la quale egli puramente e semplicemente non deteneva alcuna delle famose chiavi. L'istanza è stata respinta in considerazione del fatto che il dichiarante era stato mio coimputato, senza considerare il fatto che chi mi aveva accusato e mi aveva fatto condannare era parimenti un mio coimputato, che non mi conosceva neppure, è che è uno dei "pentiti mascalzoni" più evidenti della nostra miserevole storia.

Che ne dicono quelli che, davvero o per finta, credono nello Stato di diritto?

Non ignoro naturalmente, la furia "giustizialista" che si è di recente abbattuta sull'Italia. non ho stati d'animo contro il dr. Di Pietro ed ancor meno a favore della famiglia Craxi. Tuttavia mi dispiacerebbe sapere chi tira le fila di questa nuova macchina di pentitismo. Non sarà per caso il solito principe gobbo che regola i suoi conti in sospeso con i suoi soci criminali?

Quella del "pentitismo" è una macchina che opera senza arresto e divora alla fina quegli stessi che l'hanno fabbricata e gestita.

In verità non è tutto. Qualche volta sono stato anche assolto.

Ricercato per anni sulla base di un mandato di cattura che mi colpiva, insieme a centinaia di altri bravi giovani, (né bravo, né giovane sono appellativi che competono a me personalmente), per aver promosso la guerra civile in Italia, sono/siamo stati tutti assolti perché di questa guerra civile malauguratamente (dico io) non si trovava traccia. Che emozione cari amici, che emozione!

Ma non basta ancora. Un giudice, della cui salute mentale molti dubitano (sono certo che ha spiccato mandato di cattura contro Arafat, e suppongo contro il defunto Breznev, contro Deng, ecc.), ed, ovviamente, sulla base di dichiarazioni di un pentito (mio ex-cliente che mi vergogno di avere a suo tempo tirato fuori dalla galera, sulla cui salute mentale è lecito nutrire seri dubbi), mi ha rinviato a giudizio per fatti letteralmente inesistenti e che se fossero anche mai esistiti, avrebbero costituito comunque reati largamente prescritti. Si dice che in sede di giudizio sono stato assolto. Grazie tante. Naturalmente il mio accusatore (reo confesso di gravi reati) ed il suo giudice sono liberi come l'aria, ed io sono qui a scrivere lettere dal mio eterno e precario esilio.

Ma, scusate, l'ultima e più comica circostanza (fra quelle a me note), un altro giudice ha tentato (con scarso successo, bisogna dire) di far stabilire da un famoso linguista se i miei tipici (sic!) giri di frase corrispondessero o no ai giri di frase usati in certi documenti "sovversivi". Credo che il senso dell'umorismo del famoso linguista abbia in definitiva evitato che questo capitolo della tragicommedia avesse seguito... Ci sarà di certo anche dell'altro, di cui non sono informato.

Naturalmente nel contempo sono stato privato, vita natural durante della facoltà di esercitare la professione di avvocato e di insegnante, e non godo del minimo diritto ad una pensione, nonostante la mia relativamente tarda età. Vedete voi le conseguenze.

Ma ora voglio lasciar perdere questi (per me) tuttora incombenti retroscena.

Certo gli stravizi finiranno con l'accelerare la conclusione del naturalmente breve percorso. E lo stravizio è il mio solo vizio. Non saranno stati a farlo i processi, le detenzioni, le condanne e le ricerche poliziesche, tutti fatti che (lo devo ammettere) oltre ad avermi infinitamente sorpreso, mi hanno a tal punto (non sempre però) divertito da contribuire ad allungarmi la vita, invece di abbreviarla.

Desidero brevemente informarvi delle acquisizioni intellettuali che mi sono state consentite da questo lungo periodo di riflessione.

Devo ammettere che, in conclusione, ed a modo mio, anch'io mi sono pentito.

Desidero spiegarvi il senso di questo "a modo mio".

Io non ho tentato di portare dell'esplosivo dalla Svizzera in Italia. Ma ogni volta che leggo - specialmente di questi tempi - un giornale italiano, mi pento di non averlo fatto in tempo utile.

Io non sono stato un brigatista, né ho collaborato con le BR altrimenti che difendendone alcuni militanti davanti ai tribunali della prima repubblica. In definitiva mi pento quanto meno di non aver praticato una milizia politica più attiva ed offensiva di quella che ho effettivamente praticato. Sono stato incoerente rispetto all'essenziale delle mie più profonde convinzioni.

Negli anni '70 (e perché non ora?) non era solo un dovere civico difendere gli interessi della classe (operaia e proletaria) da gladiatori, allora chiamati con i più svariati nomi e la cui attività era a molti ben nota, senza attendere le rivelazioni del principe gobbo (con la massima simpatia per i gobbi che non siano principi). Dico "non solo" perché per chi la pensa nell'ordine di idee a cui mi onoro di appartenere indegnamente (cioè per i comunisti), la difesa senza l'attacco costituisce una pura inetta astrazione. Negli anni '70 le condizioni soggettive (altra è la questione del giudizio da portare sulle condizioni oggettive) per coniugare la difesa con l'attacco erano certo state più favorevoli di oggi (benché ieri, oggi e domani le regole di fondo non cambino) e non averle praticamente sfruttate costituisce una responsabilità per molti, ad esempio me. ogni considerazione va riservata a chi, con incerte fortune, allora ha cercato di farlo. Quali che siano le sue attuali dichiarazioni. La stanchezza ed il male di vivere non sono stati inventati (solo sfruttati) da giudici e poliziotti. Stanchezza e male di vivere meritano che non si perda in vane polemiche (con l'evidente eccezione dei tradimenti e delle falsificazioni interessate). Del resto le città d'Italia sono piene di vie e piazze dedicate a Silvio Pellico, che non è stato il primo e non sarà l'ultimo del genere.

Negli anni '80 praticare efficaciemente la lotta di classe è stato certamente più difficile. nessuno ha fatto abbastanza. Io certo pochissimo e niente del tutto, dominato dalla preoccupazione di evitare le imboscate di queste numerose polizie, stolte nel cervello, ma certo attrezzate nei mezzi materiali in modo, per la mia modesta persona, spropositato. E di risolvere gli ovvi problemi di sopravvivenza.

Gli anni '90, ormai in corso, presentano dati nuovi, sia oggettivamente che soggettivamente. Vedremo.

E lo vedremo non solo per quanto riguarda ciascuno di noi, che oramai ha una certa età fisica e mentale, ma soprattutto per i più giovani, ai quali non è escluso possa venire qualche buona idea, che (speriamo bene) anche i vecchi finiranno con l'adottare. Per intanto per me, come per tanti altri, rinchiusi nelle galere, fuggiaschi qua e là, incriminati in Italia in una precaria condizione di cittadini di secondo ordine, per le stravaganti dichiarazioni di un "pentito" qualunque, per il fanatismo fascista di certi magistrati, mi sembrerebbe un punto di partenza non rinunciabile, anche se non essenziale per la storia della lotta di classe, ottenere lo stesso trattamento di un Licio Gelli (ben che io non abbia poesie da recitare in TV) o di un gladiatore qualunque (magari prossimo alla sessantina).

La Suprema Corte ha ripetutamente detto che una chiamata in correità senza riscontri obbiettivi per un mafioso presunto non basta. Perché per tanti (tra i quali mi metto) , è invece bastata e sta bastando? Perché se per Licio Gelli la mancata estradizione della Svizzera per un certo processo, impedisce anche la stessa celebrazione del processo in Italia, per altri non estradati (sempre dalla Svizzera) per un certo altro processo (all'occorrenza lo stesso mio processo), il processo è stato fatto, la condanna pronunciata ed il mandato (internazionale) emesso? Noi "criminalizzati rossi" dovremmo quanto meno ottenere un eguale trattamento giudiziario di quello riservato ai presunti mafiosi, criminali fascisti e gladiatori di ogni genere.

Oppure i nostri giudici si torcono le mani per non averci giudicati, a suo tempo, incappucciati, con microfoni deformanti della voce, senza pubblico, senza difesa, senza appello, come fanno oggi i giudici militari peruviani nei confronti di Guzman, e si propongono gli stessi risultati sebbene conseguiti con altri mezzi? Il paragone può sembrare esagerato, ma solo ciascuno di noi sa quello che vale e costa la sua vita.

Ciò almeno secondo la logica dello Stato "democratico" e "di diritto" e di quelli che mostrano di crederci.

Riconosco a priori che questa pretesa ha dell'insensato (ho nel passato cercato a lungo e con fatica di farla valere, non solo per me, ma per molti altri, ma invano) e che serve solo (ed anche poco) a dimostrare l'insensatezza e la reale vocazione criminale dei nostri giudici, poliziotti e compagnia. E certo non è che a voi queste considerazioni vanno poste. A voi che anche se detenete la più microscopica porzione di potere in questa disgustosa compagine sociale, non indirizzerei mai una lettera.

Mi lamento? Ebbene sì, mi lamento. Non nei confronti di uno Stato di diritto, in cui non ho mai creduto, di una magistratura la cui "dipendenza" ho ben conosciuto, di una polizia del cui risibile "servizio del popolo" non vale nemmeno la pena di parlare. Mi lamento dei compagni con i quali ho condiviso anni ed anni di lotte, che (a parte qualcuno, veramente pochi) ora trovano comodo pensare che gli esuli e le galere sono simpatiche scelte di vita e chi ci sta, presumibilmente ci si trova bene. Voglio ricordare che non è così. E basta.

Per vostra consolazione ho concluso, sempre che non abbiate già logicamente deciso di distruggere la lettera dopo la lettura delle prime righe. Chi vivrà, vedrà.

Non ho grandi pretese, ne grande fiducia. Non so, in verità, neppure se veramente mi interesserebbe molto tornare in Italia. Probabilmente mi basterebbe poter usare il mio nome senza rischi e (perché no) anche poter guadagnare da vivere come uno qualunque.

Naturalmente e come ogni rivoluzionario dabbene non ho rinunciato a fare la rivoluzione per il comunismo. Insomma non sono un post-moderno. Forse sono cose fra di loro incompatibili. E' una questione che merita approfondimento. Forse mi basterebbe solo che qualcuno facesse almeno dello humor su tragi-commedie di questo genere.

Vi ringrazio dell'attenzione e dell'eventuale pubblicazione.

Ottobre '92

Sergio Spazzali

fonte: www.senzacensura.org

venerdì 22 agosto 2014

quaderni piacentini

Il Sessantotto? Incominciò sui "Quaderni piacentini"

Di sinistra ma non dottrinaria, originale nelle analisi, spiazzante nei commenti: la rivista creata nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio raccolse un gruppo di intellettuali che dettero la sveglia nell'Italia sonnacchiosa appena uscita dal "boom". Dimostrando che "si può essere seri senza essere noiosi"
di: 
Carlo Donati
Parma la capitale del Ducato, Piacenza la dama di compagnia. È una storia plurisecolare che periodicamente si ripresenta. Ci mancava il riordino delle Province. Eppure in tempi moderni ci sono stati momenti in cui Parma ha temuto la rincorsa di Piacenza. Due in particolare. Il primo quando Enrico Mattei annunciò la scoperta del petrolio, poi si trattava solo di metano, ma la leggenda della benzina Supercortemaggiore funzionò a lungo…; il secondo quando a Caorso fu costruita la più grande centrale nucleare italiana come il preannuncio di una travolgente modernità. Poi sappiamo come è andata a finire.
Tra il petrolio e l’atomo c’è però stato un altro momento in cui Parma subì l’ombra della città sorella. Niente di speciale, sembrava, cento grammi di carta forse meno. Una rivista, insomma. Per di più si chiamava Quaderni piacentini , una testata così casalinga da non lasciare intravvedere orizzonti lontani. Il primo e il secondo numero, marzo e aprile 1962, erano proprio mucchietti di fogli battuti e macchina e stampati al ciclostile. Sotto la testata una indicazione generica, “a cura dei giovani della sinistra”. Nessuno se ne accorse, tranne i pochi a cui era stata inviata. C’era anche un breve editoriale che, al di là dei progetti battaglieri, aveva una spina dorsale unica per i tempi. I Quadernivolevano dimostrare che “si può essere seri senza essere noiosi. Con allegria”.
Poi iniziò una cadenza più o meno regolare, bimestrale, formato standard in volumetto, cinquanta pagine, un po’ di colore al principio solo nel dorso come finta legatura, più avanti nell’intera copertina, rosso, verde, giallo, viola, azzurrino, lilla, arancione. Non era casuale, tanto per fare, poiché “di tutti i colori” cominciavano a mostrarsi anche i contenuti. Insieme a faccenduole locali apparivano interventi sulla fine della guerra d’Algeria, saggi su De Sade o Genet e le poesie del ferroviere piacentino Vico Paveri. Ma fin dal principio apparve la rubrica che fece scandalo, i libri da leggere e i libri da non leggere. Da non leggere tutto Kerouac, da leggere Musil, da non leggere Opera aperta di Umberto Eco, da leggere Memoriale di Paolo Volponi, da non leggere Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino. Ci fu poi una breve interruzione nella rubrica, qualche lettore scrisse che gli sembrava un atteggiamento fra il goliardico e il cattolico, peggio paragonava l’iniziativa proprio all’ indice dei film, il manifestino appeso alle porte delle parrocchie con le varie indicazioni, per tutti, per adulti, adulti con riserva, sconsigliato, escluso. Era uno schiaffo che bruciava, i redattori si fermarono un numero, ci pensarono e poi ripresero. Indubbiamente c’era arroganza e spocchia in questo modo di liquidare un libro, spesso senza averlo nemmeno letto, ma quelle quattro righe a numero servivano ad attirare lettori e nuovi collaboratori un po’ affascinati da quel radicalismo libertario. Anche i più agguerriti stroncatori del Gruppo 63 che facevano tremare i romanzieri italiani finirono sulla graticola. All’inizio le tirature non superavano le duecentocinquanta copie. I primi due numeri vennero spediti in omaggio a una serie di persone scelte per varie affinità. Al terzo numero i destinatari furono invitati a sottoscrivere l’abbonamento.
Il nome del direttore era comparso nel secondo fascicolo ciclostilato: Piergiorgio Bellocchio. Un trentenne conosciuto in città sia per il prestigio della famiglia sia perché era stato tra i fondatori di un circolo di sinistra che si chiamava “Incontri di cultura” dove si erano ritrovati altri giovani borghesi di varie provenienze, socialisti, comunisti ed ex comunisti, cattolici, radicali e libertari senza patria, impazienti di ascoltare qualche novità. Un gruppo molto eterogeneo che però funzionò, in una stagione di fine anni Cinquanta culturalmente dormiente, e non solo a Piacenza, portando in città intellettuali di rilievo, Franco Fortini, Danilo Dolci, Ernesto De Martino, Enzo Paci, Carlo Bo e altri poeti, filosofi, antropologi, letterati, allora sconosciuti ai più.
Quello era il sentiero. I Quaderni si affermarono quasi subito se non nelle tirature almeno nella circolazione. La rivista prese a pubblicare l’elenco delle librerie che avevano accettato di tenerne qualche copia persino in vetrina. Già a metà del 1963 le librerie era più di trenta, da Milano a Reggio Calabria, da Torino a Trieste, e naturalmente in Emilia, in quasi tutte le città, tranne una. Guarda caso era Parma. Non credo che Bellocchio e Grazia Cherchi, l’altra piacentina entrata nella redazione, anche lei borghese benestante e irrequieta, vedessero ancora Parma come l’usurpatrice del ducato. Credo piuttosto il contrario e cioè che i librai parmigiani avessero fatto spallucce, ancora prima di ascoltare di che cosa si trattava. Quaderni? piacentini?, ma va là, ci bastano le carte da briscola.
Redazione, tipografia, diffusione, abbonamenti. Si faceva tutto in casa dell’editore-mecenate, cioè lo stesso Bellocchio. Era morto il padre, famoso avvocato, e Piergiorgio il più grande dei figli si era ritrovato capofamiglia. Con i beni ereditati finanziò l’avvio dei Quaderni e l’anno dopo, per equità, contribuì alla produzione del film I pugni in tasca che segnò il debutto nella regia di Marco Bellocchio, uno dei tre fratelli. Degli altri due Alberto lavorava alla Cgil e Antonio era in magistratura.
Poco prima o poco dopo erano comparse altre pubblicazioni di sinistra, che sembravano ben più importanti ma che ebbero una vita brevissima, Quaderni rossi sparì dopo cinque anni, Classe operaia dopo pochi mesi. Piano piano invece la rivista piacentina vide lievitare le tirature, mille copie, duemila, duemilacinquecento. Tant’è che non di rado qualche scrittore ignorato faceva sapere che non gli sarebbe dispiaciuto finire anche sotto la mannaia della rubrica “da non leggere”. Qual era la ricetta? Boh, di preciso nemmeno i fondatori lo hanno saputo spiegare. Di sinistra, ma non dottrinari, criticissimi col Pci ma non anticomunisti, marxisti anarcoidi e persino liberali non lontani dalMondo di Pannunzio e dalla Rivoluzione liberale di Gobetti.
Secondo la vulgata il loro padre putativo sarebbe stato Franco Fortini. Ancora oggi si parla di una famosa “Lettera agli amici di Piacenza” del 1961 che sarebbe stata la base programmatica della rivista. Sarà, ma si tratta di un documento che sembra piovuto da un qualche comitato centrale e perciò quasi incomprensibile. In realtà quelli dei Quaderni rimasero tramortiti dalla personalità di Fortini, l’intelligenza, la cultura, la straordinaria capacità di lavoro, l’esperienza, le relazioni internazionali, i viaggi. Poi per fortuna fecero di testa loro e dopo qualche anno ci fu l’inevitabile parricidio.
E allora? Sfogliati a distanza di mezzo secolo i Quaderni, specialmente nella prima fase, conservano un pregio fondamentale e rarissimo nelle riviste politiche, si lasciavano leggere, chiunque appena un po’ al corrente dei tempi capiva ciò che c’era scritto senza arzigogoli ideologici o accademici. Quanto ai contenuti, oggi sembreranno scontati, tipo la rivoluzione culturale cinese, il Vietnam, Cuba e simili. Ma nessuno come loro aveva saputo raccontare la “new left” americana e i moti studenteschi all’università di Berkeley, oppure aveva aperto un dibattito sul turismo italiano in Spagna, domandando se la nuova moda fosse un aiuto al popolo minuto o un puntello per la dittatura franchista. C’era poi tutto un contorno di analisi e commenti anticonformisti, spregiudicati, a volte sprezzanti, ma quasi sempre spiazzanti. Per esempio un caparbio intervento sulla “licenza di uccidere” concessa alla Fiat a causa di certi difetti di fabbricazione che avrebbero reso oltremodo pericolosa la Seicento.
La pattuglia dei collaboratori si allargò man mano che la rivista cresceva. Fortini, Giudici, Solmi, Cases, Roversi, Jervis , Raboni e altri; superfluo dire che tutti scrivevano gratuitamente, così come i redattori lavoravano gratuitamente: ai letterati Bellocchio e Cherchi si era aggiunto Goffredo Fofi col suo corredo di sapienza cinematografica. Bellocchio in persona, direttore, editore e magazziniere, almeno nei primi anni girava l’Italia col baule della macchina pieno di pacchi, rappresentante di se stesso, a visitare le librerie e a proporre la rivista.
Ma perché , nel 1962, c’era bisogno di una pubblicazione così intellettualmente velleitaria e ribelle? L’Italia era ancora sotto l’effetto del miracolo economico, il “papa buono”, Giovanni XXIII, aveva avviato la riforma della Chiesa col Concilio Vaticano II, il presidente Kennedy e il leader sovietico Krusciov si erano parlati e Krusciov aveva ritirato i missili da Cuba, a Roma si era formato il primo governo di centrosinistra. Il mondo sembrava avviato alla pacificazione.
Dunque? Purissima intuizione, sguardo lungo e capacità di cogliere che qualcosa stava bollendo nella pancia del Paese e non solo. Era il Sessantotto. E i Quaderni piacentini lo anticiparono diventando il giornale del Movimento studentesco. Dalle tremila copie del 1965 è stato un crescendo. Se si affacciava qualche bilancio in attivo loro riducevano il prezzo di copertina. Quattromila, cinquemila copie, ottomila del 1968 e ancora oltre, dieci, dodicimila nei due anni successivi. Nel 1969, da buon radicale, Bellocchio prestò la propria firma legale di direttore responsabile, con adeguata serie di guai giudiziari, per consentire l’uscita di Lotta continua come fecero poi anche altri volontari, Pannella, Roversi, Pasolini, in nome della libertà di espressione.
Piacenza diventò il punto di riferimento e di incontro fra ciò che capitava sulla direttrice Roma-Milano passando per Bologna, capitale del comunismo dal volto umano, dove si stava concludendo la stagione del sindaco Dozza. Si diceva Piacenza per intendere via Poggiali 41, la storica sede dei Quaderni , oltre che casa di Bellocchio, senza trascurare l’importanza di adeguate osterie e trattorie nei dintorni. Che poi certe riviste siano nate e prosperate a tavola lo hanno sperimentato gli stessi bolognesi del Mulino.
Anche i librai parmigiani si erano rassegnati a tenere quella rivista. Piacesse o no alla “petite capitale”, la cugina povera era di nuovo sui giornali. Non in prima pagina come era accaduto col petrolio e come stava per accadere con l’atomo, ma in una sezione tutt’altro che di massa, la cultura, una nicchia di lettori, però forse più fastidiosa perché riguardava le élite intellettuali. Piacenza dava lezione. Scoprii la rivista grazie a un mio ex compagno di scuola, Giorgio Gennari, scomparso prematuramente, spirito curioso e irrequieto, giornalista, attore e poi tra i fondatori del Teatro Stabile di Parma e infine direttore del Teatro Festival. Ricordo la rabbia quando non riusciva a trovare il giornale, da una parte ammirato dall’altra irritato che qualcosa del genere mancasse a Parma.
Toccata la vetta delle dodicimila copie, mentre alcune frange del Movimento deragliavano verso la P38 anche i Quaderni cominciarono a perdere smalto, pur restando ancora la rivista più diffusa. Magari leggermente in ritardo nel comprendere che le Brigate rosse erano di sinistra, però si schierarono contro il terrorismo. Bellocchio peraltro non ha mai mancato di smascherare le cretinate dei finti operai e dei finti studenti ai tempi dei primi cortei violenti e più avanti ancora il sinistro cammino, di banalità in banalità, verso la lotta armata.
Nel frattempo, a metà anni Settanta, la rivista si riempì di professori universitari e delle loro analisi politiche, sociologiche, economiche, a scapito della parte letteraria, e si sa come scrivono gli accademici. Già in quel periodo Bellocchio propose di chiudere la partita. Ci fu una sospensione poi riuscirono a convincerlo nel proseguire fondando una piccola casa editrice, Gulliver, che pubblicò la rivista per un paio di anni abbandonando la storica sede per trasferirsi a Milano. Dopo di che intervenne un editore vero, Franco Angeli, specializzato in saggistica. Direttore già molto riluttante rimase Bellocchio. La rivista era diventata quasi un volume, dato che i fascicoli oscillavano attorno alle duecento pagine. Sfogliati oggi i numeri della nuova serie quasi non si distinguono dal Mulino, il che può essere un’insolenza o un complimento, dipende dal punto di vista. L’ultima uscita dei Quaderni fu il numero 15 del 1984. Un addio senza una lacrima.
Ormai l’imprinting del fondatore non c’era più. Soprattutto come organizzatore di cultura. Quanto al Bellocchio scrittore, nei ventidue anni della rivista, è stato ovviamente presente ma non come avrebbe dovuto e forse voluto. Come esempio basteranno due dei suoi interventi, uno dei primi o forse proprio il primo, e l’ultimo alla vigilia della chiusura. Il primo risalente al 1962 si può facilmente rileggere perché circola sul web. È il magistrale articolo che dedicò al suicidio di Marilyn Monroe interrompendo il piagnisteo di maniera della grande stampa che se la prendeva con il moloch Hollywood. L’ultimo, del 1984, mostra Bellocchio in forma smagliante. Si tratta di una invettiva, liberatoria e smodata, intitolata “Vecchi libri”. Solo l’incipit: «Nel mio odio verso tutto ciò che è “novità editoriale” – per il 99% porcheria inutile che viene prodotta unicamente perché esiste un’industria culturale, cioè per alimentare una macchina affinché produca altra porcheria – sfogo il vice impuni rileggendo, o leggendo per la prima volta, libri che già possiedo». Poi prosegue affermando che o rari acquisti li fa sulle bancarelle, nonostante anche qui il 99% della merce sia «porcheria, invenduta perché invendibile». Lo scrittore cinquantenne è pronto per una nuova rivista, che sarebbe arrivata l’anno dopo, si chiamava Diario , scritta interamente da lui e da Alfonso Berardinelli, un compagno dei Quaderni . Cadenza all’incirca semestrale, brevi racconti, saggi ispidi e beffardi, analisi amare e pessimistiche. Ma anche questa “si faceva leggere”. Qui Bellocchio , finalmente libero anche dagli amici, ricorda Karl Kraus e le sue spietate requisitorie contro l’establishment viennese pubblicate su Die Fackel (La fiaccola), la rivista che compilò per quasi trent’anni interamente da solo. Con la differenza che mentre Kraus metteva tutto al servizio della polemica, Bellocchio mette tutto, anche la polemica, al servizio della scrittura. Come direbbe Giorgio Manganelli che, nonostante le apparenze romane, era cresciuto non lontano da qui, a Roccabianca, le sue pagine si preannunciano con “il rumore sottile della prosa”. Bellocchio è un fior di scrittore, e un letterato, uno degli ultimi di coloro che sapevano spiegare la realtà meglio degli “scienziati”, categoria alla quale si sono iscritti abusivamente filosofi, storici, sociologi, economisti e altro ancora.
Fermo restando che a volte si fa amare a volte si fa odiare, la sua prosa limpida ti porta a seguirlo su qualunque strada persino in un burrone. Cesare Cases uno dei principi della critica letteraria arrivò in via Poggiali proprio perché attirato, anzi “folgorato” da quel giovane di provincia che “bagnava il naso” a loro, vecchi intellettuali, che si credevano gli ultimi custodi della “parola defunta”. Che cosa c’è dietro la scrittura di Bellocchio? Diverse cose, tra cui il talento naturale, ma innanzi tutto la vastità delle sue letture. Un aspetto mai messo in mostra. Occorre una minuziosa attenzione per rendersene conto perché quando gli sfugge una citazione sembra capitata lì en passant , senza parere. Ce n’è una per esempio nell’incipit di quell’ultimo articolo sui Quaderni , due parole scritte in corsivo, vice impuni . Così alla sprovvista, che cavolo sarà, italiano, latino o che altro? Scoprirlo è stato un buon esercizio. Del resto a un certo momento lui stesso ha dovuto ammettere che quando ha scelto quella testata casalinga non era un atto di modestia, ma scrivendo “quaderni” pensava ai Cahiers in francese, sempre quaderni, ma roba da intellettuali. Oltre ai Cahiers du cinéma , i più noti, ce n’è un’altra dozzina o più, in varie materie. Tutti figli dei “cahiers de doléances” con i quali cominciò la Rivoluzione francese.
Piacenza, credo di poter dire, ha bellamente ignorato a lungo questo concittadino. Non vorrei sbagliare, ma il quotidiano cittadino, la Libertà , ha aspettato addirittura che compisse gli ottant’anni, nel 2011, per dedicargli finalmente uno spazio adeguato. Forse è stata colpa anche dello stesso scrittore che ha voluto minimizzare e infine sperperare le proprie qualità. Per esempio quel pagare di tasca propria la possibilità di scrivere, ritenendo una bestemmia essere pagati per ciò che si scrive, è di un nichilismo e di una presunzione sfrenati.
Anche i libri che poi gli hanno richiesto i vari editori, dal primo I piacevoli servi(Mondadori, 1966) all’ultimo Al di sotto della mischia (Scheiwiller, 2007), li ha fatti con qualche pigrizia e quasi interamente confezionati con pagine già scritte e pubblicate su settimanali e quotidiani oltre a quelle dei Quaderni e di Diario . E sono tante, nemmeno lui sa quante.
Nel 2004 alla viglia del convegno per il ventennale, “Quaderni piacentini, 1962-1984”, alcuni fra i relatori chiesero di sfogliare gli archivi della rivista. E Bellocchio, più divertito che imbarazzato, rispose che non c’era niente. Mai steso un verbale, mai un ordine dei lavori, un progetto o altre quisquiglie; quanto alla corrispondenza, forse c’era rimasta qualche lettera chissà dove, ma per lo più era stato buttato via tutto.
Dunque che cosa c’è di sopravvissuto in via Poggiali 41? I cronisti favoleggiano di una casa-studio dove l’ex direttore, che a quanto so abita da tutt’altra parte, conserverebbe chissà quali tesori. Ma certo, migliaia di libri, ecco che cosa conserva. Un giorno ci sono andato apposta. È una strada anonima con un sentiero acciottolato al centro che vorrebbe ricordare il passato e un condominio enorme incastrato nella vecchia città. Ero disposto persino a suonare il campanello, da maleducato senza preavviso, ma non ho trovato tracce. Poi nel deserto della via ho incontrato un distinto e gentile signore che svoltava dall’angolo con via San Marco. A occhio, questo signore doveva essere già un giovanotto negli anni Sessanta, allora l’ho fermato e gli ho chiesto se abitava nei dintorni, mi ha detto di sì. Così gli ho domandato se aveva sentito parlare dei Quaderni piacentini. Si è mostrato interessato, ci ha pensato su, poi mi ha suggerito di rivolgermi alla cartoleria là in fondo all’incrocio con via Garibaldi, là li avrei trovati di sicuro i quaderni.
Piergiorgio Bellocchio
Piergiorgio Bellocchio

fonte: www.infinitetracce.it

mercoledì 20 agosto 2014

tra Kissinger e Robin Williams ci siamo noi, zona grigia

Sei sei un fenomeno, con “numeri” fuori dal comune, puoi diventare due cose assolutamente opposte: Robin Williams, oppure Henry Kissinger. Così Paolo Barnard commenta la tragica scomparsa del geniale attore americano. Racconta: «Mi fu detto una volta: “Chi nasce con il talento vulcanico, la personalità esplosiva e mercuriale, con capacità elevate, e quindi eccelle in positivo, corre un rischio orrendo: e cioè che questa immensa mole di energia si sdoppi con la stessa potenza nell’alimentare il suo demone interno. E la sua devastazione sarà esattamente pari alla sua esaltazione”». Nella storia, la lista di uomini e donne cui questo è accaduto è infinita. «Quando un essere umano si trova nelle condizioni sopra descritte ha due scelte. Se accetta di rimanere umano, e quindi di portarsi addosso i demoni della propria anima, se accetta di parlare alla sua anima, vive ogni attimo dell’esistenza appeso a una fune che lo solleva in paradiso, e poco dopo lo cala all’inferno, e via così di continuo, ogni giornata, anno dopo anno. Reggere diventa a un certo punto impossibile, e la si fa finita: Williams».
Altrimenti, continua Barnard, l’uomo o la donna di enorme talento «ammazzano, nel senso che proprio disintegrano ogni grammo della loro Robin Williamsumanità, e con esso i demoni dell’anima, l’anima stessa». Il risultato? «Sono persone robotiche, prive di qualsiasi sentimento, con l’anima vitrea e incenerita. Tutto il loro talento a quel punto può solo fare una cosa: fare del male. Kissinger». Morale: «Fine delle scelte. Viva la vita, eh?». Questo, però, vale per le eccellenze assolute, le persone straordinarie. E tutti gli altri? Il nazismo, ricorda Primo Levi, non regnò grazie al “genio” di Hitler o al sadismo efferato di qualche gerarca fanatico: riuscì a imporsi, per lunghi anni, solo grazie all’acquiescenza decisiva della cosiddetta “zona grigia”, quella che trasforma i testimoni dei carnefici in loro complici, se restano passivi di fronte all’abominio. «Che ne dite di un po’ di porca verità?», propone Barnard. Oggi sappiamo esattamente come funziona la struttura del super-potere oligarchico, sappiamo perfettamente che è di natura totalitaria, eppure non muoviamo un dito.
«C’è l’Impero americano, quello russo, e altri. C’è il Bilderberg. C’è la Trilaterale. C’è la Massoneria. C’è il complesso finanziario, mostro globale. C’è il complesso militare industriale. Ci sono decine di migliaia di lobby di servizi, finanza e industria. Ci sono i colossi dell’Agribusiness, coi loro veleni. Ci sono le Mafie. C’è la speculazione multimiliardaria di Big Pharma sulla nostra salute. Insomma, ci sono gli squali dell’umanità, i vampiri che uccidono, straziano, succhiano sangue degli esseri umani». E noi, che facciamo? «Oggi voi sapete tutti», sottolinea Barnard. «Ci sono i giornalisti che v’informano rischiando la vita, la carriera, sfinendosi sul lavoro, e sono persino in Tv (“La Gabbia”, La7). Ci sono le band rock che lo fanno, “Muse”, “Linkin Park” e altri. C’è la Rete, che vi avvisa su centinaia di migliaia di siti Henry Kissingeraccessibili gratis. Ci sono le Ong con grande visibilità che tentano di farvi capire».
Ormai non ci sono più scuse: esistono «mezzi di comunicazione e organizzazione civica di massa che sono centomila volte quelli dei proletari del ‘900». Eppure, aggiunge Barnard, grande attivista “sovranista” della Mmt, l’economia democratica, «tutto quello che facciamo per voi diventa cenere». Perché? «Perché tutto viene distrutto dalle vostre orde, da voi: lagggènte. Tutto. Nulla sopravvive alla gggènte, soprattutto ai gggiòvani, che macinano in sguardi istupiditi tutto, tutto, non gliene frega un cazzo di sapere niente». E allora diciamocela, “la porca verità”: «Chi sono i porci del mondo? No, non i Padroni, non gli Imperi, ma la ggggènte, e i gggiòvani. Se ne fottono dei mezzi che gli diamo per salvarsi la vita e la dignità. La gggènte e i gggiòvani macinano secoli di lotte, e di intelletti immensi che hanno lottato per loro, in merda. Pur di avere un iPad, il pub, le spiagge, le chat, e altre porcate del genere. Non danno un solo minuto della loro vita all’impegno umano e Barnardsociale,non un minuto, loro, la gggènte e i gggiòvani. Non gli frega un cazzo di nient’altro».
Milioni di persone stanno andando tranquillamente al macello, ogni giorno, nell’immenso mattatoio socio-economico chiamato Eurozona, mentre il mondo intorno – il vecchio mondo, uscito dalla fine della guerra guerra – sta letteralmente crollando, schiantato dalla geopolitica globalista imperiale e dal dominio assoluto delle élite. Una carneficina, che si nutre di continui sacrifici umani, dall’Ucraina ai bambini di Gaza. Ma nessuno fa mai nulla per opporsi alla “dittatura” del vero potere. «E’ nazista – si domanda provocatoriamente Barnard – dire che il massacro di ’ste masse, che non hanno più giustificazioni oggi, è solo giustizia?». Disse il rivoluzionario francese Danton: «Tu hai i diritti per cui sei stato disposto a combattere». Viceversa, chiosa Barnard, «vivi da cane, e muori da cane. Ed è… giusto. Non date la colpa al Potere». A cui, del resto, non mancheranno mai i Kissinger. Quanto ai Robin Williams, difficilmente arrivano all’età della pensione, men che meno in un mondo trasformato in immensa “zona grigia”.

fonte: www.libreidee.org

Jack Nicholson



IL MEGLIO DEL PAZZO