sabato 10 maggio 2014

l'ultimo discorso di Aldo Moro

 di Lucio D'Ubaldo

Un testo oramai classico. Più volte esaminato e commentato, il discorso ai gruppi parlamentari - l’ultimo prima del rapimento e l’uccisione – è il testamento da cui ricavare il carattere quasi profetico, nonché tutte le qualità e tutte le ambizioni dell’esperienza politica di Aldo Moro. Un discorso che richiede tuttavia lo sforzo di rivivere le asperità di un tempo consumatosi brevemente nella ricerca di uno spazio di collaborazione tra le grandi forze popolari del Paese. Di fronte ai rischi di una crisi irreversibile, resa più acuta dalla minaccia quotidiana del terrorismo, spettava all’uomo più influente della Democrazia cristiana il compito di delineare le potenzialità e i limiti di un’intesa politica con il Partito comunista.

Solo la consapevolezza della gravità di quel momento storico aiuta quindi a capire, a distanza di molti anni, la complessità e il vigore dell’intervento di Moro. Qual era il problema? Dopo le elezioni del ’76 si era riusciti a trovare un accordo faticoso su un monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, che in Parlamento aveva ricevuto la cosiddetta “non sfiducia” da parte di una vasta rappresentanza parlamentare, ivi compreso il Pci. Ora, dopo diciotto mesi, quell’intesa mostrava la corda. All’ordine del giorno finiva per essere inserita pertanto la richiesta di un ulteriore passo in avanti, con il superamento della preclusione a sinistra e l’ingresso dei comunisti al governo. A spingere in questa direzione erano gli stessi socialisti, perché la nuova segreteria Craxi ancora non aveva preso in considerazione l’abbandono della linea pregiudizialmente unitaria su cui, per altro, era naufragata la politica degli “equilibri più avanzati” di De Martino.

Il 16 gennaio 1978 il Presidente del Consiglio rassegnava le dimissioni. Di lì a poco, nel comitato centrale del 26-28 gennaio, il Pci dichiarava che ormai non poteva più reggere il “quadro entro il quale si era svolta la vita politica italiana durante trenta anni”. E Berlinguer, incalzando duramente il partito di maggioranza relativa, era persino arrivato a dire nella sua relazione che “nel caso di un aggravamento della crisi governativa…[era giusto] avanzare […] l’idea che il partito democristiano non si oppon[esse]” alla costituzione di “un governo per iniziativa dei partiti che hanno chiesto un cambiamento del quadro politico”.

L’ipotesi dunque che la Dc rimanesse isolata, perdendo la propria centralità e finendo all’opposizione, non era affatto un’astrazione.
L’onda lunga del ’68 e il referendum sul divorzio del ’74 avevano logorato l’egemonia democristiana. Per contro, ampi settori del ceto medio e parte della borghesia laica sentivano l’attrazione verso la nuova politica del “compromesso storico”, simbolo della volontà del gruppo dirigente berlingueriano di portare alle estreme conseguenze la scelta irreversibile in favore della democrazia come terreno ordinario di confronto per l’azione stessa del movimento operaio. Anche sul piano delle relazioni internazionali il vecchio neutralismo di stampo togliattiano cedeva il passo a una sorprendente e coraggiosa accettazione dell’Alleanza atlantica, sotto il cui ombrello protettivo il Pci sentiva di poter incarnare in Italia la funzione di plausibile alternativa democratica.
Date queste novità, la pregiudiziale anticomunista sembrava sul punto di cedere.

Moro si presenta, in quel contesto, come il leader dell’autocritica severa e insieme del grande orgoglio democristiano: vale a dire, solo tenendo unite le due istanze concepisce e descrive il futuro di un partito ancora forte e ancora centrale per gli equilibri politici del Paese. Impresa difficile, resa ancora più difficile dalla cruda realtà dei rapporti di forza. Quando nel ’69 aveva rotto con la maggioranza dorotea, Moro sapeva di misurarsi con un partito in apparenza florido e sicuro di poter gestire a lungo il potere. Ben altra era adesso la situazione, avendo le elezioni del ’76 portato alla ribalta due vincitori: la Dc e il Pci. Ed egli teneva a precisare, proprio nel suo ultimo discorso, che due vincitori in una elezione creano sempre un problema.

Allora la missione era chiara e ciò nondimeno insidiosa. Certamente per Moro la crisi andava risolta, perché al Paese bisognava pur dare un nuovo governo che grazie al contributo formale ed esplicito del Partito comunista potesse godere di maggiore stabilità e capacità operativa. Tuttavia, mentre Andreotti e Zaccagnini manifestavano qualche margine di disponibilità, il presidente della Dc esprimeva apertamente le sue riserve sull’ingresso dei comunisti nell’esecutivo.
Si trattava perciò d’individuare il sentiero stretto attraverso il quale proseguire, anche se con gradualità, su quella linea del confronto che nella visione morotea avrebbe dovuto portare a un ulteriore sviluppo della democrazia italiana, legittimando il Pci come forza di governo.

Tutto ciò non incrinando l’unità della Dc, unico vero dogma inespugnabile della strategia morotea. Senza questa certezza, non era immaginabile la tenuta dell’equilibrio politico.
E senza questo equilibrio, il Paese sarebbe piombato fatalmente nell’anarchia e nella violenza. Occorreva uno sforzo straordinario a cui doveva corrispondere, sul piano delle formule di governo e delle relazioni parlamentari, una estrema flessibilità. Quella stessa, dice Moro, che nel corso di vari decenni aveva garantito alla Dc di presentarsi al Paese nella sua permanente funzione di baricentro della vita politica nazionale.

Sullo sfondo rimanevano le elezioni. Ai settori più moderati del partito Moro lascia intendere che non esclude a priori questa eventualità, benché ne veda i contorni rischiosi e l’esito niente affatto scontato. Ciò che comunque rifiuta, fermamente, è un passaggio elettorale come segno d’impotenza e d’irresponsabilità. Invece la Dc era chiamata ad esercitare, al cospetto di una pubblica opinione smarrita e preoccupata, il massimo della sua responsabilità in quanto elemento decisivo ed aggregante del sistema democratico. E qui poteva riscoprirsi, per effetto di una prova di saggezza e di coraggio, il nucleo vitale di una nuova centralità politica, tutta da guadagnare sul campo e in piena sintonia con le grandi emergenze del Paese.
In questo senso, conclude Moro, il “futuro è ancora nelle nostre mani”.

Entro tale cornice prendeva corpo l’intesa per un nuovo governo Andreotti. La linea di Moro passava a maggioranza, non senza resistenze palesi ed occulte. L’8 Marzo un vertice dei cinque partiti (Dc-Pci-Psi-Psdi-Pri) approvava le linee programmatiche e tre giorni dopo Andreotti presentava al Quirinale la lista dei ministri. Ad una settimana dalla strage di Via Fani, la tensione rimaneva comunque alta: ai comunisti suonava infatti come una beffa la riproposizione di un monocolore a guida andreottiana privo di tecnici o personalità indipendenti. Nessuna novità saliente, dunque, come se l’allargamento della maggioranza parlamentare non dovesse produrre effetti sulla compagine governativa.

Nonostante la fiducia nei confronti di Moro, alle Botteghe Oscure montava l’irritazione per un epilogo così arido e deludente. Qualcuno, retrospettivamente, ha adombrato il dubbio che il Pci avesse maturato in quei giorni il convincimento di votare contro il governo. Sebbene a smentirlo abbiano provveduto in molti, è impossibile confutare lo stato di agitazione e sbandamento in cui Berlinguer fu allora obbligato a muoversi. Non a caso Gerardo Chiaromonte ha riportato, quasi dieci anni dopo, una voce secondo la quale Moro avrebbe imposto quel tipo di struttura ministeriale con l’obiettivo di costringere il Pci a negare la fiducia, provocare quindi lo scioglimento delle camere e, solo dopo un nuovo passaggio elettorale, ipotizzare di riprendere la politica della solidarietà nazionale. Il fuoco brigatista avrebbe invece cancellato tutto: di colpo speranze, timori e sospetti perdevano ogni valore sotto la cappa di un attacco allo Stato, sferrato con inusitata potenza geometrica.

In ultimo, urge una domanda. Perché il discorso di Moro, stando al giudizio di Pio Marconi, merita di entrare in un’antologia di testi scolastici e negli studi di scienza della politica? Rileggendolo o ascoltandone la registrazione, si prova un qualche disagio per un’impostazione retorica che stride con la sensibilità e il ritmo derivanti dalla logica odierna degli spot televisivi.
Quanta distanza tra ieri e oggi, anche se Moro non parla nell’Ottocento! Dopo trent’anni, vale a dire nello spazio di una generazione appena, si deve cogliere un mutamento radicale nella forma comunicativa e nella struttura significante della messaggio politico. Nessuno è più in grado, probabilmente, di seguire e apprezzare la complessa macchina argomentativa del discorso di Moro.

Eppure quel modo di procedere spiegare e costruire, ovvero quella lucidità nel dominio della materia bruta di fatti e problemi, quasi fossero parti necessarie di un ordinamento inevitabile, e ancora quel controllo severo dei rapporti di forza e delle spinte oggettive, su cui bisogna applicare con intelligenza la forza del disegno politico; ecco, tutto questo s’incarica di trasmettere a chi si accosta alle ultime riflessioni di Moro un senso d’inconscia ammirazione. I problemi di oggi sono radicalmente diversi.
Non ci sono più i partiti ideologici, nati dalla Resistenza antifascista, né sussiste più la lotta politica che li ha generati e sostenuti nel corso della Guerra Fredda. Potremmo archiviare questo passato, compreso Moro.
Perché non lo facciamo?
Perché di Moro ci rimane la suggestione di un pensiero politico che interviene negli interstizi della storia di questo Paese, ne analizza le tendenze di fondo, i vizi e le generosità, gli slanci e le resistenze. Perché quel pensiero è in grado di elaborare una prospettiva nuova e ci regala, ancora oggi, una lezione di realismo e al tempo stesso di creatività. Perché, in ultimo, dietro la facciata delle cose legate a una precisa stagione politica c’è tutta intera la passione che serve, anche cambiando le coordinate, a organizzare un processo politico nuovo.
Intendiamoci, non è solo questione di metodologia.

Ci vuole molto di più che non la fredda elaborazione di procedure logiche per arrivare a dire che “il futuro è ancora nelle nostre mani”. Soprattutto, avendolo detto, ci vuole capacità di persuasione per fare in modo che l’affermazione - ardita anche per noi, cristiani non più democristiani - penetri nella coscienza e nei sentimenti degli interlocutori.
Una capacità ben presente in Moro, segno tangibile di energia morale e determinazione politica.

Le Sorgenti
(Giugno 2007)
fonte: odisseamoro.blogspot.it

Nessun commento:

Posta un commento