mercoledì 7 maggio 2014

in Piemonte inquinamento radioattivo dal 1967





di Gianni Lannes


Ecomafie di Stato e multinazionali del crimine a piede libero. In questo caso il livello di criminalità impunità è marcatamente istituzionale: le scie chimiche danno la botta finale alla salute collettiva già martoriata. In un Paese civile il popolo sovrano dovrebbe come minimo insorgere a ragion veduta. Invece.

Quasi mezzo secolo di contaminazioni nucleari nascoste alla popolazione italiana, ma certificate dall’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Radionuclidi dispersi nel territorio, falde acquifere comprese, incluso il fiume Po che solca appunto Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto prima di gettarsi nel mare Adriatico. Eppure le autorità negano l’evidenza, mentre la gente si ammala e muore.







I documenti scientifici e i rapporti tecnici del CNEN (dal 5 marzo 1982 ENEA)  e dell’ENEL, già dal 1971 parlano chiaro. Purtroppo tali informazioni vitali sono rimasti nei cassetti accademici e istituzionali. E le conseguenze ambientali e sanitarie? Semplicemente oscurate dallo Stato, ovvero da tutti i governi tricolore mandati in onda nell’ultimo mezzo secolo. Il famoso oncologo, professor Umberto Veronesi in un convegno a Milano il 10 aprile scorso ha dichiarato: «50 anni fa si ammalava di tumore un italiano su 30, oggi si ammala un italiano su tre. E in futuro se ne ammalerà uno su due» 

Nel settentrione d’Italia tre nomi per tutti: Trino Vercellese, Saluggia, Bosco Marengo. Vale a dire: nel primo caso una centrale nucleare, e poi industrie (Fiat, Eni, Enel, Sorin) per la fabbricazione del combustibile nucleare anche di altri Stati, addirittura fino al 1995, 7 anni dopo il primo referendum nazionale che ha bandito l’energia atomica.

Basta compulsare il periodico Notiziario del CNEN per rendersi conto della catastrofe silenziosa in atto. In seguito non lasceranno più trapelare nulla, ma nel 1976 (numero 7-luglio) si legge: 

«TRINO 1967-1970: In occasione della prima fermata per ricarica del combustibile vennero riscontrati estesi danneggiamenti alle strutture di sostegno del nocciolo del reattore. Oltre allo spostamento dello schermo termico, si riscontrò la rottura di quasi il 50% dei bulloni di collegamento tra la parte inferiore e quella superiore del cilindro di sostegno del nocciolo, la rottura del 70% dei tiranti nella zona inferiore della struttura e la distruzione quasi completa del sistema interno di misura del flusso neutronico (aero-ball system). La durata della fermata è stata determinata dalla necessità di indagare sulle cause del guasto, dalla progettazione e l’esecuzione dei lavori di modifica e riparazione, e dai controlli ulteriori dopo un breve periodo di funzionamento. Durata 998 giorni». Il numero 8-9 del 1971 precisa tra l’altro che si è provveduto all’ «aggiunta di un sistema secondario di supporto del nocciolo».


Il capitolo cruciale, appunto, è quello degli incidenti e dei malfunzionamenti mai rivelati all’opinione pubblica. Un dettaglio in più ci viene dalla relazione annuale inviata all’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica): «I segmenti dello schermo termico si sono distaccati, uno di loro riposava contro il nocciolo». E’ l’ENEL stessa ad attestare inequivocabilmente: «Le conseguenze della scarsa maturità tecnologica degli impianti si videro nella successiva fase di esercizio delle centrali, con due lunghe fermate del reattore di Trino e la chiusura del Garigliano nel 1981».  




Nel 1971, tutti i pesci analizzati (erbivori, pescati a Morano Po ogni mese dal luglio 1971 al maggio 1972) contenevano cesio 137, fino a più di 100 becquerel al chilo, come rilevato da ricercatori dell’ENEL. Una contaminazione ricorrente: il pesce era nuovamente contaminato nel 1973, insieme al foraggio. Il limite di sicurezza è inquinamento pari a zero. Dosi infinitesimali sono in grado di innescare processi di mutagenesi e cancro. Nel 1977 il settimanale Epoca rivelò che «la centrale atomica di Trino Vercellese è stata ferma per incidenti 998 giorni fra il 1967 e il 1970: per buona parte di questo tempo ha scaricato nelle acque del fiume trizio radioattivo».
Nell’opuscolo della SOGIN risalente al 2008, però, non si fa il minimo cenno alla lunga fermata del 1967-70 ed a un incidente come origine della stessa.  


Secondo le raccomandazioni dell’ICRP (Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica),  le  «Cellule somatiche modificate possono successivamente, anche dopo intervalli di tempo prolungati, svilupparsi dando luogo a un cancro. Meccanismi di difesa e di riparazione rendono molto bassa questa probabilità. E tuttavia la probabilità di un cancro risultante da radiazioni cresce con l’incremento di dose, probabilmente senza soglia. La severità del cancro non è determinata dalla dose. Se poi il danno riguarda una cellula la cui funzione sia quella di trasmettere informazione genetica alla generazione successiva, qualsiasi effetto risultante, di qualsiasi tipo e gravità, si esprime nella progènie della persona esposta».

L’incognita del trizio: mai monitorato prima del 2006. Gli atomi di trizio H3, prodotti durante la fissione all’interno del reattore, si combinano con l’acqua del sistema di raffreddamento e formano acqua triziata. Questa era considerata  erroneamente come uno dei prodotti di fissione meno pericolosi, e veniva rilasciata quasi totalmente nell’ambiente (non potendo essere né filtrata né depurata come per gli altri radionuclidi). Il trizio rappresentava perciò fra il 50% e il 100% del materiale radioattivo rilasciato dalle centrali negli effluenti liquidi. Nei “Rapporti annuali sulla radioattività ambientale” degli anni 1969 e 1971. Nell’anno 1974 compare, ma la tecnica usata impedisce di rilevarlo sotto un livello di 1100 becquerel per litro di acqua potabile prelevata dai pozzi. Eppure già nel 1969 il capo della nordamericana americana Division of Environmental Radiation indicava che il trizio non è rilevabile con mezzi convenzionali e che occorre quindi usare un «liquid scintillation counting». Si sapeva come fare, ma le autorità non l’hanno fatto. Né per l’acqua dei pozzi, né per il fiume, i pesci, il latte, le verdure o il riso. La natura, purtroppo, registra tutto anche se gli uomini non vogliono farlo e “la presenza di trizio nelle acque del Po e dell’alto Adriatico è stata confermata nel 1978 al convegno intergovernativo sull’inquinamento del Mediterraneo”.


Allora, che altro dire delle ripetute rassicurazioni che i livelli di contaminazione erano trascurabili? Come per esempio quella, nel 1978, dell’ing. Donegà, direttore della centrale Fermi, per cui l’acqua usata per raffreddare il reattore, dopo opportuni trattamenti, «è praticamente acqua distillata e può essere nuovamente immessa nei fiumi: la sua radioattività è pari, infatti, a circa un decimo dell’acqua minerale delle fonti di Lurisia che beviamo comunemente».  La menzione del trizio compare nelle relazioni dell’Arpa su Trino soltanto nel 2006 (usando il dovuto contatore a scintillazione liquida, il livello di trizio, sia nell’acqua di rete potabile, proveniente fortunatamente da pozzi a circa 10-15 chilometri ad Ovest di Trino, che di falda superficiale, si è rivelato sotto il livello di rilevabilità di 4 Bq per litro.) L’ARPA stessa misura la radioattività dell’aria dovuta alla Fermi... solo a Vercelli, perché “consente di dare in tempo quasi reale l'allarme in merito a rilasci in atmosfera conseguenti ad incidenti radiologici in corso”. 
Il dottor  Giuseppe Miserotti, già presidente dell’Ordine dei Medici di Piacenza, ha spiegato come dosi anche piccole di trizio sono assorbite dal nostro corpo, che è costituito per il 70% da acqua, e raggiungono i tessuti più delicati: gli occhi, il sangue, il midollo. L’Autorità di Sicurezza Nucleare francese, nel suo Livre blanc du tritium (2010), evidenzia che «il sistema nervoso centrale sembra essere un bersaglio particolarmente vulnerabile: la concentrazione di trizio risulta esservi da 3 a 20 volte più elevata che negli altri organi».   

Trino, oltre al tasso doppio dei tumori per la fascia di età da 0 a 44 anni, e il 476% per i tumori da 0 a 14 anni, rispetto all’ASL di Vercelli, rappresenta un caso unico in provincia per la concomitanza di un forte eccesso di tumori del sistema nervoso (262%) e di patologie degenerative dello stesso.) Il chimico e biologo Ian Fairlie, consulente per il Governo Inglese ed il Parlamento Europeo, spiega che il pericolo è maggiore per i bambini:  «I tessuti dei bambini sono molto più permeabili e le loro cellule si replicano molto più velocemente di quelle degli adulti. Il loro midollo osseo assorbe le radiazioni e duplica cellule infette a ritmi serrati». e ancor più per i feti.
La centrale nucleare “Enrico Fermi” di Trino è il frutto della prima iniziativa industriale avviata in Italia in campo nucleare. Il 14 ottobre del 1955, all’indomani della Conferenza di Ginevra “Atoms for Peace”, la Edison chiese a tutti i principali costruttori di reattori un’offerta per la realizzazione della prima centrale nucleare italiana. 

Nel dicembre 1955 fu costituita la società SELNI con sottoscrizione paritetica del capitale da parte di elettroproduttori privati (Edison, SADE, Romana, SELT-Valdarno e SGES) e pubblici (IRI-Finelettrica con SME, SIP, Terni e Trentina). Esatto: avete letto bene: è proprio la ditta responsabile della strage del Vajont. 

Nel dicembre ‘56 la Edison sottoscriveva con la Westinghouse una lettera d’intenti per la fornitura di un reattore PWR da 134 Mw subordinata alla conclusione di un accordo Italia-USA per la fornitura di combustibile nucleare e la concessione di un finanziamento Eximbank. Nell’aprile 1957 l’iniziativa della Edison era trasferita alla SELNI, il cui controllo era assunto dalla Edison. Alla fine del ‘57 un raggruppamento affaristico formato da IMI ed Eximbank sottoscrisse il finanziamento dell’impresa per 34 milioni di dollari. Per la localizzazione dell’impianto fu accettato un terreno offerto dal comune di Trino. I lavori per la costruzione della centrale iniziarono nel ‘61 e si conclusero in meno di tre anni. Il 21 giugno 1964 il reattore raggiunse la prima criticità e a partire dal 22 ottobre 1964 iniziò a immettere elettricità in rete. Nel 1966, per effetto della legge sulla nazionalizzazione elettrica, la proprietà della centrale passò all’ENEL. Il reattore fu fermato nel ‘67 a causa di problemi tecnici allo schermo radiale del nocciolo e fu riavviato nel 1970 dopo gli interventi di riparazione. Una seconda fermata fu imposta nel 1979 per gli adeguamenti decisi in seguito all’incidente di Three Mile Island (USA). I lavori tennero fermo il reattore fino a tutto il 1982. Dopo il riavvio il reattore di Trino continuò ad operare fino al 1987. Nel luglio 1990 il CIPE dispose la sua chiusura definitiva, dando mandato all’ENEL di predisporre il piano di smantellamento (decommissioning). Nel novembre 1999 la proprietà della centrale - così come per le altre tre centrali nucleari civili italiane - è stata trasferita a SOGIN, che ha il mandato di procedere alla sistemazione dei materiali radioattivi presenti nel sito, allo smantellamento della centrale e al recupero e alla valorizzazione dell’area. Nel 2000 SOGIN ha predisposto e presentato alle competenti autorità il progetto globale di smantellamento dell'impianto. L’impianto ha operato dal 1973 al 1995 fabbricando combustibili per le centrali nucleari italiane (ricariche della centrale di Garigliano, prima carica e ricariche per Caorso, ricariche per Trino) e anche per reattori esteri. I materiali nucleari lavorati sono stati l’uranio depleto, l’uranio naturale e l’uranio arricchito fino al 5 per cento. Alla fine del 1995 l’ENEA, azionista pressoché esclusivo della FN, ha deciso di non proseguire ulteriormente le attività di fabbricazione di combustibili nucleari e di procedere alla disattivazione dell’impianto. 

Nel 1996 è stato presentato un piano di disattivazione. A seguito dei rilievi mossi da varie amministrazioni, il piano è stato revisionato. La nuova edizione è stata presentata alle amministrazioni alla fine del 2002.

E prendiamo ad esempio, l’impianto EUREX (Enriched URaniun EXtraction), realizzato nel periodo 1965-1970, aveva come obiettivo il riprocessamento dei combustibili dei reattori di ricerca (di tipo MTR, Material Testing Reactors) della Comunità Europea, e a tale scopo ha ricevuto anche un cospicuo finanziamento dall’EURATOM. A partire dall’ottobre 1970 sono stati riprocessati 112 elementi MTR contenenti circa 21 kg di uranio ad alto arricchimento. Dopo due anni di arresto, fra il febbraio 1973 e il giugno 1974 sono stati ritrattati altri 394 elementi MTR. Successivamente a tale data, l’impianto è stato modificato in vista di campagne sperimentali di riprocessamento di combustibili da reattori di potenza. In tale ambito, dall’ottobre 1980 alla fine del 1983 sono stati riprocessati 72 elementi di combustibile irraggiato di tipo CANDU (CANada Deuterium Uranium) della centrale canadese di Pickering (Ontario). A partire dal 1984 l’impianto di riprocessamento non ha più funzionato e l’attività più significativa svolta in EUREX è stata la solidificazione delle soluzioni di plutonio ottenute dal riprocessamento degli elementi CANDU, mediante l’impianto UMCP, Unità Manuale di Conversione del Plutonio (dal giugno 1988 al marzo 1991). È stato trasferito rispettivamente a Sellafield (Regno Unito) e a Savannah River (Stati Uniti) il combustibile MAGNOX della centrale di Latina e il combustibile MTR dei reattori di ricerca, precedentemente immagazzinato nella piscina dell’impianto.


 Riferimenti:
















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“Il modo migliore per farci conoscere è raccontare il nostro lavoro – La centrale nucleare Enrico Fermi di Trino – Sogin 2008.
 http://www.tecnosophia.org/documenti/Articoli/Sessione/Galli.pdf

fonte: sulatestagiannilannes.blogspot.it

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