sabato 31 maggio 2014

un video (17) amore postale



una coppia di fidanzati si spoglia all'interno di un ufficio postale, nessun cenno di protesta si leva da parte della gente. Dopo aver fatto l'amore, i due giovani mimano gli astronauti in procinto di partire per lo spazio. Il distributore automatico invece di erogare bibite ordinarie, mette a disposizione solamente alghe lessate.

il dono - 2 -


civiltà Khmer



il mistero delle donne sacre Khmer, le Devata di Angkor Wat e Yogini di Chaunsat

di Kent Davis

Chi sono le Devata ?

Questo studio è motivato dal desiderio di spiegare il motivo della massiccia presenza di raffigurazioni femminili, le Devata, nel tempio di Angkor Wat.

Comprendere chi siano queste donne Khmer ci permette anche di riconsiderare la vera finalità del tempio e capire il ruolo femminile nello sviluppo di questa straordinaria civiltà.

Per 150 anni, gli studiosi hanno spiegato semplicemente le Devata come presenze accessorie "per intrattenere il re del cielo" o "Decorare le nude pareti di arenaria".
Le nostre ricerche indicano che queste figure hanno un ruolo molto più profondo ed importante della semplice decorazione: non si tratta solo di danzatrici ma di vere e proprie divinità.

Quindi è lecito pensare che la ragione principale per la costruzione di Angkor Wat (in lingua khmer: Tempio della città) potrebbe essere stata quella di onorare queste donne e festeggiare il loro contributo fondamentale all'impero Khmer. Proprio loro, infatti, sono state la chiave per mantenere armoniosa la società khmer, contribuendo alla sua prosperità economica.
L'argomento di questo articolo è il paragone tra Devata e Yogini, le vibranti divinità femminili dell'India, un confronto che può risultare illuminante per comprendere i misteri delle donne di Angkor Wat.
Angkor e la civiltà Khmer

Angkor Wat, il famoso tempio indù del 12° secolo, che ora si trova in piena giungla della Cambogia,non è solo la più grande struttura religiosa nel mondo. Questo tempio Khmer ha una particolarità: per quasi 1.000 anni, ha custodito le immagini sacre di oltre 1.796 donne.

Il fatto sconcertante è che nessuno sa chi fossero e quali valori di spiritualità o di governo rappresentassero. Perché tutte queste donne siano state scelte a dominare questo magnifico complesso con la loro presenza rimane un mistero.
Ogni ritratto femminile ad Angkor Wat è nettamente diverso dagli altri, con una miriade di differenze: posizione del corpo, delle mani (mudra), etnia, gioielli, vestiti, capelli e collocazione.

Non è rimasta quasi nessuna documentazione scritta che spieghi come la civiltà Khmer sia sopravvissuta attraverso i secoli. Il miglior racconto è quello del diplomatico cinese Zhou Daguan, che visitò Angkor Wat 150 anni dopo la sua costruzione.

Daguan non fa mistero del suo interesse per le donne Khmer. Infatti riporta dettagliatamente la loro importanza nella conduzione degli affari, il gran numero di donne che vivevano nel palazzo (senza tralasciare un'occhiata a quelle che facevano il bagno seminude). Nonostante il suo affascinante racconto, una delle tante domande cui Daguan non risponde è: "Perché i Khmer popolano i loro più grandi templi con queste immagini ?"

Alcuni indizi si possono trovare in India, dove hanno avuto origine molti aspetti della civiltà Khmer.

In queste pagine quindi analizziamo le tradizioni delle Yogini indiane.
Non è noto se la religione Khmer, al tempo di Angkor Wat, avesse tradizioni simili incentrate su divinità femminili. Tuttavia, è chiaro che i templi Khmer propongano una netta preminenza di figure sacre femminili mentre quelle maschili sono quasi assenti. Alcuni templi indiani Yogini presentano questa stessa caratteristica.

Esamineremo quindi un tempio indiano che, come Angkor Wat, propone prevalentemente immagini femminili: il Tempio di Chaunsat Yogini a Bheraghat Jabalpur, nell'India centrale.

Devata raffigurata nel Bakkan, la parte più alta e più sacra del tempio di Angkor Wat.
Che cosa è una Yogini?

L'espressione Yogini, utilizzata in entrambe le tradizioni indù e buddhista, ha molteplici significati.

In primo luogo, può fare riferimento a una donna umana che si dedica a perseguire la conoscenza spirituale e l'illuminazione attraverso la pratica dello Yoga. Un praticante maschio è chiamato Yogi. Attraverso la sua pratica, una Yogini può acquisire determinati poteri soprannaturali compreso quello di controllare le funzioni corporee (vale a dire battito cardiaco, fertilità, resistenza al dolore o al freddo e metabolismo) o anche la capacità di volare.

La parola Yogini in sanscrito devanagari

Il percorso di una yogini può comprendere la pratica del Tantra (in sanscrito = tessere), una filosofia religiosa incentrata sull'interazione tra le forze maschili e femminili dell'universo incarnate da Shakti e Shiva.

La parola Yogini può anche riferirsi a personificazioni di aspetti della natura, che si manifestano dalla Dea Madre Divina, o Devi (raffigurata in un'immagine qui a fianco). Queste Yogini includono le dieci Mahavidyas (chiamate anche Grandi Saggezze o dakini) che rappresentano tutta la gamma della divinità femminile, dal bello e delicato al violento e terrificante.
In alcune scuole dello Yoga e del Tantra, queste potenti manifestazioni servono come modello da emulare per le Yogini umane.

Un'altra definizione caratterizza Yogini come aspetti della dea indù Durga, che è un'altra forma di Devi.
Durante una battaglia per salvare l'universo, Durga emanò otto Yoginis per raggiungere il suo obiettivo. In alcuni sistemi sono chiamate Màtrikà. Più tardi i testi moltiplicano le Yogini da 8 a 64 per rappresentare l'intera gamma di forze nel mondo che controllano fertilità, malattia, abbondanza, vegetazione, vita e morte.
Lakshmi (ricchezza/soddisfazione materiale), Parvati (potere, amore, soddisfazione spirituale) e Saraswati (apprendimento/ arti, soddisfazione culturale) in un'unica manifestazione di Devi. Dipinto di V.V. Sagar.
In sostanza si può dire che le Yoginis incarnano la gamma delle donne, da umane a divine, che rappresentano, il controllo o cercano di controllare le potenti forze della natura, compresa la vita stessa.

Le immagini nei templi Yogini dell'India e coloro che hanno seguito per più di un millennio queste pratiche spirituali sono tutti, in qualche modo, legati alla tradizione Yogini.
I primi racconti degli europei sulle Yogini erano concentrati sui loro aspetti terribili: come scrisse Miranda Shaw in "Dee buddhiste" o David Gordon White in "Bacio delle Yogini" e "Yoginis, divinità o ... folletti?"

Nella sua relazione del 1862-1865 per la Soprintendenza Archeologica dell'India, il direttore generale Alexander Cunningham, a proposito del tempio yogini di Khajaraho, ha scritto: "Chaonsat Yogini sembra essere il più antico tempio di Khajaraho. Unico per posizionamento è anche il solo in granito, mentre per tutti gli altri sono state utilizzate le cave di arenaria sulla riva orientale del fiume Kane. Le Joginis o Yogini, sono folletti femmina che obbediscono a Kali, la terribile dea della distruzione.
Quando si svolge una battaglia, si dice corrano freneticamente per il campo con le loro ciotole per raccogliere il sangue degli uccisi, che tracannano con piacere. Nel Chandrodaya Prabodha sono chiamate "spose dei demoni che danzano sul campo di battaglia."
"Per questa loro connessione con la dea Kali che beve sangue, è probabile che il tempio originariamente potrebbe essere stato dedicato a Siva, ipotesi che è in parte confermata dalla posizione di un piccolo santuario di Ganesha sullo stesso costone roccioso immediatamente di fronte l'ingresso. Ma poichè i bramini del posto affermano che la dedica di un tempio alle Yogini garantisca la vittoria a chi lo costruisce, è possibile che questo tempio mantenga il suo nome originale".

Vans Kennedy nella sua "Mitologia indù" (p. 490) cita i nomi di sei Yogini: Brahmi, Maheswari, Kaumari, Vaishnavi, Varahi, Mahendri, tutte chiamate da Siva a divorare la carne e bere il sangue del grande Daitya Jalandhara.

"Da questo punto di vista, ci si potrebbe aspettare di trovare numerosi templi dedicati alle Yogini, in quanto molti condottieri sarebbero stati disposti a propiziarsi la vittoria in questo modo. Ma poiché questo è l'unico santuario di queste dee che ho trovato, sono propenso a dubitare della tradizione, e ad attribuire il tempio a Durga o Kali, la consorte di Siva."

La donne di Angkor Wat possono essere Yogini?

In contrasto al nulla tramandato sulle donne di Angkor Wat, note anche come Devata o Apsara, è rimasta una notevole quantità di informazioni scritte per quanto riguarda le Yogini dell'India.

Le Devata risultano tutte certamente molto più riservate nel loro comportamento e quindi potrebbero rappresentare solo gli aspetti più dolci del pantheon Yogini.

Le donne di Angkor Wat non mostrano attributi orribili o soprannaturali. In realtà appaiono del tutto normali, prive di zanne, aloni, occhi in più, ali o altre caratteristiche terribili e fantastiche.
Nessuna, infatti, appare come Sakti, la manifestazione femminile di un dio, a volte visto con la testa di animale, cinghiale, toro, cavallo o leone.

Né le donne di Angkor Wat sfoggiano collane o coppe fatte di teschi umani, oppure scheletri o armi tra i loro ornamenti.

Tutte le Devata di Angkor Wat sono in piedi in posa dignitosa con entrambi i piedi ben saldi a terra. Nessuna è seduta. Solo un paio assumono posizioni che possono essere associate alla danza.

Eppure, raffigurate in un tempio, le donne di Angkor Wat, sembrano condividere qualcosa di divino con le loro sorelle Yogini. Alcune mostrano posizioni delle mani (mudra) simili, gioielli e ornamenti associati con piante e fiori dalla natura. Come gli ammiratori hanno osservato per secoli spesso sono molto attraenti.

Le donne di Angkor Wat sembrano rappresentare solo un rapporto armonioso con la natura, mentre le Yogini indiane evocano maggiormente l'intera gamma della creazione, compresi gli aspetti violenti.
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Forse c'è una connessione tra questi due gruppi di donne straordinarie, ma non è immediatamente evidente. Un buon punto di partenza è quello di esaminare i templi Yogini indiani, utilizzando l'esempio specifico delle Yogini Chaunsat di Bheraghat Jabalpur.

In India i bramini hanno a lungo ritenuto che Sangam, la confluenza di due fiumi, sia un luogo particolarmente sacro perché la commistione di due corsi d'acqua è considerata più efficace a lavare via i peccati.

Questo è il motivo per cui Bheraghat, dove si incontrano il Narbada e il Saraswati è un luogo di balneazione particolarmente santo.

Alto su una collina nei pressi della congiunzione dei due fiumi si trova il tempio circolare Yogini, il cui chiostro protegge il tempio di Gauri Sankara dedicato a Shiva.
La pianta del tempio Yogini a Bheraghat mostra il chiostro circolare con le 84 nicchie e il Gauri Sankara centrale, tempio dedicato a Shiva.

La forma circolare è inusuale per i luoghi braminici, ma è la forma corretta per i templi dedicati alle Yogini Chaunsat (vale a dire 64 Yogini). Altri due templi Yogini di questa forma sono Hirapur e Ranipur-Jharial. Un quarto tempio yogini, Khajaraho, è oblungo. Tutti sono a cielo aperto.

Il santuario originario centrale fu eretto nel 1155 dC, il che lo rende contemporaneo ad Angkor Wat (1116-1150 dC). E' stato costruito dalla Regina Kalachuri Alhanadevi durante il regno del figlio Narasimhadeva.

Nel tempio compaiono solo due statue maschili.

Il tempio centrale Gauri Sankara a Bheraghat, foto di Raju-Indore.
Le statue del tempio Yogini Bheraghat

Le statue nelle nicchie del chiostro di Bheraghat si mostrano in due posizioni: in piedi e sedute. Molte sono danneggiate e alcune sono scomparse del tutto. La maggior parte sono divinità a quattro braccia che, come hanno osservato gli antichi scrittori: "sono particolarmente notevoli per il formato del seno".

Le prime relazioni caratterizzano la maggior parte di queste immagini come "Yoginis o demoni femminili che servono Durga". Il tempio è, quindi, comunemente conosciuto come Yogini Chaunsat o "sessantaquattro Yogini".
Il tempio Yogini Bheraghat, nel 1875 circa.
Otto figure sono identificate come Ashta Sakti, o energie femminili degli dei. Tre sembrano personificare i fiumi. Tutte le figure sedute sono Yoginis, ognuna è molto ornata e fatta di arenaria grigia.

Quattro figure femminili danzanti sono fatte di pietra arenaria violacea e sono molto meno ornate. Uno si pensa sia la dea Kali. Le altre sembrano essere altre forme di questa divinità.

Shiva e Ganeshsono le uniche due figure maschili.

per ulteriori informazioni andare su: www.cultorweb.com



ingoiare merda


Dario Fo, Casaleggio e "gli italiani che continuano ad ingoiare merda"!


Lasciando da parte il fatto che stava parlando con un "finto" Casaleggio, onestamente non posso che dar ragione a Dario Fo, e per confermare quello che lui dice basti pensare ai loschi individui (per non chiamarli delinquenti) che si sono succeduti negli ultimi 40 anni nel nostro parlamento e che sono stati votati e rivotati decine di volte nonostante tutte le porcate che hanno commesso nella loro carriere politica!



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"La cosa terribile è che il popolo italiano è autolesionista; una nazione di autolesionisti. Sanno benissimo che le cose hanno una soluzione, e però continuano ad ingoiare la merda. E' così, non c'è niente da fare"(..) è la struttura autolesionistica di questo popolo. Perché ormai basta. Ha votato per Berlusconi sapendo che è un figlio di p... Ha rivotato ancora ed ha rivotato ancora dopo esser stato fregato con Berlusconi. Questo qui ne ha fatte più di Bertoldo. E adesso questo qui. Quando parli con la gente dice "si, vero, vero, non ha fatto niente, ha detto soltanto delle balle, ha promesso, ma si sa benissimo.." e poi, cazzo, vai a votare in questa maniera? Vabbè, c'è proprio da farsi cadere le braccia". (qui trovate l'audio della telefonata tra Fo e il finto Casaleggio)

fonte: www.stopcensura.com

giovedì 29 maggio 2014

Miela Reina



è stata un'artista e pittrice italiana.

Miela Reina è una delle voci più importanti e significative dell’arte triestina del secondo Novecento. Come ha scritto Gillo Dorfles,

 “È molto più giusto affermare che Miela è stata la sola artista dell’area giuliana ad aver creato, nella breve stagione che va dagli anni Sessanta ai Settanta, un’opera non solo degna di essere ricordata e studiata, ma degna di essere considerata come una solitaria e inimitabile avventura della fantasia”.

Figlia del Provveditore agli Studi Giuseppe Reina e della giornalista Aurelia Cesari, Miela Reina termina gli studi al liceo classico nel 1954; sino al 1959 frequenta l’Accademia del Belle Arti di Venezia. Viaggia in Sicilia, Francia, Spagna, Israele. 1958: espone in una prima mostra personale a Trieste e l’anno seguente inizia l’insegnamento di educazione artistica all’Istituto Statale d’Arte della stessa città. 1961: partecipa all’Internazionale Kunstaustellung di Bayreuth e insieme al pittore Enzo Cogno dirige la Galleria La Cavana. 1962-63 personale a Udine; realizza opere decorative sulle motonavi “Guglielmo Marconi” e “Galileo Galilei”; entra a far parte di Arte Viva dove insieme a Enzo Cogno si occupa della sezione Arti visive. 1964: insieme ai pittori Caraian, Chersicla, Cogno, Palcich e Perizi costituisce “Raccordosei”. Espone alla XV Biennale d’arte triveneta e si occupa di ulteriori opere decorative sulla motonave “Raffaello”. 1965: mostre personali a Trieste, Genova, Palermo; con Raccordosei espone a Trieste e in Jugoslavia; dirige con Enzo Cogno e Carlo de Incontrera il Centro Arte Viva Feltrinelli. 1966: con Enzo Cogno realizza le decorazioni sulla motonave “Italia”. Personale a Feltre e con Raccordisei espone a Trieste, Venezia e Pordenone. 1967: mostre collettive a Trieste, Tarcento, Palermo; costruisce il Monumento al paracadutista per la mostra “L’uomo e lo spazio”, a Trieste, nell’ambito del festival Internazionale di Fantascienza; espone con Arte Viva in Palazzo Costanzi a Trieste; realizza opere decorative per edifici pubblici triestini; viaggia in Germania. 1968: mostra personale a Bari e varie collettive a Trieste, Udine, Gorizia, Graz, Lubiana, Gallarate; realizza, con Carlo de Incontrera e Emilio Isgrò, l’opera di teatro musicale da camera Liebeslied. 1969: con il gruppo di Arte Viva partecipa agli allestimenti di Liebeslied a Gorizia e alla Biennale di Zagabria; personale a Zagabria; progetta insieme a Gigetta Semerani-Tamaro l’ambiente per “Il concerto” festival internazionale di musica elettronica programmato da Arte Viva; soggiorno a Londra. 1970: con il Centro Operativo Arte Viva partecipa a vari progetti: InterVENTO, Postscriptum, nelle varie versioni sulla partitura di Carlo de Incontrera (Siegfried, Il Profeta velato, Critica d’arte, Caino e Abele); allestimenti di Postscriptum a Trieste, Milano, Osijek, Spalato; a Palermo con Sylvano Bussotti per la versione Caino e Abele; viaggio a Cuba. 1971: mostre personali a Zagabria e a Firenze; Espone con Enzo Cogno a Copenhagen, Aarhus e Como; dipinge la partitura di Carlo de Incontrera La pazienza del violoncello (esecuzioni a Imola, Trieste, Parigi, Berlino, Stoccarda, Amburgo, Stoccolma, Como, Zagabria); Ottava dopo Ottava a Trieste e a Como; Vademecum (con Carlo de Incontrera) alla Biennale di Zagabria e all’Autunno Musicale di Como; numerosi altri progetti e interventi in concerti del Centro Operativo Arte Viva (a Trieste, a Como); Liebeslied e Postscritum a Udine e Messina. 1972: mentre sta mettendo a punto un’ampia mostra personale antologica, il 15 gennaio improvvisamente muore.

Mostre postume

Miela Reina, Trieste, Sala Comunale d’Arte, 1972. Miela Reina, mostra antologica, Trieste, Stazione Marittima, 1980. Catalogo Electa. Miela Reina, mostra antologica, Monfalcone, Sala Roma, 1983. Miela Reina, Galleria Torbandena, Treviso, 1984. Miela Reina - opere 1956-1961, Galleria Torbandena e Scuderie del Parco di Miramare, 1990. Miela Reina – designe progetti scenografici, Teatro Miela, Trieste 1990. Il ritratto nella pittura italiana del Novecento, Ferrara, Castello di Mesola, 1991. Anni fantastici – Arte a Trieste dal 1948 al 1972, Trieste, Civico Museo Revoltella, 1995. Figure della pittura. Arte in Italia 1956 -1968. Palazzo Sarcinelli, Conegliano, 1995-96. Miela Reina, la favola della realtà, Palazzo Torriani, Gradisca d’Isonzo, 1996. Miela Reina – apparizioni, Galleria Torbandena, Trieste, 1998-99 Miela Reina, Arte Fiera, Bologna 1999. Miela Reina, mostra antologica, Villa Manin, Passariano, 1999. Monografia a cura di Paola Bonifacio, Mazzotta editore.

L’opera omnia di Miela Reina è documentata presso il Centro Regionale di Catalogazione di Villa Manin

fonte: wikipedia

mercoledì 28 maggio 2014

il sangue di San Gennaro



Che cosa ci aveva fatto Gennaro?

Niente. Come non ci hanno fatto niente tutte le persone che hanno creduto nel suo miracolo. Gennaro, se e' esistito realmente, ha tutto il nostro rispetto per aver accettato addirittura di morire per le sue convinzioni. Anche per noi le idee sono importanti, e le idee sul paranormale ed il sovrannaturale, che hanno un'enorme importanza nell'esperienza umana, vanno trattate col rigore e la correttezza che meritano. Se ci sono prove concrete per il paranormale ed il sovrannaturale, che quindi non richiedono l'intervento del concetto ben diverso di fede, questo e' un fatto di estrema importanza per chiunque. Non e' concepibile trattare questo argomento in modo ambiguo e incoerente. Chi ha creduto nel miracolo ha concesso la sua fiducia ad un' altra persona, esibendo, anche se in errore, un atteggiamento per il quale e' difficile provare antipatia. E' chi abusa della fiducia altrui che tradisce qualcosa che sta alla base di ogni rapporto umano.

Sbagliarsi è umano

Se chi celebra il rito con la reliquia, come dichiara ufficialmente, non e' sicuro che sia miracoloso, dovrebbe accertarsi che lo sia prima di proseguire. Ora, come vedremo, si offre la perfetta opportunità per un chiarimento della posizione della Chiesa, dal quale potrebbe derivare anche la concreta approvazione oppure lo scoraggiamento del rituale nel Duomo che, in contraddizione alla dichiarata posizione scettica della Chiesa, viene chiamato miracoloso e celebrato da un'autorità quale l'arcivescovo di Napoli, nella cattedrale dove e' il suo seggio. L'ipotesi che proponiamo, infatti, ha il vantaggio di non presupporre, fino a questo punto, la malafede degli officianti. Pero', adesso che esiste una nuova ipotesi, e' lecito aspettarsi che venga presa in considerazione: e non si puo' desiderare una prova meno complicata o rischiosa di quella che basterebbe a controllare questa ipotesi. Se ci si rendesse conto che la spiegazione e' giusta, solo da allora, come spiegheremo poi, sarebbe realmente disonesto proseguire a chiamare miracoloso il rito. Si offrirebbe, anche nel caso che valesse la spiegazione naturale, una perfetta possibilita' di uscire da una situazione che da secoli e' ambigua, in modo dignitoso. Errare humanum est... Questo punto di vista e' d'altronde solo una versione piu' attenuata e meno coinvolta di quello della grande maggioranza delle persone di fede che, secondo la nostra esperienza, vedono con antipatia e con poca indulgenza quelle che ritengono delle manifestazioni di una fede e di una devozione molto male intese.

La reliquia di San Gennaro

San Gennaro e' una figura non si sa se totalmente, o quasi totalmente leggendaria. Nell'ipotesi più favorevole, quella della Chiesa Cattolica dagli anni '60 di questo secolo, quando l'importanza di questo santo nei calendari liturgici e' stata molto diminuita, sarebbe esistito realmente, ma nessun dettaglio della sua vita sarebbe documentato. La tradizione vuole che sia stato ucciso, martire cristiano, nel 305. E' solo mille anni dopo, nel 1389, che si ha la prima notizia di una reliquia che rappresenta il sangue del santo e che passa in modo considerato miracoloso da solida a liquida; mentre vi sono cronache di poco precedenti (1382), con molti dettagli sul culto del martire, nelle quali pero' non compaiono ancora ne' la reliquia ne' il miracolo. Quella di San Gennaro fa dunque parte dello sterminato numero di reliquie comparse nel medioevo. Nel 1300 reliquie definite in maniera che ora e' strabiliante erano incredibilmente diffuse. C'erano fedi nuziali della Madonna, fasce del bambin Gesù, piume dell'arcangelo Gabriele. Va detto che anche in secoli più recenti si poteva, a Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, osservare il cartello della Croce, con le scritte in Aramaico, Greco e Latino. Insieme, meta di pellegrinaggio per le persone più scettiche da ogni parte del mondo, l'osso proprio del dito che servi' a San Tommaso per controllare la realtà di Gesù risorto.

(Indovinate fino a che secolo. Soluzione alla fine.)

Non e' corretto esaminare la reliquia di Napoli come se non facesse parte, come tutti i prodotti della civiltà umana, di una categoria di oggetti simili, caratteristici di un luogo e di un'epoca.

Caratteristiche della reliquia

La reliquia consiste in due bottigliette sistemate fra i due vetri della teca rotonda con lunga impugnatura che si vede maneggiare dall'officiante. La parte rotonda con i vetri ha un diametro di circa 12 centimetri. La bottiglietta piu' piccola, cilindrica, ha solo delle macchie al suo interno. E' vuota come ora già dal 1575. La bottiglietta maggiore e' tondeggiante, appiattita, dal volume stimato di 60 millilitri ed e' parzialmente riempita della sostanza ignota. L'affermazione di base sulle proprietà miracolose della sostanza nella bottiglietta e' che sia inconcepibile che una qualunque sostanza cambi ripetutamente da solida a liquida senza una causa evidente. Ancor piu' miracoloso viene considerato il suo comportamento nell'eventualità che sia autentico sangue. Ma quella che ci sia un'inesplicabile liquefazione di sangue, oppure di una qualunque sostanza naturale, e' solo l'affermazione principale. Come e'assolutamente tipico delle affermazioni sul paranormale, i punti di vista di chi le sostiene non concordano fra loro. Come sempre in questi casi, anche le affermazioni su questo miracolo non sono ben definite, ma piuttosto una gamma che va dall'implausibile, passando per lo strano che incuriosisce, al semplicemente banale: l'unica parte che richiede una spiegazione e' in realtà quella centrale, strana. Anche perché, tipicamente, vale la solita legge sul paranormale: le affermazioni strabilianti si rivelano in genere false o vastamente esagerate, se indagate accuratamente; le affermazioni documentabili non sono mai interessanti. Più aumenta il controllo, più diminuisce la straordinarietà dei fenomeni in questione.

Ecco quindi una scelta di affermazioni sul miracolo di San Gennaro credute da persone diverse in tempi diversi, sempre considerandole miracolose:

"San Gennnaro fu gettato in una fornace, ma ne usci' illeso." (Ora citata solo come esempio di superstizione medievale. Screditata, non abbiamo cercato di riprodurla. Certo, trattenendo Garlaschelli che se può,  prova.)

"'Miracolomanzia': l'osservazione di come e con che velocità si svolge il miracolo permette di predire il futuro." (Grande favorita dei mezzi d'informazione. Non riprodotta.)

"La sostanza, senza scambi con l'esterno, varia di peso. " (Pensiero che le persone con cognizioni di fisica possono a malapena contemplare. Ancora citata perché alle misurazioni più' moderne, che non hanno affatto replicato le dubbie testimonianze precedenti, non viene dato nessun rilievo.)

"Il miracolo avviene perché 'il sangue nell'ampolla viene ricongiunto, quando è portato vicino al busto aureo e argenteo di San Gennaro, col cranio del santo che vi e' contenuto." (Vicinanza considerata essenziale per molti secoli, ora non lo è più. Ad ogni modo nel busto sono conservati solo polvere d'ossa e piccoli frammenti.)

"La sostanza ha consistenza "lapidea" ed e'stata udita da un osservatore sbattere contro le pareti della bottiglia come un solido." (Tutti gli altri la descrivono aderente alle pareti. La nostra e' meno dura della pietra.)

"La sostanza cambia di volume." (Osservazioni non riprodotte recentemente. La nostra no. Se e': "sembra cambiare di volume", anche la nostra.)

"La sostanza può andare in ebollizione." (La nostra no. Se invece: "Si producono bolle e schiuma in superficie", come dicono le cronache recenti, anche la nostra.)

"Sulla superficie della massa solida possono restare, come congelate, delle bolle solidificate." (Anche nei nostri campioni.)

"La liquefazione avveniva nel 1600 anche capovolgendo la teca e lasciandola ferma, lontano da ogni persona. Dopo un certo tempo, senza essere toccata, la sostanza si staccava dalla parte alta del contenitore e si riversava in basso." (Succede anche a noi: 15 minuti, per esempio.)

"Una parte solida può permanere, immersa nel liquido. E' detta "globo" e serve per i pronostici." (Riprodotto, ma il nostro non si compromette.)

"Del liquido si separa a volte sulla superficie della parte solida." Viene interpretato come la parte sierosa del sangue. (Succede anche a noi; secondo noi e' l'acqua che ci abbiamo messo.)

"A qualche persona sembra che il colore non sia sempre lo stesso." (Eccoci al banale: certamente a qualche persona sembra che il colore cambi: e ad altre no. Comunque succede anche a chi osserva la nostra sostanza passare da solida, con un certo spessore, a liquida, con spessori molto più sottili sulle pareti del contenitore.)

Altri aspetti della sostanza della reliquia che vengono spesso citati come caratteristici e che i nostri campioni riproducono, sono: la consistenza variamente pastosa della massa in liquefazione e la superficie superiore lucida della sostanza allo stato solido. Fra gli aspetti che viceversa sono caratteristici della nostra sostanza, ma molto difficili da spiegare con l'ipotesi del miracolo, ne spicca uno: il fatto che la liquefazione possa avvenire per le manipolazioni richieste dalla manutenzione della teca. C'e' poi anche il miracolo di Pozzuoli, dove in concomitanza con quello di Napoli o, secondo altri, pochi preveggenti istanti prima, la pietra sulla quale e'stato dimostrato che non e' stato decapitato San Gennaro pare rosseggiare. Naturalmente scegliere fra le presunte osservazioni, spesso in contraddizione fra loro, cercando le più attendibili, ha un senso solo se si presume che la reliquia non sia mai stata sostituita durante la sua lunga storia. Non e' niente di più' che una congettura, ma il fatto e' che se delle sostituzioni sono avvenute non c'e' speranza di trovare una spiegazione ora. Naturalmente in questo caso la frode sarebbe implicita e i miracoli esclusi.

Altre ipotesi

Per cercare di spiegare le piu' documentate fra quelle affermazioni, cioé principalmente che la sostanza può passare da solida a liquida durante l'esecuzione del rito, sono state proposte, nei secoli, decine di ipotesi. Purtroppo non meritano nemmeno di essere riferite, tranne quella, ancora plausibile anche dopo la nostra proposta, di una sostanza che fonda a temperatura ambiente. Si può infatti probabilmente realizzare, anche con materiali medievali, un miscuglio che passi da solido a liquido, cioé con punto di fusione, a qualunque singola temperatura desiderata nella gamma di quelle presenti nella cattedrale. Questa e' certamente un'ipotesi degna di rispetto ed e' facile da mettere alla prova quanto la nostra ipotesi. In questo caso si dovrebbe solo variare in maniera controllata la temperatura ambiente attorno alla teca, sempre nella gamma di temperature cui e' esposta anche normalmente (o forse: variare la temperatura sul manico e sulla corona, che vengono impugnate, fino a 36 gradi): non c'e'nessuna difficoltà e nessun rischio. Ma, in mancanza di questo esperimento, anche l'ipotesi della fusione non e' riuscita ad imporsi se non come la più plausibile: forse per la difficoltà di controllare le temperature necessarie durante il rito, forse perché si considera che l'ovvietà del fenomeno della fusione sarebbe apparente a chi l'osserva. Anche le fonti critiche continuano a descrivere il miracolo come "non spiegato dalla scienza" e "non riproducibile".

L'ipotesi tissotropica

La nostra proposta (Luigi Garlaschelli, Franco Ramaccini, Sergio Della Sala. "Working bloody miracles", Nature, vol. 353, n. 6344, (10 ott. 1991) p. 507 ) si basa sulla tissotropia (o tixotropia; dal greco thikis "l'atto di toccare" e -tropia, qui "trasformazione"), una proprietà fisica non diffusamente conosciuta, ma nota fin dall'antichità. I materiali tissotropici diventano più fluidi se sottoposti a una sollecitazione meccanica, come piccole scosse o vibrazioni, tornando allo stato precedente se lasciati indisturbati. Un esempio consueto di questa proprietà e' la salsa ketchup, che se ne sta rappresa senza scendere dalla bottiglia fino a quando delle scosse non la fanno diventare d'un tratto molto più liquida, e ne viene fuori troppa. La tissotropia e' impiegata in moltissimi prodotti, come gli inchiostri e le vernici, dove il colore diventa abbastanza fluido quando e' sottoposto a sollecitazione mentre abbandona lo strumento di applicazione e viene steso sul supporto, ma deve scorrere il meno possibile una volta lasciato a riposo. Pur essendo nota da sempre in certi campi, la tissotropia non e' molto conosciuta, nemmeno presso chi si occupa di fisica o di chimica. Un esempio di come sia poco conosciuta e' che due fra i maggiori esperti cattolici sul miracolo di San Gennaro hanno dei passi, nei loro libri, in cui descrivono quanto dovrebbe essere strana una sostanza che imitasse la reliquia: coll'intenzione di dimostrare che sono richieste delle caratteristiche "che la scienza non può spiegare", danno in realtà, senza saperlo, una definizione della tissotropia. (In questo, di per se, non c'e' naturalmente niente di male e noi siamo i primi ad averla ignorata fino a poco tempo fa.). D'altra parte molti che avranno conosciuto sia la tissotropia sia il miracolo di San Gennaro devono aver pensato, più o meno vagamente, ad un possibile collegamento fra i due fenomeni. (Per esempio, come abbiamo poi scoperto, James Randi, che da ragazzo, in Canada, aveva lavorato in una fabbrica di vernici!) Ma e'merito proprio di questa rivista l'aver fatto convergere l'interesse, le cognizioni e lo scetticismo dai quali e' nata una formulazione sufficientemente accurata dell'ipotesi tissotropica, contemporaneamente ad una sostanza che la esemplifica: questa sostanza (una sospensione colloidale di idrossido di ferro in acqua con ioni sodio e cloro) e' stata studiata espressamente per esibire la tissotropia in forma cosi' accentuata da passare, se agitata lievemente, addirittura dallo stato solido a quello liquido, ma, al contempo, per essere realizzabile con i soli mezzi disponibili nel 1300. (Tutta la parte chimica, naturalmente, e' opera di Luigi Garlaschelli.)

Sulla frode inconscia

Un vantaggio della spiegazione tissotropica e' quello di essere cosi' adatta all'ipotesi della frode inconscia. E' un dato di fatto che anche solo per accertarsi se la liquefazione e' avvenuta bisogna muovere il recipiente: solo allora si può distinguere il comportamento di un solido, che mantiene la sua posizione rispetto al contenitore muovendosi insieme ad esso, ed un liquido, che invece rimane in basso, con la superficie sempre orizzontale. In questa fase critica quindi, necessariamente e indipendentemente dall'intenzione di chi maneggia la reliquia, possono essere presenti le sollecitazioni necessarie per la liquefazione di una sostanza tissotropica. Se anche il celebrante può credere il rito miracoloso e non deve fare nulla, coscientemente, per la sua riuscita, non c'è più bisogno di presumere la disonesta' di ogni singolo officiante. La tissotropia e' appunto abbastanza poco conosciuta da permettere ai successivi esecutori del rito il vario grado di autoinganno necessario caso per caso. (Questi sono vantaggi nell'ipotesi lievemente ottimistica che disonesta' ed autoinganno richiedano almeno qualche scusa, e non siano il comportamento normale che ci si debba aspettare attraverso i secoli.). In più, eliminando il bisogno della malafede, non c'è più il problema di spiegare come sia possibile tenere un simile segreto per 600 anni. Dapprima i movimenti del rito ci erano diventati familiari e, come tutti, li davamo per scontati come quelli giusti per accertare lo stato della reliquia. Ci sembravano contemporaneamente adatti anche a far diventare liquida una sostanza tissotropica e a mantenerla in questo stato. La reliquia viene continuamente capovolta, tanto nella prima fase, quando l'officiante controlla se la liquefazione è già  avvenuta, quanto nella seconda, quando la liquidità, ormai accertata, e' mostrata alla folla. Dopo esserci familiarizzati con l'interpretazione tissotropica del rito, e dopo aver maneggiato per qualche mese le bottigliette con la nostra sostanza, abbiamo cominciato a renderci conto che, pensandoci bene, quando si vuole vedere se il contenuto di una bottiglia e' solido o liquido, la si scuote un pochino, o la si inclina leggermente, ma nessuna persona capovolgerebbe completamente la bottiglia: non per controllare lei stessa, ne' per mostrare ad un'altra che contiene un liquido (sarebbe un gesto plausibile, invece, per mostrare che il contenuto e' solido). I movimenti rituali che ci sono stati tramandati dalla tradizione cominciavano in fin dei conti ad assomigliare di più a quelli giusti per liquefare e mantenere liquida una sostanza tissotropica. Sembrava sempre più' un trucco molto ben studiato per funzionare automaticamente, da solo.

Non un'accusa, ma la possibilitàdi un'onorevole via d'uscita.

Ecco dunque un punto essenziale di questa ipotesi, che viene sempre ignorato o travisato dai mezzi d'informazione. Lungi dal porre l'accento sulle responsabilità della Chiesa nel partecipare ad un possibile inganno (responsabilità che peraltro ci sono) l'ipotesi tissotropica e' proprio basata sul fatto che la frode, se c'e' stata, e' stata fino ad ora in gran parte involontaria. Se con un controllo davvero elementare, cioè scuotendo lievemente l'ampolla, l'ipotesi tissotropica venisse avvalorata, basterebbe ammettere l'errore passato, per salvare la faccia futura.

C'è del sangue?

Quanto all'inizio di questa possibile frode inconscia, c'e' fra noi una certa gamma di opinioni diverse. Alcuni, tenendo presente l'incredibile assurdità (non si può nemmeno parlare di "falsità'") delle reliquie cristiane del XIV secolo, non hanno esitazioni ad attribuire la creazione della reliquia a persone competenti preoccupate unicamente di ottenere il giusto effetto sorprendente, usando soltanto le materie più adatte. Non capiscono cosa c'entri il sangue e trovano che tanto il cercarne le tracce quanto le spettroscopie considerate rivelatrici, siano iniziative infondate e fallaci. Altri preferiscono tenere aperta anche la possibilità che del sangue, forse originale, forse aggiunto più tardi, faccia parte del contenuto dell'ampolla, magari in proporzione minima. In questo modo, oltre alla creazione di un falso medievale partendo da un'autentica reliquia, resta aperta anche la possibilità dell'insorgere fortuito della tissotropia per la contaminazione casuale del sangue con altre sostanze. I risultati di quella spettroscopia non sono stati sottoposti al giudizio di referee di una rivista scientifica; la loro qualità, nella più favorevole delle ipotesi, richiede troppo il contributo dell'interpretazione di chi li osserva, per costituire un argomento convincente. Inesplicabilmente e' stato impiegato uno spettrometro a prisma, invece di un moderno spettrometro elettronico. Più spettri, ottenuti a qualche minuto di distanza l'uno dall'altro vengono interpretati come rivelatori ognuno di un diverso derivato dell'emoglobina, e spiegati con un miracolo in progresso, mentre, si noti bene, la sostanza era da tempo in fase liquida, e non in liquefazione. Ad altri osservatori lo spettro fotografato sembra sempre uguale, ma di cattiva qualità. Il fatto che una prova iniziata per dare un risultato fornisca invece risultati giudicati diversi fra loro ma favorevoli suggerisce inevitabilmente che l'interpretazione vi giochi un ruolo preponderante. E' difficile valutare quanto alcune circostanze costituiscano un buon argomento a favore dell'ipotesi tissotropica, o quanto invece siano coincidenze non significative:

Molisite sul Vesuvio

Tre dei quattro ingredienti della nostra ricetta sono di uso quotidiano: il carbonato di calcio, presente ovunque, per esempio nei gusci d'uovo, che ne sono una fonte pura al 93.7%; il sale comune; l'acqua. Il quarto e' il cloruro ferrico. In un primo momento pensavamo che il cloruro ferrico non fosse presente in natura, e stavamo cercando un modo facile per produrlo da sostanze note nel medioevo. Ma poi abbiamo trovato nelle enciclopedie chimiche che c'era un singolo sale ferrico presente in natura, ed era proprio il cloruro ferrico: si trovava, sotto forma del minerale molisite, "sul Vesuvio o su altri vulcani attivi". Difficile dire se e' una coincidenza, ma certamente sembrava scritto apposta per noi. Potrebbe perfino spiegare la strana concentrazione nell'area Napoletana delle reliquie di sangue miracoloso che e' stata varie volte notata, ma mai spiegata. Sul comportamento di queste altre reliquie, comunque, c'e' ben poco di documentabile; nel complesso non sembra che funzionino. Uno di noi (Garlaschelli) e' andato ad assistere, nel 1991, anche al rito di Santa Patrizia, che dovrebbe essere il più interessante: si e' rivelato una completa delusione.

Senza aggiunta di coloranti

La nostra sostanza e' del colore giusto, non c'e' bisogno di aggiungere alcun pigmento. La rende questo forse una candidata migliore, visto che il suo stesso aspetto può averne suggerito l'uso disonesto? Infine l'ipotesi tissotropica non esclude l'influenza delle variazioni di temperatura sulle irregolarità di comportamento della reliquia.

Anacronismo?

Per ottenere un prodotto puro, che si comporti in modo più regolare, abbiamo usato la dialisi. Se e' certamente vero che la dialisi, compresa nel suo vero significato, e' un procedimento del 1800, essa e' pur sempre solo un filtraggio attraverso pori estremamente piccoli, come quelli della pergamena o dei budelli. Tutta la procedura necessaria, effettivamente, ha un sapore da bottega d'arte del 1300. Li' si potevano trovare i colori tenuti in budelli, o la pratica di aggiungere una base, spesso carbonato di calcio, ai pigmenti. Il nostro composto, se calcinato, coinciderebbe col pigmento caput mortuum (Fe2O3). Il fatto che vedendo funzionare il nostro composto venga la curiosità di sapere se quello della reliquia sia proprio la stessa sostanza e' certamente un segno incoraggiante per chi si e' adoperato per avvicinarvisi il più' possibile, ma lo spirito della nostra indagine non e' stato certo quello di indovinare esattamente la composizione della sostanza nell'ampolla. L'aver replicato i comportamenti più documentati della reliquia serve a dimostrare che è possibile farlo, e che era possibile anche all'epoca della sua comparsa. Ora non si dovrebbe più poter affermare che il suo comportamento non e' riproducibile con normali metodi fisici o che la scienza non può spiegarlo. Anzi, prendere in considerazione l'ipotesi tissotropica potrebbe essere per la Chiesa un pretesto per riconsiderare un atteggiamento che forse e' restato arretrato di secoli rispetto alla sensibilità di chi crede. La stampa ha concesso a quest'idea uno spazio soddisfacente, comprese la seconda pagina del Times di Londra e le prime pagine dei quotidiani nazionali; perché solo L'Osservatore Romano ci ha deluso, tacendo sempre? La Congregazione per le cause dei santi non ha forse il compito di assicurarsi di quell'autenticità delle reliquie che e' considerata essenziale dopo il Concilio Vaticano II ? Perché non dovrebbe esserci nell'organizzazione ecclesiastica qualche persona che desidera chiarire quella che si trascina come una posizione ambigua? Una scossettina, per mettersi in pace la coscienza.
Io credo nei miracoli.

FRANCO RAMACCINI

fonte: www.cicap.org


Riferimenti bibliografici

Calvin, Jean.Traite' des reliques,Geneve, 1543.

Bentley, James. Ossa senza pace (1985); Milano, SugarCo, 1988.

Alfano, Giovanni Battista; Amitrano, Antonio. Il miracolo di S. Gennaro: documentazione storica e scientifica (1924); 2a ed.ampliata, Napoli, Scarpati, 1950.

Moscarella, Ennio. "Il sangue di S. Gennaro vescovo e martire", Proculus , Pozzuoli, (ott.-dic. 1989), p. 365-407.

AA.VV. Atti del convegno nel VI centenario della prima notizia della liquefazione del sangue(1389-1989) Napoli, 16 dic. 1989, Torre del Greco (Napoli), 1990. [per la spettroscopia]

Moscarella, Ennio. La "pietra di S. Gennaro alla Solfatara" di Pozzuoli, Napoli, Edizioni Dehoniane, 1975. [chiarificatore]

Cennini, Cennino D'Andrea- Il libro dell'Arte (scritto alla fine del 1300) (Roma, Salviucci, 1821); Vicenza, Neri Pozza, 1971.

Thompson, Daniel V. The Materials and Tecniques of Medieval Painting (London, Allen & Unwin, 1936); New York, Dover, 1956.
da x, anno IV, n.1

la grande abbuffata



La grande bouffe è un film franco-italiano del 1973 diretto da Marco Ferreri.

Fu presentato in concorso al 26º Festival di Cannes.

Il film narra di quattro uomini che, stanchi della vita noiosa e inappagante che conducono, decidono di suicidarsi, chiudendosi in una casa nei dintorni di Parigi, e mangiando fino alla morte. Il primo protagonista presentato è Ugo, proprietario del ristorante "Le Biscuit a Soup" e grande chef, deciso a suicidarsi probabilmente anche a causa delle numerose incomprensioni con la moglie.

Successivamente viene presentato Michel, produttore televisivo dalla personalità effeminata, divorziato e stanco della vita monotona che conduce. Il terzo personaggio presentato è Marcello, pilota dell'Alitalia, che, essendo un vero e proprio maniaco sessuale, è distrutto dal fatto di essere diventato impotente. Nella prima scena in cui compare, è intento a fare scaricare dalle hostess dell'aereo delle forme di Parmigiano destinate alla villa in cui dovrà ritrovarsi con gli altri tre. Il quarto ed ultimo protagonista è Philippe, importante magistrato che tuttavia vive ancora insieme alla sua balia d'infanzia Nicole, che è iperprotettiva con lui a tal punto da cercare di impedirgli di avere rapporti con altre donne, arrivando ad adempiere lei stessa ai bisogni sessuali del giudice.

I quattro si recano insieme in macchina alla villa, di proprietà di Philippe, nella quale il vecchio guardiano Ettore ha già predisposto tutto per la grande abbuffata, senza sapere tuttavia che l'intento del suo padrone e dei suoi amici sia quello di uccidersi. Ad aspettare Philippe, inoltre, vi è un esponente dell'ambasciata cinese, che vorrebbe offrire al magistrato un lavoro nella lontana Cina che ovviamente Philippe garbatamente rifiuta con la frase Timeo Danaos et dona ferentes, ("temo i greci anche quando portano doni"), citazione virgiliana.

Una volta rimasti soli, i quattro cominciano la loro abbuffata (in una scena ad esempio Marcello e Ugo fanno a gara per vedere chi mangia più velocemente le ostriche), ma vengono interrotti il giorno dopo dall'arrivo di una scolaresca che vorrebbe visitare il giardino della villa per vedere il famoso "tiglio di Boileau", albero sotto il quale il poeta francese era solito sedersi per cercare l'ispirazione. I quattro accettano volentieri e offrono da mangiare a tutta la scolaresca, e soprattutto conoscono Andrea, la giovane e formosa maestra, che viene anche invitata da loro a cena per quella sera. Infatti, sentendosi soli, i quattro si organizzano per avere un po' di presenza femminile, invitando, oltre ad Andrea, tre prostitute.

Andrea, intuendo quale fosse il loro scopo, decide di aiutarli nel loro intento, stabilendo un tacito accordo e rimanendo con loro fino alla morte di tutti e quattro. Il primo a morire è Marcello che, dopo aver tentato di reagire alla propria impotenza sfogandosi col mangiare, in seguito all'esplosione del wc che lo travolge, esasperato e comprendendo l'inutilità di quella farsa, decide di lasciare la villa nottetempo ed in mezzo ad una bufera, a bordo di una vecchia Bugatti che era custodita nel garage della villa.

Gli amici lo ritrovano il mattino dopo, congelato, al posto di guida, e su consiglio di Philippe (che, da buon giudice, vieta l'occultamento di cadavere) lo sistemano nella cella-frigorifero, ben visibile dalla cucina. Dopo Marcello è la volta di Michel che, vittima di violente crisi meteoriche e stipato di cibo all'inverosimile (non riesce nemmeno più a sollevare le gambe e ad esercitarsi nella danza, suo passatempo preferito), stramazza sul terrazzo. Gli amici lo sistemano nella cella accanto a Marcello.

Poco dopo tocca ad Ugo, che s'ingozza, fino a morirne, di un piatto a base di tre tipi diversi di fegato, a forma di cupola di San Pietro da lui stesso preparato, e puntualmente rifiutato dai compagni ultrasazi. Su consiglio di Andrea, rimane esposto sul tavolo della cucina, "il suo regno". Ultimo ad andarsene è il diabetico Philippe, sulla panchina sotto il tiglio di Boileau e tra le braccia di Andrea, dopo aver mangiato un dolce a forma di seno preparato dalla donna, la quale lo lascia lì e rientra nella villa, il cui giardino è invaso dai cani attratti dalla carne che i fornitori hanno portato e lasciata appesa sulle piante.

Location

Il film fu girato a Parigi presso una villa in Rue Boileau, nel febbraio 1973.

Soggetto

«Basta con i sentimenti, voglio fare un film fisiologico!».

Marco Ferreri a proposito de La grande abbuffata

Il film contiene una feroce critica alla società dei consumi e del benessere, condannata, secondo l'autore, all'autodistruzione inevitabile. I bisogni e gli istinti primordiali, filtrati e normalizzati nel loro raggiungimento, divengono "noiosi" ed abbisognano di continue unicità per essere graditi. Ma la ricerca della difficoltà fine a se stessa comporta l'abbandono dell'utilità e sfocia inevitabilmente nella depressione e nel senso di inutilità. L'unica salvezza è rappresentata dal genere femminile, legato alla vita per missione biologica.

Critica

Il film venne stroncato dalla maggioranza dei critici, platealmente fischiato al Festival di Cannes e pesantemente tagliato dalla censura. Fu inoltre criticata l'abbondante presenza di scene di sesso, oltre che di alcune scene da molti definite volgari, come quelle in cui si manifesta il meteorismo di Michel o quella in cui esplode il WC di uno dei bagni della casa inondando di feci la stanza. Ciò nonostante la pellicola riscosse un successo di pubblico immediato ed enorme. Per la sgradevolezza e la forza eversiva delle tematiche trattate, Cahiers du cinéma inserì il film in una sorta di ideale "trilogia della degradazione" insieme a Ultimo tango a Parigi (1972) e a La maman et la putain (1973).

A seconda delle opinioni il film venne definito di volta in volta: «il film più ideologico di Ferreri» (Adelio Ferrero), «un monumento all'edonismo» (Luis Buñuel), «specchio delle verità come eccesso» (Maurizio Grande). Pier Paolo Pasolini dedicò all'opera un'ampia recensione apparsa sulla rivista Cinema Nuovo, nella quale definì il film: «corpi colti in una sintesi di gesti abitudinari e quotidiani che nel momento in cui li caratterizzano li tolgono per sempre alla nostra comprensione, fissandoli nella ontologicità allucinatoria dell'esistenza corporea».

Non è un caso che il film a posteriori sia stato accostato proprio a Salò o le 120 giornate di Sodoma dello stesso Pasolini; anche se in forma meno cruenta, nella pellicola di Ferreri si riscontrano influenze dell'opera di Donatien Alphonse François de Sade. Come in Pasolini, e nel romanzo sadiano prima di lui, i quattro convitati nella villa parigina incarnano delle figure tipiche metaforiche, in questo caso raffiguranti un potere e tre prodotti dell'ideologia borghese: la giustizia (Phillipe), l'arte e lo spettacolo (Michel), la cucina, il cibo (Ugo), l'amore galante e l'avventura (Marcello). Ed è proprio questo sistema ideologico che viene pesantemente preso di mira dal regista, grottescamente schernito, nel tentativo di eliminarlo, assieme alle scorie vitali, con un vivere ridotto alle funzioni elementari: mangiare, digerire, dormire, bere, copulare, orinare, defecare.

fonte: wikipedia

VERSIONE INTEGRALE

lunedì 26 maggio 2014

Juri Camisasca


Robyn Hitchcock


tomba Brion

Carlo Scarpa e la tomba monumentale Brion a San Vito di Altivole


Il complesso funebre monumentale 'Brion', a San Vito di Altivole, fu commissionato all'architetto-designer Carlo Scarpa da Onorina Brion Tomasin in memoria dell'amato coniuge Giuseppe Brion, prematuramente scomparso.
L'industriale era nato nel piccolo paese trevigiano ed è notissimo per il marchio Brionvega, faro del design Made in Italy per l'industria degli apparecchi radiofonici e televisivi degli anni '60 e '70. Vi collaborarono infatti i maggiori designers dell'epoca, quali Marco Zanuso, Achille Castiglioni, Ettore SottSass, Sergio Asti, Rodolfo Bonetto e molti altri.

La tomba monumentale fu commissionata a Scarpa nel 1969, che vi lavorò fino al 1978, anno della sua morte avvenuta in Giappone. Lo stesso Scarpa volle essere sepolto in questo luogo, in posizione appartata del complesso monumentale.
Il cimitero del piccolo paese, a poca distanza da Asolo e con sullo sfondo le gobbosità dei colli Asolani e più in là l'imponente mole del monte Grappa, si trova in posizione isolata nella campagna coltivata. La parte privata monumentale avvolge ad elle due lati del vecchio cimitero tradizionale, e tra le due aree vi è un varco caratterizzato da due grandi fori che richiamano le fedi nuziali intrecciate, oltre i quali il prato e il laghetto, permettendo un passaggio dal fortissimo impatto emotivo tra i due diversi mondi.
La vasta area monumentale Brion è ariosa, con ampie aiuole prative, grandi vasche d'acqua che ammorbidiscono l'opprimente profusione di cemento armato, ingabbiato dalla nuda muraglia perimetrale, sempre di cemento armato.
Tutti gli elementi connotano una grande ricerca dei piani e degli elementi simbolici, con l'acqua fonte di vita.
Al centro, asimmetrica eppur razionalmente lavorata dal cemento armato, l'arca aperta ai lati con i sarcofagi dei due coniugi inclinati l'uno verso l'altro quale simbolo d'amore.
Molto suggestivo il grande cubo di cemento, completamente attorniato dall'acqua, della cappellina con all'interno, sopra l'altare, una specie di cupola-pagoda colorata fatta a piramide a gradini aperta al cielo sulla punta.
Oltre il corridoio coperto, appoggiata ma non saldata alla mura di cinta, una pesante tettoia di cemento, definita la tenda-caverna, protegge altri sarcofagi.

Tomba Brion è una delle maggiori opere monumentali realizzate da Carlo Scarpa, nato a Venezia nel 1906 e morto a Sendai (Giappone) nel 1978 per cause accidentali.
Opera matura, sintesi tra le varie esperienze del maestro indiscusso nel trattare il cemento armato a nudo con finalità grafiche-decorative, con inserti di tasselli e mosaici di vetri colorati di Murano, finiture in bronzo, sapientemente miscelate nell'atmosfera sicuramente surreale che allo stesso tempo s'immerge nella filosofia Zen e nell'arte Giapponese, caratterizzata da vasche e da canalette d'acqua.

La pesantezza del nudo cemento, l'atmosfera grigia e la forma opprimente degli edifici, quasi dei bunker militari, ci riportano costantemente alla gravità della condizione cimiteriale.
Tuttavia, superato il trauma emotivo iniziale, l'animo può rasserenarsi alla contemplazione e alla profonda meditazione, accarezzato da quegli specchi d'acqua, specchi di luce e di scampoli di cielo, cullato dal dolcissimo e appena percettibile movimento dell'acqua nelle canalette, dalla lentissima evoluzione della vita delle ninfee e delle alghe.

Infine la meraviglia nello scoprire tutti quei sorprendenti dettagli, dalla lavorazione seriale e incredibile del cemento nudo, a tutta l'opera decorativa fatta di materiali compositi e colori, utilizzati in maniera molto sobria e minimalista.

La visita al cimitero di San Vito è esperienza estremamente appagante, rivolta innanzitutto al visitatore meditativo ed introverso e poi allo studioso di architettura e design per la grande importanza del sito nello scenario artistico dell'ultimo quarto di secolo del novecento.
L'arte di Scarpa influenza in modo determinante le esperienze e le opere di numerosi designers e architetti contemporanei, come ad esempio Mario Botta.
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bibliografia Carlo Scarpa e San Vito di Altivole
titoloautoreedizione
Carlo Scarpa's Tomba BrionG.GuidiHatje Cantz Verlag 2011
A lezione con Carlo ScarpaFranca SemiCicero Editore - 2010
Carlo Scarpa e il GiapponeM.PiercontiElecta - 2006
Carlo Scarpa. I disegni per la Tomba BrionE.TerenzoniInventario - 2006
Carlo Scarpa. La fondazione Querini Stampalia a VeneziaF. Del Co, P.TarrassanElecta - 2006
Carlo Scarpa. Il complesso monumentale BrionV.ZanchettinMarsilio - 2005
Carlo Scarpa. L'architetto e le arti. Gli anni della Biennale di Venezia 1948-1972O.LanzariniVenezia - 2003
Tomba monumentale BrionIUAV rilievo 1998IUAV - 2000
La conservazione dell'architettura contemporaneaCasabella - 2000
Carlo Scarpa 1906-1978F. Del Co, G.MazzarioliElecta - 2000
Carlo Scarpa, memorie causaVerona - 1997
Scarpa, il pensiero, il disegno, i progetti.M.A.CrippaJaka Book - 1984
Ai piedi del Grappa.
Guida storica-turistica di Bassano del Grappa, Marostica, Nove, Cittadella, Castelfranco Veneto, Asolo, Cittadella.
Padova - 1981
fonte: www.magicoveneto.it